Rialto

154.7

 

 

 

Folquet de Lunel

 

 

 

 

 

 

Tant fin’amors totas horas m’afila

 

 

ma voluntat, qu’ieu de lauzar m’afil

 

 

midons, qu’en re tan mais no s’asubtila

4

 

mos cars sabers, qu’ieu no·n ai tan subtil

 

 

que pogues dir luna part de las mil

 

 

lauzors qu’om pot de lieis dir, que d’ans mil a

 

 

no nasquet homs la pogues dir, non guil,

8

 

ni lunhs per lieis lauzar non pot dir guila.

 

 

 

 

 

Si quon virtut natural el safil a,

 

 

l’oriental, plus qu’en autre safil,

 

 

val mai midons qu’autra domn’a gentil a-

12

 

mor ben amar a fin aman gentil:

 

 

e dic vos be qu’anc, depus qu’ieu senti·l

 

 

fin pretz de lieis e dins mon cor senti l’a-

 

 

mor qu’ieu li port, no fi cauza sotil

16

 

si com denant, tant me desasotila.

 

 

 

 

 

Midons es tals que franc cor et humil a

 

 

veraiamen a fin aman humil,

 

 

quan lo troba lial, non en re vila

20

 

que no s’azaut ja de far cauza vil:

 

 

tant es d’onrat luec e de senhoril

 

 

que part totas domnas pretz senhoril ha;

 

 

si tot no·s te, qui la preg’, a desvil

24

 

ans selh que non la prega, mot per vil ha.

 

 

 

 

 

Ges l’eranha tan prim no teish ni fila

 

 

com a mestiers qu’om, lieis lauzan, prim fil;

 

 

s’en tot l’obra s’es prima, ges estrila

28

 

non deu esser, ni·s fa de luec estril

 

 

perqu’a mestiers qu’om tan ferm l’aperfil

 

 

que sia fortz plus qu’autra s’aperfila,

 

 

si que tostemps sia durable: si·l

32

 

la vol hom far per s’amor, ses tot si·l ha.

 

 

 

 

 

E qui bon art e belh e maestril ha

 

 

per far obra be fort e maestril

 

 

que la vuelha far frevol e fragila,

36

 

mout tenc per fol son sen e per fragil;

 

 

aitals sui ieu estatz, mas aqui vi·l,

 

 

qu’er’a mon dan e que de midons vi la

 

 

fina valor; m’apil Deus lum ca pil

40

 

obrar d’obra que del joi d’amor pila.

 

 

 

 

 

Coms de Rodes, senher, car ab gentil

 

 

pretz mantenetz valor e de gentil a-

 

 

mor ben amatz ma gensor, ieu port il

44

 

lauzor de vos, e luenh e pres port ila.

 

 

 

 

 

Al bon senhor de Mercuer, qu’es el fil

 

 

de valen pretz, que no·s romp ni·s desfila,

 

 

chansos, vai dir qu’ieu no truep qui s’apil

48

 

mielhs e fina valor, qu’elh s·i apila.

 

 

 

Testo: Tavani 2004 (con modifiche) (VI). – Rialto 26.xii.2007.


Ms.: C 324v.

Edizioni critiche: Franz Eichelkraut, Der Troubadour Folquet de Lunel, Berlin 1872 (rist. anast. Gèneve 1975), p. 22 (VI); F. J. Oroz Arizcuren, La lírica religiosa en la literatura provenzal antigua, Pampelune 1972, p. 144 (XIII); Federica Bianchi, BdT 154.7, Rialto 2003; Giuseppe Tavani, Folquet de Lunel, Le poesie e il Romanzo della vita mondana, Alessandria 2004, p. 64.

Metrica: a 10’ b10 a10’ b10 b10 a10’ b10 a10’ (Frank 302:1). Cinque strofe unissonanti di otto versi, due tornadas di quattro versi. Rime – a: ila; b: il. Rime deriv. 1/2 (afila/afil; safil a/ safil; humil a/ humil; fil a/fil; maestril ha/ maestril), 3/4 (s’asubtila/ subtil; gentil a/ gentil; vila/ vil; estrila/estril; fragil a/ fragil), 5/6 (mil/mil a; sentil/senti l’a; senhoril/senhoril ha; aperfil/aperfila; vil/vi la), 7/8 (guil/guila; sotil/desasotila; vil/vil ha; si l-/si l’ha; apil/apila) – tornadas: 1/2 (gentil/gentil a-; fil/desfila), 3/4 (porti·l/porti la; apil/apila).

