Rialto

29.10

Arnaut Daniel

 

 

 

 

 

 

 

Testi: Canello 1883, Toja 1960, Perugi 1978, Eusebi 1995 (X). – Rialto 24.i.2008.


Mss.: A 41, B 29, C 204, D 51v, H 10, I 65, K 50, N 190, N2 1, R 48v, Sg 96, U 27v, V 103, a 105; la tornada è citata anche in Vida, b Ind. 5 (prima cobla) e x 50.

Edizioni critiche: Ugo Angelo Canello, La vita e le opere del trovatore Arnaldo Daniello, edizione critica corredata delle varianti di tutti i manoscritti, di un’introduzione storico-letteraria e di versione, note, rimario e glossario, Halle 1883, p.108 (X); René Lavaud, Les poésies d’Arnaut Daniel, réédition critique d’après Canello avec traduction française et notes, Toulouse 1910 (ristampa anastatica Genève, Slatkine, 1973), p. 58 (X); Arnaut Daniel, Canzoni, edizione critica, studio introduttivo, commento e traduzione a cura di Gianluigi Toja, Firenze 1960, p. 271 (X); Maurizio Perugi, Le canzoni di Arnaut Daniel, Milano-Napoli 1978, II, p. 319 (X); James J. Wilhelm, The Poetry of Arnaut Daniel, edited and translated, New York - London 1981, p. 41 (X); Arnaut Daniel, L’aur’amara, a cura di Mario Eusebi, Parma 19952, p. 92 (X).

Altre edizioni: Henri Pascal de Rochegude, Le Parnasse occitanien, ou Choix des poésies originales des troubadours, tirées des manuscrits nationaux, Toulouse 1819, p. 256; Carl August Friedrich Mahn, Die Werke der Troubadours in provenzalischer Sprache, 4 voll., Berlin 1846, vol. II, p. 73; Erhard Lommatzsch, Provenzalisches Liederbuch. Lieder der Troubadours mit einer Auswahl biograph. Zeugnisse, Nachdichtungen und Singweisen zusammengestellt, Berlin 1917, p. 109 (poi in «Leben und Lieder der provenzalischen Troubadours», in Auswahl dar geboten von E. L., Berlin 1957, I, p. 31); Joseph Anglade, Anthologie des troubadours, Paris 1927, p. 83; Jean Audiau - René Lavaud, Nouvelle anthologie des troubadours, Paris 1928, p. 55; André Berry, Florilège des Troubadours, Paris 1930, p. 188; Raymond T. Hill - Thomas G. Bergin, Anthology of the Provençal Troubadours, 2 voll., New Haven 1941, vol. I, p. 78; Franz Wellner, Die Troubadours, Leben und Lieder. Verdeutscht und eingeleitet, Leipzig 1942, p. 102; Antonio Viscardi, Florilegio trobadorico, Milano - Varese 1947, p. 73; Georges Ribémont - Dessaignes, Les Troubadours. Textes choisis et traduits, Fribourg-Paris 1946, p. 107; Francesco Piccolo, Primavera e fiore della lirica provenzale, Firenze 1948, p. 171; Pierre Bec, Petite anthologie de la lyrique occitane du Moyen Âge, Paris 1954, p. 88 ; Luciana Cocito, Lirica trobadorica, Genova 1958, p. 94; Aurelio Roncaglia, Antologia delle letterature d’oc e d’oïl, Milano 1973, p. 334 (testo Toja); Martín de Riquer, Los trovadores. Historia literaria y textos, 3 voll., Barcelona 1975, II, p. 628 (testo Lavaud); Pierre Bec, Anthologie des troubadours, Paris 1979, p. 186 (testo Lavaud); Giuseppe E. Sansone, La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei trovatori, 2 voll., Milano 1984, I, p. 278 (testo Perugi); Arnaut Daniel, Poesías, traducción, introducción y notas por Martín de Riquer, Barcelona 1994, p. 141 (testo Eusebi, con un intervento al v. 28).

Al v. 40 dell’ed. Eusebi si corregge il probabile refuso qu·om > qu’om.

