Note al testo

 

Vengono rispettate le forme del ms., indicative quanto meno al livello scriptologico, e in particolare gli assordimenti rispettivamente di occlusiva dentale e velare in ambtos 4 e cacar 5, normalizzati invece da Kolsen (cfr. apparato). La punteggiatura, discutibile (Komma praticamente in fine ad ogni verso) e in un caso difettosa (manca un segno interpuntivo a fine v. 4) presso il primo editore, è stata rifatta.

1. La congettura integrativa di Pillet (BdT) trova riscontro nel modello di contraffattura (cfr. nota al v. [369] del Modello di contraffattura). L’accezione dell’agg. polisemico bona riferito a domna sarà naturalmente la stessa che nel prototipo letterario, il cui oggetto è appunto la signora costumata o ‘di rango’ (Sansone 1977, p. 80, traduce ‘valente’).

2 e 4. Riguardo il sintagma verbale aia crebat, Kolsen annota che l’accezione di aver sarebbe nella fattispecie «bekommen» (p. 190, n. 2 u. 4), ossia ‘ricevere, ottenere’. Il valore stativo di habeo è piuttosto da inserire nel quadro della genesi degli ausiliari romanzi, per cui cfr. ad es. Rohlfs § 727 (dove si sottolinea l’espressione di «uno stato o un effetto duraturo» nella costruzione habeo + part. pass. già nel lat. classico) e ora, in una nuova prospettiva, Nunzio La Fauci, Per una teoria grammaticale del mutamento morfosintattico. Dal latino verso il romanzo, Pisa 1997, sp. pp. 24-26. Nella fattispecie, si tratterebbe del ricorso, tipico delle sintassi romanze medievali, alla forma attiva per rendere il passivo, il quale, secondo Contini, «è modo dotto, legato alla rappresentazione organica della diatesi, pertanto sostituito da forme attive, o rovesciato in costruzioni attive con prolessi» (G. Contini [ed.], Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, t. I, p. 30). Rohlfs § 737 («Altre espressioni del passivo») cita in proposito l’esempio giornalistico «una donna ha la testa schiacciata dall’ascensore ‘ad una donna viene schiacciata la testa’», curiosamente affine al luogo occitano. La particolare costruzione della cobla si riscontra altresì nel trovatore italiano Bartolome Zorzi (BdT 74.12, 67-70: «Anz qu’aia·l chan affinat, | Dieus en a·l rei jutgat | a mort et a greu turmen | sai e lai mainta gen» [E. Levy (ed.), Der Troubadour Bertolome Zorzi, Halle 1883, pp. 58-61]) come nell’autoctono Gui d’Ussel (194.19,13-16: «Si be·m camjet per lui nesciamen, | lui camjara ben leu plus follamen | per q’ieu no·il sai d’aqest camje mal grat; | qu’ill camjara tro c’aia·l cor camjat» [J. Audiau (ed.), Les poésies des quatre troubadours d’Ussel, Paris 1922, pp. 30-33]). Il significato del v. crebar è ‘crever, percer’ (PD); in italiano, più che ‘spaccare’, sarebbe ‘forare’ o meglio ‘fendere’, ma il part. pass. di quest’ultimo verbo, come si sa, è divenuto oggi obsoleto, mentre in funzione aggettivale conserva la comune accezione di ‘spaccato da una crepa’ (cfr. De Mauro. Il dizionario della lingua italiana, Milano 2000, s.v. 2fésso, 1 e 2).

3. La dittologia aggettivale bela e pros riferita alla donna è tipica del lessico trobadorico già in epoca classica. Solo per fare qualche nome: Raimbaut d’Aurenga (BdT 389.8, 61), Bernart de Ventadorn (70.28, 50), Arnaut de Maruelh (30.9, 8), Gaucelm Faidit (167.59, 51), Raimbaut de Vaqueiras (392.28, 12), Peire Vidal (364.10, 25).

6. Sull’etimo e il significato del termine bacalar (cfr. REW 863, PD: ‘jeune homme; terme méprisant’) dà ora migliori spiegazioni il LEI (s.v. *baccalaris / *baccalarius) che suppone una base celtica bakk- ‘giovane’ per il lat. mediev. baccalari(u)s e riassume, circa gli esiti romanzi: «I significati più frequenti (più del 60% nel sec. XII) sono quello di ‘uomo giovane, adolescente al momento in cui la barba comincia a crescere’ … e di ‘giovane valente, coraggioso e vigoroso’ (38%) senza esprimere un significato sociale, economico o giuridico» (col. 130, ll. 27-33). In àmbito occitano si trova ad esempio un’occorrenza di bacallar nella cosiddetta epistola epica (1205) di Raimbaut de Vaqueiras (BdT 392.III, lassa iii, 12) col significato specifico di «novice in arms» secondo l’editore Joseph Linskill (The Poems of the Troubadour Raimbaut de Vaqueiras, The Hague 1964, p. 311), e una – in accezione spregiativa – in Guilhem Rainol d’Apt (231.4, 25-27: «Domna, Miquels volria fos pendutz, | que tant l’amas qu’en son per fols tengutz, | lo bacalar trachor mensoneguier» [A. Rieger, Trobairitz, Tübingen 1991, pp. 341-42]).

