Rialto    IdT

461.141

 

   

Anonimo

 

 

 

 

   
   

I.

   
   

Gia non cugei qe m’aportes ogan

 

Ormai non credevo che quest’anno una nuova ragione mi avrebbe portato a comporre un sirventese su molti baroni e su quello che ha la Castiglia, nel quale buon pregio ed onore diminuiscono; giacché se egli abbandona suo fratello nei tormenti, ben abbandonerà sia il cugino sia i parenti. Ma il clamore è tale da slanciarsi per tutto il mondo.

 

   

nova razo a far un serventes

 
   

de main baron e sil cui Castel’es,

 
   

en chui bos prez ed onors desenansa;

 
5  

car s’il lassa son fraire en turmens,

 
   

ben laissara e·l chuzin e·ls parens.

 
   

Ma·l bruit es tals, per tuit li mon se lansa.

 
   

 

   
   

II.

   
   

Be·m meraveil des Engles con estan,

 

Mi meraviglio molto di come se ne stanno gli Inglesi, perché sono umiliati, e questo lo sanno, a causa dei Francesi, eppure adesso se ne vanno a proteggere la terra altrui. Sarebbe più appropriato recuperare il loro con le armi e che strappassero via il segno che con vergogna fu messo al fronte, perché è troppo evidente; e lo farebbero, se la Francia fosse addormentata.

   

car son oniz, so sabon, per Frances,

 
10  

es era van gardan l’altrui paes.

 
   

Plus fora gen cobrar lo son a lansa

 
   

e ostison lo seng ch’a onimens

 
   

fo mis al fron, qe es trop aparens;

 
   

si faran il, s’endormida fos Fransa.

 
   

 

   
   

III.

   
15  

L’Enfan Don Pier se degra trar enan

 

L’Infante Don Pietro dovrebbe farsi avanti con grande sforzo insieme ai suoi Aragonesi, poiché sono arditi e tanto esperti in fatto d’armi, con le quali i vassalli gli rendono vantaggio in cambio di vendetta. E io credo che compiranno imprese valenti verso quella parte da cui proviene un dolore cocente, altrimenti non vivranno con onore.

   

per gran esforz a ses Aragones,

 
   

car son arditz e tan d’armas apres,

 
   

don pro vasal li rendon per venjansa.

 
   

E ge chuit qe il faran faitz valens

 
20  

ver sella pars ond lor vien duol chucens,

 
   

es autramen non viuran ab onransa.

 
   

 

   
   

IV.

   
   

Donc li baron Aleman qe faran,

 

Dunque cosa faranno i baroni tedeschi e il vigliacco duca d’Austria, che è disonorato, e quello di Meissen che è chiamato “marchese”, e tanti altri di cui non faccio menzione, che erano soliti compiere le loro belle imprese e ora se ne stanno come sconfitti, temendo? E questo accade perché hanno paura di loro.

   

e·l crois dus d’Estorica, q’aunitz es,

 
   

e sel de Missa q’es clamat “marqes”,

 
25  

e maint d’autres, de chui non fai membransa,

 
   

qe solïon far lor faitz avinens

 
   

es era stan chon recreans, temens?

 
   

E so aven per ch’an de lor doctansa.

 
   

 

   
   

V.

   
   

Li crois barons recreans e temens

 

Ora detesto i baroni vigliacchi, arrendevoli, timorosi, e porto loro malevolenza; e ai valenti io m’inchino per l’onore.

30  

aïr ades, e ai lur malvolensa;

 
   

e als valens m’aclin’eu per onransa.

 

 

 

 

Testo: Cesare Mascitelli, Rialto 3.i.2019.


1. L’incipit trova illustri precedenti in Gui d’Ussel, Ja non cugei que·m desplagues amors (BdT 194.11) e Ja non cudiei trobar (BdT 194.12), e Raimbaut de Vaqueiras, Ja non cujei vezer (BdT 392.29).

