Rialto

319.1

 

   

Paulet de Marselha

 

 

 

 

   

I.

   

Ab marrimen et ab mala sabensa

   

vuelh er chantar, sitot chans no m’agensa,

   

quar valors a preza gran dechazensa

   

e paratges es mermatz en Proensa,

5  

et ay enic

   

mon cor per la preizo del pros N’Enric.

   

 

   

II.

   

Ben deu esser marrida tot’Espanha,

   

e Roma tanh e cove be que planha

   

lo senador franc de bella companha,

10  

lo plus ardit de Burcx tro en Alamanha.

   

A, trop fallic

   

quascus qu’el camp laysset lo pros N’Enric.

   

 

   

III.

   

Tug l’Espanhol, del Gronh tro Compostella,

   

devon planher la preizo, que ges bella

15  

non fo ni es, de N’Enric de Castella;

   

el reys N’Anfos, que tan gent se capdella

   

ab sen antic,

   

deu demandar tost son fraire N’Enric.

   

 

   

IV.

   

Alaman flac, volpilh, de frevol malha,

20  

ia lo vers Dieus no·us aiut ni vos valla,

   

quar a N’Enric fallitz a la batalla;

   

aunid’ avetz Alamanha ses falla,

   

malvays mendic,

   

quar sol layssetz el camp lo pros N’Enric.

   

 

   

V.

25  

Que per valor e per noble coratge

   

mantenia N’Enricx l’onrat linhatge

   

de Colradi ab honrat vassalatge;

   

e·l reys N’Anfos, ab son noble barnatge,

   

quez a·l cor ric,

30  

deu demandar tost son fraire N’Enric.

   

 

   

VI.

   

No tanh a rey quez a tan ric coratge

   

quo·l reys N’Anfos, e tan noble barnatge,

   

lays estar pres home de son linhatge:

   

doncx, elh no·s tric

35  

que no deman tost son fraire N’Enric.

   

 

   

VII.

   

Recrezensa faran e volpilhatge

   

tug l’Espanhol, silh que son de paratge,

   

si·n breu de temps no fan tal vassallatge

   

don sion ric

40  

e paupre silh que tenon pres N’Enric.

 

 

7 totæspanha    20 le

 

 

Traduzione

 

I. Con tristezza e con dispiacere ora voglio cantare, anche se il canto non mi dà piacere, perché il valore è in forte declino e la nobiltà è diminuita in Provenza, e il mio cuore è dolente per la prigionia del nobile Enrico.

II. Tutta la Spagna deve essere molto afflitta, e a Roma spetta e conviene bene piangere l’impavido senatore, compagno gradito, il più ardito da Burgos fino alla Germania. Ah! Una colpa troppo grave commise chi abbandonò nel campo di battaglia il nobile Enrico.

III. Tutti gli Spagnoli, da Logroño fino a Compostella, devono lamentare la prigionia di Enrico di Castiglia che non è stata e non è bella; e il re Alfonso che governa tanto bene con antica saggezza, deve reclamare presto suo fratello Enrico.

IV. Tedeschi fiacchi, vigliacchi e di debole corazza, mai il vero Dio vi assista né vi sostenga, poiché abbandonaste Enrico nella battaglia. Senza dubbio avete disonorato la Germania, perfidi infami, perché lasciaste solo nel campo di battaglia il nobile Enrico.

V. Poiché con valore e con notevole spirito Enrico manteneva l’illustre lignaggio di Corradino con l’onorabile servizio, il re Alfonso, che ha animo generoso, insieme ai suoi nobili baroni, deve reclamare subito suo fratello Enrico.

VI. Non conviene a un re dal coraggio così straordinario e con baronaggio tanto nobile come il re Alfonso, lasciare prigioniero un uomo del suo lignaggio; dunque, non si attardi a reclamare subito suo fratello Enrico.

VII. Tutti gli spagnoli, che sono di alto lignaggio, diventeranno vili e vigliacchi, se in breve tempo non compieranno tale impresa per cui saranno ricchi, e poveri quelli che tengono imprigionato Enrico.

 

 

Testo: Tornatore 2014. – Rialto 22.v.2014.


Ms.: C 322v (paulet de mar.).

Edizioni critiche: Emil Levy, «Le troubadour Paulet de Marseille», Revue des langues romanes, 21, 1882, pp. 261-289, a p. 279; Isabel de Riquer, «Las poesías del trovador Paulet de Marselha», Boletín de la Real Academia de buenas letras de Barcelona, 38, 1979-1982, pp. 133-205, a p. 187 (con traduzione spagnola); Lidia Tornatore, Rialto 22.v.2014.