Metrica: a7’ b7’ c7 d7’ e7’ f7 g7’ (Frank 875: 7). Sei coblas unissonans di sette versi e una tornada di tre.

 

Note

L’ordine delle strofi adottato da Canello sulla base del suo acume esegetico più che di una puntuale e precisa conoscenza della tradizione, quello di DHU (ma per lui del solo U: «Intanto avvertiamo che per l’ordine delle strofe seguiamo U, come quello che men peggio par soddisfare al senso» [p. 224]), è accettato anche da Lavaud, Toja ed Eusebi. Perugi si discosta da questi e dal resto dei codici, invertendo seconda e terza cobla del testo vulgato; questa inversione, però, a parere di Eusebi, «stravolge uno sviluppo tematico che ha una corrispondenza illuminante in un’altra canzone, la xii, strofe v-vi: in entrambe si articola in: 1) richiesta di aiuto divino; 2) timore di perdere quello che troppo si desidera» (p. 92). A parte il passada di CR a 4 preferito da Perugi e da Eusebi paleograficamente spiegato («La -d- di passada […] sarà da vedere come risultato della fusione di -tl-» [p. 94]) , una divaricazione testuale tra quest’ultimo («c’Amors m’aesplan’e·m daura») e la vulgata («qu’Amors marves plan’e daura») si attua a 5, anche se, come si vede, si tratta di varianti sostanzialmente adiafore: il problema vero è che nessuno degli editori ci spiega il fine reale di queste operazioni di piallatura o levigatura e limatura del chantar. Ci ha provato Andrea Pulega, «Arnaut Daniel e il pubblico: lettura di Ab gai so conde e leri», in Quaderni del Dipartimento di lingue e letterature neolatine [Università di Bergamo], 6, 1991-1992, pp. 7-25, alla p. 13: «È evidente che il poeta vuole, comunque, realizzare uno stile impegnato e severo: se non un chiuso trovare, quanto meno un trobar ric – e, infatti, non mancano certo nel componimento, ad esempio, le caras rimas e molteplici altri artifici […]»; ma siamo sicuri che sia proprio così? C’è una canzone, Al plus leu qu’ieu sai far chansos (BdT 213.1a), da una parte della tradizione attribuita a Guillem de Cabestanh (dal resto assegnata a Guiraut de Bornelh), che presenta nella prima cobla inconfutabili affinità con i vv. 5-6 della canzone di Arnaut (la presenza del verbo daurar e della locuzione planar mon chantar, che si dovrebbe considerare una vera e propria citazione, se solo potessimo essere certi della paternità più tarda, e che comunque indebolisce seriamente l’ipotesi di Perugi) e che parrebbe indirizzare esattamente nella direzione opposta a quella ipotizzata da Pulega, vale a dire verso il trobar leu: «Al plus leu q’ieu sai far chanssons, / cum cel que daur’ et estaigna, / m’i empren eras, mas doptos / sui que sabers no·m sofraigna. / Mas per tal mi platz essaiar / cum leu chanssoneta fezes, / car so chant’om mais q’es meins car, / per q’eu vau planan mon chantar / d’escurs digz c’om leu apreses» (Montserrat Cots, «Las poesías del trovador Guillem de Cabestany», Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona, 40, 1985-1986, pp. 227-330); d’altra parte è possibile che il verbo planar si sia venuto specializzando proprio in direzione della levità verbale, come sembra doversi desumere da questi ulteriori riscontri: Giraut de Bornelh, Tot suavet e de pas (BdT 242.79) 1-5 («Tot suavet e de pas / rien jogan / vauc un chantaret planan / de dichs escurs / c’us non i remanha» [Adolf Kolsen, Sämtliche Lieder des Trobadors Giraut de Bornelh, Niemeyer, Halle 1910-35, 2 voll., vol. II, p. 154]) e Cerveri de Girona, Obra sobtil, prim’e trasforia (BdT 434a.43) 1-6 («Obra sobtil,    prim’e trasforia / volgra polir    si agues prim engeyn, / mas tot ades entayll e plan e lim / homils motz clars e un leuger sonet, / car trayt no t’an    d’un armari    ses clau / per far un vers     als plasenz agradables» [ Martín de Riquer, Obras completas del trovador Cerveri de Girona, Barcelona 1947, p. 245]).

