Rialto

132.4

 

   

Elias de Barjols

 

 

 

 

   

I.

   

Ben deu hom son bon senhor

   

amar e servir

   

et honrar, et obezir

4  

a tota s’onor;

   

e de mal senhor ses merce,

   

quant ponha·ls sieus en desfaire,

   

se deu hom qui pot estraire,

8  

quant sos servizis pro no·lh te.

   

 

   

II.

   

Atressi·s deu hom d’Amor

   

per bon dreg partir,

   

quant hom no s’en pot jauzir

12  

ni·l val ni·l acor;

   

per so·m part forsatz e·m recre

   

d’Amor, cuy fuy mercejaire,

   

que anc jorn no·m volc ben faire

16  

ni no ac chauzimen de me.

   

 

   

III.

   

Partitz me suy de l’error

   

en que·m sol tenir

   

Amors, e del lonc dezir,

20  

don non sen dolor;

   

e sitot m’ai dels mals guanre

   

e dels bes no·m lauzi guaire,

   

sos dans m’es greus a retraire:

24  

aitan li port de bona fe!

   

 

   

IV.

   

Jamais semblant trichador

   

no·m poiran ausir

   

ni ja no·m faran languir

28  

huelh gualïador:

   

quar folhs es qui sos folhs huelhs cre

   

mayntas vetz, so m’es vejaire,

   

e fols qui trop es guardaire

32  

d’aisso que no·l tanh ni·l cove.

   

 

   

V.

   

Al valent emperador

   

vuelh mostrar e dir

   

que totz met Dieus en azir

36  

mas son servidor;

   

e pus Dieus l’a donat de que,

   

sierva·l a dreg l’emperaire,

   

qu’om del mon no pot plus traire

40  

mas tant quant i fara de be.

   

 

   

VI.

   

Comtessa Beatris, gran be

   

aug de vos dir e retraire,

   

quar del mon etz la bellaire,

44  

de las autras dompnas qu’om ve.

   

 

   

VII.

   

En Blacas, jes no se recre

   

de son fin pretz enan traire,

   

ans val mais que no sol faire,

48  

e melhuyr’e creys so que te.

 

 

Traduzione [GB]

I. Un vassallo deve davvero amare e servire e onorare il proprio valente signore e obbedire in tutto al suo potere feudale; ma da un signore malvagio senza pietà, quando spinga i suoi alla rovina, si deve allontanare il vassallo che possa, quando il servirlo non gli porta vantaggio.
II. Ugualmente uno deve a buon diritto distaccarsi da amore, quando non ne può gioire, né gli è utile o gli presta soccorso; per ciò mi separo, costretto, e rinuncio ad amore, che ho supplicato, perché egli non volle mai farmi del bene né ebbe mai pietà di me.
III. Ho lasciato l’errore in cui mi soleva tenere amore, e il lungo desiderare, di ciò non provo dolore; e sebbene io abbia abbondanza di mali e non sia affatto contento dei beni, il suo danno, tuttavia, mi è difficile da riferire: così tanta buona fede gli dimostro!
IV. Apparenze menzognere non mi potranno mai più uccidere e occhi ingannatori non mi faranno mai penare: perché è folle chi crede spesso ai propri occhi folli – così mi sembra – ed è folle chi guarda troppo ciò che non gli spetta né gli è appropriato.
V. Al nobile imperatore voglio mostrare e dire che Dio pone tutti nella tristezza tranne il suo servitore; e poiché Dio gli ha donato i mezzi, l’imperatore Lo serva per diritto (oppure: secondo ciò che è giusto), ché uno non può prendere dal mondo terreno di più, se non quanto vi farà di bene.
VI. Contessa Beatrice, odo dire e riferire un grande bene di voi, perché siete la più bella del mondo, (cioè) delle altre donne che si possono vedere.
VII. Messer Blacatz non rinuncia affatto ad aumentare il suo pregio perfetto, anzi acquista valore più ancora di quanto soleva fare, e migliora e accresce ciò che possiede.

 

 

 

Testo: Giorgio Barachini, Rialto 22.vi.2014.