3. Il verso, che nel ms. è De main baron e sil qes roi castel es, è stato variamente restaurato dai precedenti editori: Blasi, «Un serventese», p. 44, propende per De main baron, del rei, cui Castell’es, mentre De Bartholomaeis, «Sirventese anonimo», p. 55, stampa De maint baron e del Rei Castelles (commentando poi in nota, a p. 56: «Castelles per Castellas è ben legittimo»). In una breve nota apparsa l’anno seguente, Giulio Bertoni, «Sul testo del serventese politico: Ja non cugei», Archivum Romanicum, 16, 1932, pp. 316-318, a p. 317, legge invece De main baron del Rei, cui Castell’es. L’ultimo editore in ordine di tempo, Jeanroy, «Un sirventés», p. 2, modifica più profondamente il verso, proponendo Main croi baron e sil cui Castel’es. Si è qui scelto di interpretare sil qes roi come una banalizzazione per sil cui, introdotta dal copista o risalente al suo modello. Sembra impossibile seguire De Bartholomaeis su Castelles, mentre più convincente è Castel’es preceduto dal dativo di possesso, struttura peraltro ben attestata in provenzale (Arnaut de Maroill, Anc vas amor no·s poc res contradire, BdT 30.8, v. 9: «cel cui es Monpesliers»; Bertran de Born, Pos Ventadorns e Comborns ab Segur, BdT 80.33, v. 20: «cel cui es Marsans»). Il re castigliano in questione è certamente Alfonso X (1221-1284), al quale si rinfaccia la mancata reazione alla prigionia del fratello Enrico (cfr. la nota al v. 5 e le Circostanze storiche).

4. L’integrazione di en all’inizio del verso ([A] in Blasi, per in De Bartholomaeis; Jeanroy rielabora in Chui falh) si rivela indispensabile per ricondurre il verso alla giusta misura. Bos prez ed onors è nominativo retto da desenansa, concordato per sillessi con soggetto plurale.

5. son fraire: si tratta di Enrico di Castiglia (1230-1303), fratello di Alfonso X che fu condannato alla prigionia a vita da Carlo d’Angiò nel 1268, poco tempo dopo la sconfitta di Corradino di Svevia a Tagliacozzo: si vedano le Circostanze storiche.

6. e·l chuzin: dovrebbe trattarsi di Pietro d’Aragona, dal 1276 sovrano con l’appellativo di Pietro III, richiamato in causa nella terza cobla. È interessante notare che, se l’interpretazione del legame di parentela è esatta, l’autore del componimento aveva bene a mente la comune ascendenza dei due sovrani, vale a dire il trisavolo Alfonso VII di León: ciò faceva di Pietro III e Alfonso X due cugini di terzo grado. De Bartholomaeis, «Sirventese anonimo», p. 62, vi ravvisa invece Luigi IX, re di Francia, ma l’ipotesi non sembra coerente con il tono generale del componimento, che sembra alludere ad eventi posteriori alla datazione da lui proposta (1257).

9-11. L’espunzione del ridondante il (v. 9: cf. apparato critico), promossa da tutti gli editori, si rende necessaria per ripristinare la corretta misura del décasyllabe. De Bartholomaeis corregge inoltre van gardan in van gardar (v. 10), ma ciò non è affatto necessario, come notò del resto Bertoni, «Sul testo», p. 317 (che rinvia al Boeci). Il riferimento alle strategie degli inglesi, che soccorrono l’altrui paes (v. 10) anziché cobrar lo son (v. 11), sembra alludere al progetto di crociata che caratterizzò gli ultimi anni di governo di Enrico III (1207-1272) e non, come pensavano Blasi e Jeanroy, alle guerre di Galles intraprese dal figlio di Enrico, Edoardo: si vedano le Circostanze storiche.

12. e ostison lo seng: il passo ha suscitato qualche difficoltà nei precedenti editori. Blasi, «Un serventese», p. 46, corregge in ostijon lo seng[nor] («e movessero guerra al Signore»); De Bartholomaeis, «Sirventese anonimo», p. 55, emenda in ostesan lor segnas (traducendo «guerreggiando a bandiere spiegate»); si attiene al codice Jeanroy, «Un sirventés», p. 2, (traducendo però poco convincentemente «en effaçant cette tache»). Ostison (qui interpretata come forma di ostar: cf. DOM, s.v., «ôter, enlever»), pur grammaticalmente erroneo, è probabilmente autentico e dipenderebbe sintatticamente dal fora gen del v. 11. Quanto a seng si ipotizza un significato analogo a ensenha (cf. DOM, s.v., «enseigne, drapeau»).

13. Il verso, ipometro, è stato oggetto di ampia revisione da parte degli editori. Blasi stampa S’es mis al front, q’es trop aparens; De Bartholomaeis propone arditamente Los mis Alfons, so q’es t. a.; Jeanroy integra il pronome lor ed emenda in Fo mis al fron lor, q’es trop aparens.

