Premessa all’edizione in linea dello scambio di sirventesi fra Sordello e Peire Bremon Ricas Novas

 

 

 

 

Il ciclo dei sei sirventesi scambiati fra Sordello e Peire Bremon Ricas Novas, nei quali i due trovatori si insultano vicendevolmente con toni aspri e polemici e pertanto felicemente definito duel poétique da Giulio Bertoni e Alfred Jeanroy («Un duel poétique au XIIIe siècle: les sirventés échangés entre Sordel et P. Brémon», Annales du Midi, 28, 1916, pp. 269-305), è databile fra il 1240 e 1241, come dimostrato da Cesare De Lollis (Vita e poesie di Sordello da Goito, Halle 1896).

Alla base di questa inusitata disputa letteraria ci sarà stata sicuramente l’invidia suscitata in Ricas Novas dall’altissima posizione che Sordello aveva raggiunto alla corte di Raimondo Berengario V. Il trovatore mantovano, infatti, giunto in Provenza negli ultimi anni del terzo decennio del Duecento, si era guadagnato in breve tempo grande prestigio e larga fama sia come cavaliere sia come trovatore, come ci testimoniano i documenti dell’epoca: egli viene spesso citato tra i baroni del seguito di Raimondo Berengario V, segno del favore di cui doveva godere presso la corte di Aix. Altri atti ufficiali di quegli anni provano come Sordello fosse ben presto entrato nella cerchia dei consiglieri e collaboratori più stretti del conte di Provenza, dal quale ricevette il titolo di miles e il possesso di feudi. Questa repentina ascesa avrà sicuramente suscitato le gelosie di Ricas Novas, che serviva la medesima corte, probabilmente con minore successo. E non bisogna accordare troppo peso all’ipotesi che vuole che alla base dell’inimicizia fra i due ci fosse una rivalità amorosa, come lascia credere lo stesso Sordello, alludendo ad una dama contesa in Qan q’ieu chantes (BdT 437.28, 31-33): i rapporti fra i due, inizialmente amichevoli, si deteriorarono a causa del desiderio di entrambi di primeggiare alla corte provenzale.

Il giusto ordinamento dei sei sirventesi nell’arco dei quali si consuma il duel poétique è stato individuato da De Lollis e confermato dai successivi riscontri di Bertoni e Jeanroy. A cominciare la disputa è Sordello col sirventese Qan q’ieu chantes (BdT 437.28), un gap modulato sul celeberrimo Drogoman senher (BdT 364.18) di Peire Vidal, cui risponde Ricas Novas con Lo bels terminis (BdT 330.9), che ricalca l’intelaiatura formale della canzone Tant ai mo cor ple de joya (BdT 70.44) di Bernart de Ventadorn. Sordello controbatte prontamente con Lo reproviers vai averan (BdT 437.20), composto sullo schema metrico di Puois Ventadorn (BdT 80.33) di Bertran de Born; Ricas Novas non lascia cadere la contesa, anzi, alza maggiormente i toni del vituperio in Tant fort m’agrat (BdT 330.18), che ricalca la struttura formale di Lo reproviers. Chiudono il ciclo, rispettivamente, Sol que m’afi (BdT 437.34) e En la mar major (BdT 330.6).

L’intero ciclo si configura come un ibrido molto interessante di accuse formulari e allusioni più o meno verosimili ai vissuti dei due contendenti. Se il filo conduttore dei sei sirventesi è il dibattito sulle virtù cavalleresco-cortesi, delle quali i due trovatori si accusano reciprocamente di essere privi, perché piuttosto dediti al lucro e alla menzogna e animati da codardia e viltà, spuntano riferimenti circostanziati sulla condizione di entrambi alla corte provenzale di Raimondo Berengario V o sui romanzeschi trascorsi di Sordello in terra italiana. Il tema che ricorre maggiormente è quello della joglaria, statuto socio-poetico deprecato al quale l’uno affilia l’altro allo scopo di screditarsi vicendevolmente. Questo genere di insinuazioni è estremamente frequente nelle dispute fra i trovatori, e lo stesso termine joglaria sintetizza gli stilemi di un tipo di intrattenimento rozzo e improntato all’improvvisazione, che spesso viene associato a un comportamento falso e menzognero: i giullari, infatti, vengono stigmatizzati in quanto sono dei professionisti dell’attività letteraria, dalla quale sono costretti, a causa della loro indigenza, a trarre un sostentamento economico; in questo senso, essi si differenziano dall’archetipo del trovatore di origine aristocratica, per il quale l’arte del trobar è un nobile esercizio rientrante nell’ambito delle virtù cortesi.

Paolo Di Luca         

10.xii.2009         


Rialto