A 8 (15 di Perugi) la vulgata pone a testo la lezione tot iorn di ABCRSgUa, mentre Perugi opta per ades DHIKNN2V considerandolo «più pregnante» (p. 337); a favore della prima si può citare Arnaut de Maruelh, A gran honor viu cui jois es cobitz (BdT 30.1) 30-31: «mas a totz jors dobla ma voluntatz / de ben amar et esmer’e meillura» (Ronald C. Johnston, Les poésies lyriques du troubadour Arnaut de Mareuil, Paris 1935, p. 122), che denunciano un evidente legame col verso arnaldiano.

Merita un’attenzione particolare, invece, la divaricazione che si determina a 16 (9 di Perugi) tra l’opzione della vulgata (en art lum ABCDHRVa) e quella di Perugi (e fas lum IKNN2), che così argomenta: «Proponiamo di riconoscere in fas l’enigmatico sostantivo lemmatizzato da SW per tre luoghi: […] si tratterebbe […] dell’unico discendente diretto di fax […]. Il verbo reggente corrisponde allora a lum, che se si intende come sostantivo presenta un singolare un po’ enigmatico» (p. 336). C’è un passaggio di Guilhem de Saint Gregori, ignorato dagli editori, che potrebbe rivelarsi risolutivo della vertenza: si tratta dei vv. 7-8 della sestina Ben grans avolesa intra (BdT 233.2) che, com’è noto, «riprende lo schema metrico e le parole-rima della sestina di Arnaut Daniel» e che, a parere dell’ultimo editore, «dev’essere datata entro il secondo decennio del sec. XIII» (Michele Loporcaro, «Due poesie di Guilhem de Saint Gregori [BdT. 233.2 e 233.3]», Medioevo romanzo, 15, 1990, pp. 17-60, alle pp. 23 e 33): «N’Aemars fai lum en chambra / de sef ardent quan a privat se·n intra»; trattandosi di un’imitazione dichiarata della poesia (non solo della sestina) arnaldiana, si può dire certa la volontà del suo autore di richiamare il verso in questione. In questo caso i versi di Guilhem vanno considerati come una conferma preziosa dell’opzione testuale di Perugi ma non della sua interpretazione; in definitiva: «e fas lum de cer’e d’oli» (‘e faccio luce con cera e olio’).

A 24 Eusebi, accogliendo la lezione di CDHVa («s’om ren per trop amar pert»), si distacca dalla vulgata, che opta invece per quella di ABIKNN2 («s’om ren per ben amar pert»), a nostro parere da preferire perché in questo assetto il verso è modellato su Bernart de Ventadorn, Can par la flors josta·l vert folh (BdT 70.41) 13: «E s’om ja per ben amar mor» (Bernart von Ventadorn, Seine Lieder mit Einleitung und Glossar, herausgegeben von Carl Appel, Halle 1915, p. 235), la cui estrema rilevanza si collega al fatto di appartenere a un componimento che può considerarsi quasi l’ipotesto di Autet e bas (BdT 29.5), come si ricava dalla nostra ‘lectura’ di questa canzone arnaldiana.