14. faran: rispetto al futuro s’imporrebbe qui la forma del condizionale feiran, forse però ignota all’autore del componimento. Si preferisce dunque non intervenire, ma si tiene conto del suo effettivo valore in sede di traduzione («farebbero»). De Bartholomaeis emenda in farian (trisillabo, dunque improprio), Jeanroy in feran.

15. L’Enfan Don Pier: è il futuro re Pietro III d’Aragona (1239-1285). Il fatto che qui sia chiamato Enfan permette di fissare il terminus ante quem al 1276, anno dell’incoronazione di Pietro, il  per il componimento. Si vedano le Circostanze storiche.

18. La comprensione del verso è complicata da quello che sembra un forte iperbato. De Bartholomaeis emenda li in si (s’i nell’edizione Jeanroy), ma non sembra necessario ricorrere alla correzione. Pro va infatti inteso come complemento oggetto; vasal è soggetto plurale retto da rendon; li è dativo riferito a Pietro. Interpretando poi per venjansa come un complemento di sostituzione (‘in cambio di vendetta’), sarà possibile conferire all’intero verso un senso più soddisfacente e letterale rispetto a quello fornito nelle precedenti traduzioni (Blasi: «per cui tutti i vassalli gli rendono servizio, mentre fanno la loro vendetta»; De Bartholomaeis: «che si fanno stimare come valorosi nel trar vendetta»; Jeanroy: «et c’est pourquoi tant de preux vassaux viennent à lui pour tirer vengeance»).

19. Blasi non restaura l’ipometria del verso (E ge chuit q’il faran faitz valens); concordi invece De Bartholomaeis (E ieu cuit ben) e Jeanroy nell’integrare ben (E ge chuit ben).

20. L’intera perifrasi si riferisce con tutta probabilità ai fatti dell’Italia meridionale, e il duol chucens è verosimilmente legato alla presenza in loco di Carlo d’Angiò: si vedano le Circostanze storiche.

22 donc: è correzione necessaria per abolire la sillaba soprannumeraria determinata da adonc. – baron Aleman: è indicazione generica per i sostenitori tedeschi della pars Imperii.

23. Il verso, che nel ms. è gravemente ipometro (El croi dus de stric aunes), è stato variamente emendato: E ‘l croi duc d’Eustric malapres (Blasi), E·l crois Ducs d’Esterric qi aunitz es (De Bartholomaeis), E lo croi duc d’Estrica, c’aunitz es (Jeanroy). Si propone qui di correggere aunes in q’aunitz es e de stric in d’Estorica, di cui risulta attestata una forma molto simile (Austorica) nel planh per Corradino di Svevia composto da Bertolome Zorzi, Si·l mon fondes, a meravilla gran (BdT 74.16, v. 6). L’identità del dus d’Estorica è dubbia: De Bartholomaeis, «Sirventese anonimo», p. 64, pensa a Ottocaro II di Boemia (ma in una prospettiva anteriore ai fatti di Tagliacozzo), mentre Blasi, «Un serventese», p. 38, e Jeanroy, «Un sirventés», p. 6, propendono per Rodolfo d’Asburgo, Rex Romanorum dal 1273. Si rinvia alle Circostanze storiche.

24. Il ms. legge nissa. Blasi, «Un serventese», pp. 40-41, pensa, in riferimento al marqes, a «uno di quei potenti baroni provenzali, sul tipo della casa di Baux o del trovatore Bonifazio della Castellana, che mal sopportavano la dominazione angioina»; De Bartholomaeis, «Sirventese anonimo», p. 64, corregge in Missa (proposta qui accolta, oltre che da Jeanroy, «Un sirventés», p. 7) e propone di identificarla con Meissen, sede dell’omonimo margraviato (noto anche come margraviato di Turingia). In tal caso, è probabile che l’autore si riferisca ad Enrico III di Meissen: si vedano le Circostanze storiche.

25 fai: è da intendersi come 1a p.s. (‘faccio’). La forma, per quanto grammaticalmente inaccettabile in provenzale, potrebbe però risalire direttamente all’autore.

30 malvolensa: De Bartholomaeis emenda in malvolens per conformare l’assetto rimico della tornada al resto del componimento; la costruzione del verso sembra però fatalmente scorretta ab origine.

31 m’aclin’eu: il ms. legge ma clun. La correzione è assimilabile alle precedenti proposte di Blasi (m’aclin[eu]) e De Bartholomaeis (m’aclin ieu); grammaticalmente inaccettabile, invece, è la correzione formulata da Jeanroy (m’aclini).
 

[CM]


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Testo    Circostanze storiche