7. Nella scripta dell’occ. antico il risultato di lat. vectis per «männliches Glied» (REW 9173; nel rimario del Donatz si definisce «veretrum» il lemma vethz [J. H. Marshall (ed.), The Donatz Proensals of Uc Faidit, London-New York-Toronto 1969, p. 213, l. 2379]) è attestato, limitatamente al corpus trobadorico, sotto due grafie: la prima, veit – foneticamente conservativa – è presente in testi tràditi dal solo ms. G (BdT 461.35 più il luogo in esame) oltre che in un estribot di Palais (315.5, : in DaQ) e nella strofa 280.1, 9 (attribuita a vari autori), dove «schreibt Hs. H vet, vielleicht als italienische Form (vette)» (PSW, s.v. vech); l’altra forma, con dittongo metafonetico ascendente ed eventuale palatalizzazione del nesso -ct-, trova unicamente riscontro nel canzoniere di Guilhem de Berguedan (210.7, 17 in AIK [vieich] D [viet] e 22, 44 in CR [vieg(z)]). L’opposizione fonetica palatale/dentale fu probabilmente anche geografica, e si continuò infatti nei dialetti moderni: secondo TF (s.v. vié) la forma linguadociana viech si affianca al guascone viet; mentre nell’occ. antico (definito senz’altro roman dal Mistral) sarebbero attestate le forme vieq, viec, veg, viach.

8. Circa il significato del verbo forbir (< germ. furbjan: REW 3592), Kolsen – che si rifiutava di tradurre integralmente «wegen des obszönen Inhalts der cobla» (p. 190) – annota però l’accezione ‘fourbir, nettoyer’ (dal Lexique roman di Raynouard) congiuntamente a quella ‘frotter’ registrata da Mistral (presso Levy, PSW) per l’occ. moderno fourbi. Dallo spoglio delle occorrenze all’interno del corpus lirico dei trovatori (COM1) risulta, fra le poche altre, un’attestazione del verbo in contesto scatologico (Raimon de Durfort, BdT 397.1, 21-23: «“…cornatz lo corn, qu’ayssi lo·us vir, | qu’ieu l’ai fach lavar e forbir, | e ia no·l sentiretz pudir…”» [G. Contini, «Per la conoscenza di un sirventese di Arnaut Daniel», Studi medievali, n.s., 9, 1936, pp. 223-231, a pp. 228-229], dove oggetto di forbir è proprio lo corn ossia, fuor di metafora, l’ano), col significato appunto di ‘strofinare’ o meglio ancora di ‘ripulire per sfregamento’: perfettamente congeniale al luogo in esame. Identica accezione, del resto, possiede il verbo in italiano sia antico (come nella celeberrima terzina dantesca, If xxxiii, vv. 1-3: «La bocca sollevò dal fiero pasto | quel peccator, forbendola a’ capelli | del capo ch’elli avea di retro guasto» [Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a c. di G. Petrocchi, Verona 1966-67, vol. II, p. A561]) che contemporaneo («Allora gli alpini, col dorso della mano, sentono il bisogno di forbirsi i labbri» [Carlo Emilio Gadda, «Dopo il silenzio», in Accoppiamenti giudiziosi, Garzanti, Milano 1990, p. 47]). Ora, la forma tràdita dal ms. (s(e) forbisca) è un normalissimo cong. pres. di 3ª pers. sing. con suffisso incoativo (cfr. ad es. J. Anglade, Grammaire de l’ancien provençal, Paris 1921, p. 283) del verbo riflessivo, che chiude anzi coerentemente la serie dei cong. pres. nelle completive (aia 2 4, men 6: cfr. Jensen, § 582). Non è perciò affatto chiara la correzione di Kolsen, che così ammette in nota: «forbis ist imperf. conj., 3. Pers. sg.» (p. 190, n. 8). E neppure giustificabile è l’utilizzo del verbo in maniera intransitiva, seguito cioè da un complemento indiretto (al cul) e non diretto: nei rari esempi trobadorici l’uso di forbir è infatti o assoluto o transitivo (cfr., oltre al luogo di Raimon de Durfort citato sopra, questi versicoli di Giraut de Bornelh, ove però il verbo è impiegato nella sua più comune accezione metaforica: «e qi·m crezes | c’aissi chantes, | polira, | forbira | mo chan | ses afan | gran» [242.16, 8-14], editi dallo stesso Kolsen [Sämtliche Lieder des Trobadors Giraut de Bornelh, Halle 1910, vol. I, pp. 130-38]), e tale è pure negli esempi di «Nebenformen frobir, robir» citati in PSW dai medievali Comptes de Riscle.