Mss.: C 254v (1a attr. peire bermon ricas nouas; 2a attr. helyas de bariols), D 80v-81r (Nelias de bariols), E 125 ([.....]s debariol), H 58r (Elia debariol), M 35v (Nelias debariol), P 32v-33r (Elyas de berzoll), R 94r (helias de bariol; tetragramma vuoto sopra la str. I), S 193-194 (Elias de berzol), f 66v numerazione vecchia, 61v numerazione nuova (elias debaryols). Tradizione indiretta: κ vv. 1-4, pp. 126-127 (Helia di Bariol, dal Lib. in Asc. car. 36), α str. I-II, vv. 33909-33928 (En Ricas Novas). Opera sicura di Elias de Barjols; l’errore di αC è probabilmente dovuto a una glossa che indicava il rapporto intertestuale tra questo testo e BdT 330.2.

Edizioni critiche: Stanislas Stroński, Le troubadour Elias de Barjols, Toulouse 1906, pp. 29-32; Reinhilt Richter, Die Troubadourzitate im Breviari d’Amor, Modena 1976, pp. 240-241 (str. I-II, edizione critica dei mss. di α).

Altre edizioni: Karl August Friedrich Mahn, Gedichte der Troubadours in provenzalischer Sprache, 4 voll., Berlin 1856-1873, vol. III, p. 144, n. 913 (= C), n. 914 (= S); Wilhelm Grüzmacher, «Zweiter Bericht an die Gesellschaft für das Studium der neueren Sprachen in Berlin über die in Italien befindlichen provençalischen Liederhandschriften», Archiv für des Studium der neueren Sprachen und Literaturen, 33 (1863), pp. 288-341, a p. 309 (= P); Louis Gauchat, Heinrich Kehrli, «Il canzoniere provenzale H», Studj di filologia romanza, 5 (1891), pp. 341-568, a p. 547-548 (= H); William Pierce Shepard, The Oxford Provençal Chansonnier, Princeton-Paris 1927, p. 178 (= S); Vincenzo De Bartholomaeis, Poesie provenzali storiche relative all’Italia, 2 voll., Roma 1931, vol. II, p. 93 (testo Stroński).

Metrica: a7 b5 b7 a5 c8 d7’ d7’ c8 (Frank 624:91, unicum). Canso di cinque coblas unissonans di otto versi e due tornadas di quattro versi.

