Rialto    IdT

461.193

 

   

Anonimo

 

 

 

 

   
   

Per zo no·m voill desconortar,

 

Non mi devo sconfortare, perché ho una gran quantità di compagni, a cui sono fatti grandi onori, tanto che pensano di meritarli, sulla base di quanto penso che ognuno sappia, ancora prima che il mondo perisca. Dunque, chi biasima gli altri in malo modo deve essere conoscitore di se stesso, cioè di ciò che gli si può rimproverare.

   

car gran ren ai de compagnos,

 
   

a cui es faiz de gran[s] honors,

 
   

q’ancor li cuida[n] meritar,

 
5  

segon q’ieu cuit [q]e chascuns sapza,

 
   

anz qe lo segle se desfacza.

 
   

Doncs, qi blasm’ autrui malamenz,

 
   

de si deu esser conoisenz,

 
   

de zo q’om li pod reprozar.

 

 

 

 

Testo: Giorgio Barachini, Rialto 28.ix.2018.


2-3. Petrossi assume che la rima sia -órs, ma essa è -ós, da confrontare con -on degli altri testi con medesima formula metrica, sebbene al v. 3 il rimante sia honors (/o'nos/): si tratta di una rima regolare, su cui si veda Giovanna Santini, Rimario dei trovatori, Roma 2011, p. 27.

4. Il ms. reca la lezione Qan cor li cuida meritar, che presenta diversi problemi. De Bartholomaeis corregge «qan om» e traduce i vv. 2-4: «perché ho un gran numero di compagni a cui son fatti grandi onori quando li si vuol rimeritare», dove «li» è riferito ad «onori». Petrossi conserva la lezione del codice (anche al v. 3 lascia gran) che rende con «perché ho un grande numero di compagni a cui è fatto grande onore, quando il cuore li pensa di meritare», usando cor come soggetto non articolato e riferendo li ai «compagni», unico sostantivo maschile plurale della traduzione. È evidente che tutte le traduzioni, compresa quella da me fornita, sono, a rigore, impossibili, perché li in provenzale è solo pronome dativo singolare, mentre meritar è verbo transitivo. Dovremmo quindi trovare los in riferimento a compagnos oppure – ciò che è una soluzione migliore – las in riferimento a honors. Poiché il pronome dativo li non è giustificabile in alcun modo, l’unica possibilità è che sia un italianismo caduto sotto la penna di un copista, che ha inteso honors come maschile plurale. Del resto, anche meritar è un verbo raro in provenzale, che ha per questo significato merir: di meritar si hanno poche occorrenze in testi religiosi tardi, dove potrebbe trattarsi di influsso del latino. Qui, invece, potrebbe essere un altro italianismo. Un ulteriore problema posto dal verso è il soggetto di cuida. Petrossi assume che sia cor senza articolo e declinazione, ma il senso non riesce dei più felici e, ad ogni modo, la questione viene solo spostata dal verbo a cor: questo è il cor di chi? De Bartholomaeis risolve, come si è visto, emendando qan cor > qan om; forse sarebbe preferibile conservare la c: qan c’om. Sono, tuttavia, persuaso che qan cor vada inteso come q’ancor (forma dell’avverbio presente anche in provenzale, ma certo più frequente nel volgare toscano), che anticipa la temporale del v. 6. Soggetto del verbo devono essere i compagnos, pertanto cuida va posto al plurale (sarebbe caduto un titulus). I compagnos pensano di meritare grandi onori già adesso, addirittura prima della fine del mondo, quando ad ognuno verrà assegnato ciò che gli spetta dall’unico vero giudice. Intesa in questo modo, la prima parte della cobla potrebbe essere ironica: l’autore direbbe di conoscere troppe persone che pensano di meritare onori che non gli competono (anche Petrossi afferma che il verbo cuidar significa «“ritenere erroneamente, presumere ingannevolmente”, e quindi comporta lo sfasamento tra ciò che si pensa e ciò che nella realtà delle cose risulta essere»). Ciò parrebbe confermato dagli ultimi tre versi, nei quali l’autore ammonisce coloro che criticano gli altri in malafede (cioè per accrescere il proprio prestigio) senza guardare i propri difetti: è presumibile che costoro siano proprio i compagnos assetati d’onori immeritati, che compaiono nei versi precedenti.

5. Il verso presenta un problema, perché è evidente che la stessa congiunzione (segon q’) non può reggere prima l’indicativo cuit, poi il congiuntivo sapza (sicuramente da leggere sacha, altrimenti sarebbe irregolare la rima con desfacza = desfacha del verso seguente). De Bartholomaeis traduce supplendo alcuni termini non presenti nel testo: «secondo quel ch’io penso e ciascuno voglio che sappia». Petrossi non si pone interrogativi e livella tutto sull’indicativo: «secondo ciò che io penso e ciascuno sa». Qui l’autore sottolinea che la sua opinione (ieu cuit) coincide con ciò che sanno tutti (chascuns sapza): solo alla fine dei tempi si potranno valutare i veri meriti. Pertanto introduco, al posto della coordinazione, un qe subordinante da cui dipende il congiuntivo. In alternativa, si potrebbe trasformare cuit in cuid’ (cioè cuide) al congiuntivo, ma questa soluzione è meno soddisfacente perché la congiunzione segon qe regge di norma l’indicativo.

7-8. De Bartholomaeis elimina de si nella propria traduzione: «deve conoscere ciò che altri può rimproverare a lui». Petrossi traduce con una resa poco efficace in italiano: «di sé deve essere consapevole di ciò che gli si può rimproverare». Il v. 8 amplifica il complemento de si del verso precedente, con un collegamento per asindeto molto frequente in funzione esplicativa. Quelli che biasimano in malafede gli altri, ma non usano lo stesso criterio con se stessi e non fanno un serio esame di coscienza sono probabilmente gli stessi che vorrebbero ricevere grandi onori in vita, dei quali si parla all’inizio della cobla: si veda la nota al v. 4.

[GB]


BdT    Anonimi    IdT

Testo    Circostanze storiche