Note: Canzone religiosa. – Al v. 3, non è chiaro il significato della lezione del ms. «qu’en re tan mais nos sa subtila». Gli editori precedenti correggono in «qu’en re tan mais no s’asubtila»; Oroz Arizcuren traduce ‘pues en un asunto tan grande mi caro saber no se sutiliza tanto’, ma la sua interpretazione esige che «re» significhi ‘asunto’, ‘argomento’, e che «mais» abbia il valore – che non trovo documentato – di ‘grande’. Credo che con car saber  Folquet abbia inteso dire che, nonostante lo stimolo e l’affinamento che gli viene dalla «fin’amor», il suo sapere poetico è troppo duro, troppo rigido per essere in grado di esprimere compiutamente, con la sottigliezza, la finezza richiesta, le lodi che si possono tessere per una dama di così alto pregio. Per dare senso alla frase, mi è sembrato necessario correggere «nos sa subtila» del ms. in «me s’asubtila». – Al v. 6, Tra «que» e «mil» si leggono quattro lettere delle quali la finale è indubbiamente una «–s» e la penultima probabilmente una «u» o, meglio, una «n». Quanto alle altre due, la prima potrebbe essere una «d» o una «c», la seconda non è certamente una «a», ma con molta probabilità, una «e»: «deus» (per «detz»?) o «cens»? Opto per questa seconda forma, e intendo che il poeta ammette di non essere in grado di dire neppure una parte delle mille lodi che si possono dire della sua dama, la quale tuttavia ne meriterebbe molte di più. L’interpretazione è, lo ammetto, un po’ faticosa, ma in ogni caso, non credo migliore, e anzi meno giustificabile paleograficamente e sintatticamente, la scelta di Eichelkraut e di Oroz Arizcuren, per i quali «da mille anni non è nato un uomo che possa dire quelle lodi». – Al v. 20, La lettura «vila» (su cui concordano gli editori precedenti) comporta una di quelle rime equivoche contraffatte, che — secondo le Leys d’Amors — «no fan bon’acordansa» in quanto una scansione «vilá» risulterebbe incompatibile con lo schema metrico-strofico, a meno di non ammettere in questo caso una rima per l’occhio (e verso tale soluzione sembra propendere SW). È bensì vero che Folquet indulge spesso all’uso, anche in misura esorbitante, della rima franta, per non viziare la struttura a rime derivative da lui programmaticamente adottata (qui, ad esempio, «safil a» v. 9, «humil a» v. 17, «senhoril ha» v. 22, «gentil a[mor]» vv. 11-12, «senti l’a[mor]» vv.14-15 e perfino «senti·l [fin pretz]» vv. 13-14, con «funzione ingiambante» analoga a quella dei vv. 11-12 e 14-15); ma è non men vero che in tutti questi casi la rima femminile non travalica mai la frontiera della decima sillaba tonica, anche se si può (e forse si deve) ammettere un accento secondario — comunque molto tenue — sulla vocale finale risultante dalla frattura; anche l’unico esempio di rima franta ossitona («senti·l») si attiene rigorosamente alla misura decasillabica. Con «vilá», al contrario, l’accento finale interesserebbe l’undecima posizione, provocando un’ipermetria non suffragata da altri esempi nello stesso testo (un’ipermetria che invece non si rileva, nella lirica provenzale, in altri casi di avanzamento dell’accento sulla vocale atona finale): purtroppo, il problema di questo «vila» e della rima per l’occhio extramensurale in ambito provenzale non è stato affrontato neppure da A. Menichetti («Rime per l’occhio e ipometrie nella poesia romanza delle origini», Cultura neolatina, 26, 1966, pp. 5-95) che pure vi accenna di sfuggita (pp. 52-53, nota). Altre ipotesi di lettura, ad esempio un femminile *vila (da vil) non risultano documentabili (SW: «Das dem npr. vilo entsprechende Femininum scheint apr. noch nicht zu begegnen», s.v. vil), e frangere «vila» in «vil a», con «a» forma di aver, richiederebbe l’esistenza di una espressione «aver vil», analoga a «tener vil», della quale però neppure trovo