Note: Al v. 41 è nominata la contessa Beatrice (di Savoia), la cui menzione rende la poesia posteriore al 1219-1220, anno d’arrivo della nobile alla corte provenzale. Al v. 45 si ha menzione di Blacatz che pone come limite ultimo l’anno 1236. Inoltre, nella strofa V si fa allusione a un emperador, che può essere solo Federico II di Svevia dopo l’incoronazione del 22 novembre 1220 in San Pietro a Roma. La datazione si può restringere, considerando che nella strofa V, rivolta a Federico II, si legge ai vv. 37-38 e pus Dieus l’a donat de que, / sierva·l a dreg l’emperaire: la menzione di Dio (nominato già al v. 35), che dona all’imperatore i mezzi per essere da lui servito (concetto espresso anche al v. 36) e compiere il bene (v. 40), è un’allusione non coperta alla crociata. Dato che la partenza per la Terra Santa ebbe luogo nel 1227 e nel 1228, la poesia è precedente a queste date, ma è anche vero che, già impegnatosi nel luglio 1215 ad Aquisgrana in occasione della seconda incoronazione a Rex Romanorum, Federico II sembrò sempre prossimo a spiegare le vele verso l’Oltremare dal momento dell’incoronazione imperiale nel novembre 1220 fino alla partenza nel 1227 e poi nel 1228 e i preparativi durarono per tutto il periodo: del marzo 1223 è l’impegno formale di Federico con il trattato di Ferentino, del luglio 1225 la proroga ottenuta con la dieta di San Germano. Se Stanislas Stroński, Le troubadour Elias de Barjols, Toulouse 1906, pp. 95-96 vedeva, nel tono e nelle parole di Elias, un momento in cui i preparativi erano già a uno stato avanzato e proponeva gli anni 1225-1228, Vincenzo De Bartholomaeis, «Osservazioni sulle poesie provenzali relative a Federico II», Memorie della Real Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, 6 (1911-1912), pp. 104-105 indicava il terminus ad quem nel 1227, poiché la scomunica inflitta a Federico II da Gregorio IX è dell’autunno di quell’anno e nel testo non ve n’è traccia. Il cuore della questione è l’interpretazione dei ‘mezzi’ che Dio dona a Federico, genericamente indicati con il que del v. 37; Stroński e De Bartholomaeis intendono i mezzi materiali già pronti e disponibili per poter partire alla volta dell’Oltremare e, dunque, collocano la data della canzone a ridosso della partenza. Mi sembra preferibile pensare, considerato il soggetto dell’azione (Dio), che con l’espressione pus Dieus l’a donat de que Elias abbia voluto indicare che l’imperatore aveva ormai raggiunto una posizione tale da non poter più procrastinare l’impegno in Oltremare. Due sono gli eventi che possono attirare l’attenzione: l’incoronazione imperiale del 1220; il matrimonio con Isabella (Jolanda) di Brienne del 1225. Nel primo caso, divenuto imperatore, titolo che campeggia ad inizio di strofa, Federico II disponeva ormai d’un ampio bacino al quale attingere i ‘mezzi’ per preparare per la spedizione; nel novembre del 1220, peraltro, la crociata di Damietta, per la quale Federico si era impegnato nel 1215, era ancora in corso e si trovava in un momento di stallo: in tal caso, la canzone sarebbe non troppo posteriore all’incoronazione e dunque della fine del 1220 o dell’inizio del 1221. Nel secondo caso, si deve tener presente che nel 1223 a Ferentino Federico II aveva contrattato l’impegno ad organizzare una nuova crociata e contestualmente aveva concordato con Onorio III e con Giovanni di Brienne, reggente del regno di Gerusalemme, il proprio matrimonio con Isabella di Brienne, erede del regno di Gerusalemme. Il matrimonio fu celebrato il 9 novembre 1225 a Brindisi, dopo che a luglio dello stesso anno a Cassino (dieta di San Germano) Federico aveva ottenuto una proroga della partenza in cambio dell’obbligo di finanziare la missione completamente a proprie spese: potrebbe essere questo ulteriore tassello di legittimità a reclamare la sovranità di Gerusalemme, questo ulteriore que, ad aver indotto Elias a comporre la strofa V. In questo caso, la datazione si colloca tra il 1225 e il 1227 (tornando, su altre basi, a quella di Stroński e De Bartholomaeis), senza escludere che la notizia dell’accordo matrimoniale del 1223 valga già come terminus post quem. Si può aggiungere, infine, che, benché entrambe le tornadas rimandino all’ambiente provenzale, con la menzione della contessa Beatrice e di Blacatz, la strofa dedicata a Federico II non invia esplicitamente il testo al sovrano e potrebbe, anzi, sembrare composta in presenza (vv. 33-34 Al valen emperador / vuelh mostrar e dir): tuttavia, Federico II non fu mai in Provenza e, d’altra parte, non risulta che Elias de Barjols sia mai stato in Italia. In questo stato di cose, si può tutt’al più ipotizzare, senza prove e con grande cautela, che Elias de Barjols abbia