Complessa la situazione che riguarda i vv. 25-28; Canello, pur traducendo tutti e quattro i versi («Il suo cuore tracima sul mio e lo allaga, né più s’evapora; e tanto essa ha fatto co’ [miei] versi da usuraja, che ora è padrona dell’officina e dello spaccio» [p. 129]), manifesta con chiarezza il suo disagio nella nota a 27-28: «Versi oscuri, dei quali non si vede bene il collegamento logico con quanto precede» (p. 226). Il disagio è già sparito in Lavaud (ma non in Toja [cfr. n. a 27-28, p. 280: «i versi sono oscuri, non tanto per il senso letterale, quanto per il legame logico col contesto»], che pure lo segue) che corregge a 27 in ver il vers di Canello e intende obrador come “artisan” («Car son cœur submerge le mien tout entier d’un flot qui ne s’évapore plus. Elle a en cela vraiment si bien fait l’usure qu’elle possède à la fois l’artisan et la boutique» [p. 63]), ma propone in nota una diversa lettura per 25-26: «peut-être la métaphore est-elle tirée non de l’inondation, mais du vol de l’oiseau de proie qui s’abat, se pose sur sa victime et la “surmonte”, impitoyable, sans “s’essorer” ou “s’envoler” de nouveau (?)» (p. 62). Nessuna peplessità neanche in Perugi, che accoglie a 27 per la prima volta la lezione quasi unanime dei manoscritti (tant ai corretto dagli editori precedenti in tant a) e rilancia la proposta alternativa di Lavaud («il suo cuore, tutto, supera il mio d’un balzo senza involarsi nell’aria; tanto ho accresciuto il mio capitale di sentimenti che posso tenerne officina e bottega» [p. 331]), spiegando in nota: «La presenza di ver nel verso fa ritenere d’altra parte che la nostra metafora alluda a quanto espresso in 9.45-7: Arnaut ha tanto accresciuto, con la tecnica del prestito a usura, il capitale delle proprie verità amorose che ora ne possiede a sufficienza per mantenere sia l’officina che la vendita a minuto» (p. 342). In realtà Perugi non solo non pone rimedio al motivato disagio di Canello e Toja, ma, allineandosi totalmente agli altri, non fa parola del legame logico, che pure deve necessariamente esistere, tra 22-24 e 25-28. Va forse considerato come un tentativo di aggiramento del non lieve ostacolo il legame sintattico (subordinazione causale) istituito da Eusebi tra 25-26 e quel che precede: «perché il suo cuore sovrasta completamente il mio e non si stacca: tanto invero ha praticato su di lui l’usura da possederlo tutto» (p. 96). Ma non si riesce a capire quale rapporto di causa-effetto possa esistere tra il predominio del cuore della donna su quello del locutore e la paura di questi di perdere l’amata per trop voler. Partendo da questa constatazione, siamo arrivati alla conclusione che i vv. 25-26 devono essere per forza la condizione o la premessa di 27-28 e che l’intero blocco 25-28 la condizione/premessa di 22-24. Con questo risultato: ‘per il fatto che il suo cuore sovrasta del tutto il mio e non se ne stacca ho in verità a tal punto ampliato il mio capitale (insomma la sua signoria mi ha così arricchito e ha così migliorato la mia condizione), che posso tenerne officina e bottega (che posso puntare al possesso completo, ad avere tutto)’; ed è proprio questa raggiunta sicumera che potrebbe portarlo a perdere tutto, come temuto nei vv. 22-24.

Riguardo al v. 31 risulta per noi di grande interesse l’indicazione di Perugi per revert («Il lemma deve dunque stare in rapporto d’isotopia con la metafora commerciale continuata in questi versi, e significare qualcosa come “ripresa da un dissesto economico, ricupero del capitale malamente investito”» [p. 343]), ma intenderemmo il termine piuttosto come ‘incremento o accrescimento del capitale’, sicché i vv. 29-31 si potrebbero così tradurre: ‘Non vorrei l’impero di Roma né che mi si facesse pontefice, se questo non mi procurasse un incremento del capitale (di credito e di stima) che ho accumulato con lei’. Gli altri editori lo intendono invece o come deverbale da revertir (‘ritorno’: Canello, Lavaud, Toja) o come un sinonimo di repaire (Eusebi).

Divergenti anche le opinioni sul sintagma in clausola a a 38 (en desert, che Perugi scrive endesert): «che così languire mi fa» (Canello), «quoique cela me retienne dans la solitude» (Lavaud), «sebbene mi tenga come in un deserto» (Toja), «per quanto mi tenga senza la ricompensa dovuta ai miei meriti» (Perugi), «anche se non si cura di me» (Eusebi). Noi riteniamo che forse la soluzione si può trovare considerando desert come metonimico per ‘espiazione, penitenza’ e collegando (come Eusebi) 38 a 39: ‘anche se mi fa fare penitenza, per lei compongo melodia e rima’.

  [af]


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