attestazioni. Una soluzione alternativa, comunque abbastanza improbabile, potrebbe ottenersi assegnando ad «a» la funzione di preposizione, legandola al «que» iniziale del v. seguente, in analogia con la frattura sintattica e più spesso lessicale cui Folquet fa ricorso nei versi precedenti, e traducendo: ‘acché (o di modo che) non si compiaccia di agire vilmente’. Ma l’ipotesi più accettabile resta quella della rima per l’occhio. – Nel ms. le ultime parole del v. 24 sono sicuramente «per uil ha», e dunque sembra logica la proposta di Oroz Arizcuren di leggere il segmento finale del verso precedente («prega desuil») — in obbedienza alla tecnica dele rime derivative — «preg’ades, vil». La proposta di Eichelkraut  (v. 20: «de suil», v. 25 «per suil ha», con «suil» per solh ‘fango; sozzura’?), che eviterebbe la ripetizione in rimante di segmenti identici, se può essere eventualmente ammessa per il v. 24, non risulta ammissibile al v. 25, dove «per uil ha» non consente alternative. Perché non ammettere, a questo punto, che Folquet abbia coniato un antonimo di «vil», anteponendo alla base lessicale il prefisso negativo «des-», sull’esempio di descug, desgrat, deslau, ecc.? L’ipotesi desvil,  anche se non documentata, risolverebbe senza eccessive difficoltà i problemi posti da questi due versi. – Al v. 29, perfilar, ‘mit einer Borte, einem Besatz versehen’ (SW), dunque ‘raffinare, perfezionare’ (che è il significato ancora oggi usuale in catalano). – Al v. 37 leggo «vi·l», ‘l’ho visto, l’ho compreso’, piuttosto che, con Oroz Arizcuren, «vil» quale forma (molto ipotetica) da un verbo che dovrebbe significare ‘vigilare’ («pero ahora vigilo (?)»), ma che non saprei individuare (da velhar  si ha velh, non *vil), e meno ancora come agg. nel senso di ‘rápido, voluble, irreflexivo’, che non mi sembra pertinente. – Nel ms., al v. 43, tra «gensor» e «portil» si individuano a malapena alcune lettere, trascritte da Eichelkraut «on» e da Oroz Arizcuren «don» (in quanto «hay espacio para dos letras delante de n»). Ma non è sicuro neppure che l’ultima lettera sia davvero «n», ché anzi il tratto identificabile sembra piuttosto quello di una «u». La struttura della frase, per quanto gli usi di Folquet siano spesso anomali, non autorizza inoltre l’ipotesi di un avverbio «don» «con valor causal»: ritengo inaccettabile la costruzione che ne risulterebbe (due subordinate causali senza principale). Restando dunque nel campo delle ipotesi, proporrei qui un «ieu» soggetto di «port». Quanto al sintagma finale, la lettura che ne dà Oroz Arizcuren («porti·l») non soddisfa, in quanto l’accento di decima deve necessariamente interessare la «i», mentre «porti» quale prima persona del presente indicativo è accentata sulla «o». Preferisco quindi separare «port il» ‘reco a lei’. – Mercuer (v. 45) è probabilmente Melguer, Melguelh, oggi Mauguio sull’omonimo stagno, ad est di Montpellier, sede di una contea legata ai sovrani di Barcellona fino alla confisca, dopo la battaglia di Muret, da parte dei re di Francia che la cedettero ai vescovi di Magalona. La tornada è dunque indirizzata allo stesso «bos avesques», citato nel Roman (vv; 521-522), che ha «aplanat» le «foldatz» di Folquet, inducendolo a non cantare più «de vanetatz» e a dedicare la sua attività poetica alle lodi della Vergine e di suo Figlio. — el fil  (Oroz Arizcuren interpreta el come articolo): cf. la traduzione che ne dà LR (III, 324 II): «(qui est) sur la ligne (de mérite vaillant)»; fil vale ‘via’, ‘cammino’, qui, come anche nel verso «Mas ieu no·m part del dreg fil» di Raimbaut d’Aurenga (BdT 389.26, v. 14) che LR  cita sotto il significato di ‘tranchant d’un instrument’, ma che Pattison correttamente traduce ‘but I do not depart from the straight path’.

[GT]


Traduzione

BdT    Folquet de Lunel    Ed. Bianchi