valicato le Alpi e, senza inoltrarsi – ciò che risulta del tutto inverosimile – nell’Italia centrale o meridionale, sia venuto in contatto con la corte di Federico II, contatto di cui la strofa V della nostra canzone costituirebbe l’unico retaggio; per tale ipotesi la sola datazione possibile sarebbe il 1226 (da metà marzo a metà agosto), unico momento di permanenza dell’imperatore Federico II nell’Italia del Nord negli anni Venti. – L’apparato critico completo sarà consultabile nell’edizione Barachini di Elias de Barjols, in pubblicazione. – 1. Nel contesto di questa strofa e della seguente, hom si colloca a metà strada tra l’essere semplice pronome e il significare “uomo, vassallo”, cioè la persona subordinata al senhor. – Al v. 4 rendo onor con “potere feudale”, senso intermedio tra l’astratto “onore” e i concreti “terra, possedimento, feudo”: è necessario interpungere con virgola dopo honrar, perché obezir non può reggere al contempo son bon senhor e a tota s’onor. Si può anche interpungere dopo obezir (in tal caso transitivo) e attribuire a a tota s’onor un valore di locuzione avverbiale, come nel sintagma a onor “ehrenvoll” (PSW, V, p. 490, accez. 4) o a l’onor [de alcu] “zu Ehren [jemandes]” (ibidem, accez. 5): significherebbe “del tutto onorevolmente per lui” o “in suo completo onore”. – Ai vv. 21-22, il presente della concessiva, nonostante la versione al perfetto di HPS (e parzialmente MD), è garantito dai vv. 23-24; è chiara del resto la progressione tra l’ormai compiuto abbandono d’Amore (str. II e vv. 17-20), la situazione presente (vv. 21-24) e le aspettative future (str. IV). – Al v. 24, dato che il verbo portar necessita un oggetto diretto, esso va cercato in aitan, che unito a de bona fe significa “tanta sincerità, tanta buona fede”. La contraddizione con l’abbandono dichiarato nella strofa II e all’inizio di questa stessa strofa è apparente: l’io lirico non vuole riferire i danni che Amore arreca (v. 23, dove il possessivo sos va inteso come genitivo soggettivo) perché intende mantenere la propria sincerità e buona fede. È evidente che l’io lirico sta sottilizzando sulle convenzioni feudali, come nelle str. I-II: riferendosi al giuramento della fides (la bona fe dei trovatori), che spesso il vassallo pronunciava dopo la cerimonia dell’omaggio, l’io lirico vuole sottolineare che, pur avendo rotto il patto giuridico-feudale con l’Amore fellone (per bon dreg, secondo giustizia, v. 10), non sta, tuttavia, commettendo spergiuro col rompere un giuramento sacro e pertanto mantiene verso di lui la bona fe, la fides, nonostante i mali che sta sperimentando. – Al v. 27 si adotta la lezione di CEf, che assieme a quella di M (ni no mi) ha un senso accettabile. La lezione di HPS (ni·ll meu no·m) e quella prossima di D (ni·l mays no) presentano eccessivi problemi interpretativi: se ·ll meu in HPS valesse “il mio (occhio)”, il singolare troverebbe poche spiegazioni e, in aggiunta, si avrebbero ulteriori incongruenze perché presso i trovatori è sempre l’io lirico (o il suo cor) a languir, mai i suoi occhi, e perché gli huelh gualïador sono comunemente gli occhi del trovatore, non quelli della dama, come invece bisognerebbe intendere accogliendo la lezione di HPS, che peraltro potrebbe essersi prodotta a partire da quella di D (dove la forma articolata ni·l non dà senso). È inoltre verosimile che il verso fosse ipometro (in seconda sillaba) nell’intera tradizione: ja di CEf è un comune riempitivo, M adotta un’estensione del pronome, mays di D è un avverbio riempitivo (e ·l avrebbe dovuto essere soppresso), meu di HPS interviene nella stessa sede con una soluzione poco chiara. – Al v. 35, l’espressione metre en azir, accostabile a tornar en azir, è poco frequente, ma è usata da Elias de Barjols anche in BdT 132.7, v. 39; essa andrà intesa come “porre nella tristezza, portare alla tristezza, portare allo sconforto, confondere”, più che come “porre in odio” (cfr. PSW, I, p. 117 e PD, p. 37: “haine; violence, impétuosité”); il senso di “odio” può essere presente qui, associato all’idea di “violenza” che Dio può esercitare sui nemici del suo servitore, ma è meno probabile in contesti amorosi quale quello di BdT 132.7. – Al v. 36, il singolo servidor è naturalmente il valen emperador Federico II, opposto al plurale totz del verso precedente. – Al v. 37, il verbo donar, oltre al significato di base, “donare, elargire”, ha anche il significato tecnico di “unire in matrimonio” (PSW, II, p. 281, accez. 2), senso che sarebbe adatto al matrimonio tra Federico II e Isabella (Jolanda) di Brienne. Sull’interpretazione storica del verso si veda sopra.

[GB, lb]


BdT    Elias de Barjols

English translation and notes

Canzoni sulle crociate