Altre edizioni: François Juste-Marie Raynouard, Choix de poésies originales des troubadours, 6 voll., Paris 1816-1821, vol. IV, p. 72; Friedrich Diez, Leben und Werke der Trobadours, Zwickau 1829, p. 528 (riproduce Raynouard; traduzione tedesca); Manuel Milá y Fontanals, De los trovadores en España, Barcelona 1861, p. 211 (riproduce Raynouard); Karl August Friedrich Mahn, Die Werke der Troubadours in provenzalischer Sprache, 4 voll., Berlin 1846-1873, vol. IV, p. 151 (riproduce Raynouard); Vincenzo De Bartholomaeis, Poesie provenzali storiche relative all’Italia, 2 voll., Roma 1931, vol. II, p. 257 (testo di Levy 1882; traduzione italiana); Francesco Alfonso Ugolini, La poesia provenzale e l’Italia, Modena 1949, p. 132 (testo di Levy 1882); Carlos Alvar, La poesía trovadoresca en España y Portugal, Madrid 1977, p. 267 (testo di Levy 1882; traduzione spagnola); Isabel de Riquer, Paulet de Marselha: un provençal a la cort dels reis d’Aragó, Barcelona 1996, p. 125 (con traduzione catalana).

Metrica: a10’ a10’ a10’ a10’ b4 b10 (Frank 27:3). Sirventese composto da cinque coblas singulars di sei versi e due tornadas di cinque. Mot-refranh all’ultimo verso di ogni cobla: N’Enric. Rime identiche: 25 : 31 coratge, 26: 33 linhatge, 28 : 32 barnatge; inclusive: 29 ric : 30 Enric, 39 ric : 40 Enric; ricche: 7 Espanha : 9 companha, 13 Compostella: 15 Castella, 34 tric : 35 Enric, 26 linhatge : 37 paratge, 33 linhatge : 37 paratge.

Note: Il sirventese fu composto in Catalogna per la prigionia di Enrico di Castiglia, catturato da Carlo I d’Angiò nella battaglia di Tagliacozzo del 23 agosto 1268. Si tratta di un appello accorato, indirizzato ad Alfonso X, re di Castiglia nonché fratello maggiore di Enrico, per indurlo a intervenire con fermezza nella liberazione del principe. Poiché mancano riferimenti alla morte di Corradino, avvenuta il 29 ottobre 1268, è possibile ritenere il sirventese anteriore a questa data. – La poesia di Paulet documenta un caso di forte intertestualità, essendo legata a tutta quella parte di produzione letteraria incentrata su un personaggio tanto illustre come il principe di Castiglia. Don Enrico, uomo dalla vita ribelle e quasi leggendaria per i contemporanei, attirò su di sé l’attenzione di molti trovatori sia prima che dopo la tragica disfatta di Tagliacozzo. Ricorda Martin Aurell (La vielle et l’épée. Troubadours et politique en Provence au XIIIe siècle, Paris 1989, p. 168): «Figure devenue presque mythique de son vivant, héros chevaleresque d’un monde perdu à jamais, don Enrique a gagné la sympathie et l’admiration de toute sa génération». – Nato nel 1230 da Ferdinando III il Santo e dalla sua prima moglie Beatrice di Svevia, don Enrico ebbe una giovinezza molto turbolenta. Mantenne sempre relazioni ostili con il fratello maggiore Alfonso, erede al trono, fin da quando si rifiutò di rendergli l’homagium richiesto dal padre. Divenuto re nel 1252, Alfonso annullò le donazioni concesse da Ferdinando III al fratello per la conquista di Siviglia. In quegli anni, inoltre, Enrico risiedeva nell’alcazar di Siviglia con l’avvenente matrigna, Giovanna di Ponthieu, e ciò originò maldicenze su una loro relazione amorosa. L’acredine fra i due fratelli aumentò fino a sfociare nello scontro armato. Sconfitto a Morón nel 1255 dalle truppe alfonsine, Enrico si rifugiò dapprima a Barcellona, poi partì intraprendendo una serie di peregrinazioni europee fino a toccare le coste dell’Africa nel 1260. Per più di cinque anni fu al servizio del sultano di Tunisi, accumulando copiose ricchezze. La partenza dell’infante è ricordata anche nel sirventese di Raimon de Tors, Per l’avinen pascor (BdT 410.6), una sorta di presentazione poetica di Enrico, indirizzata al sultano al-Mustansir. Nel 1266 Don Enrico approdò in Italia con il suo tesoro e con un esercito personale. Alla richiesta di Carlo d’Angiò di fornirgli un prestito per la guerra contro Manfredi, mise a disposizione la somma di 40.000 dobloni d’oro, ma nel 1267 non ottenne il saldo del credito dall’angioino né concessioni territoriali, come forse aveva sperato. Il famoso debito era diventato un tema noto a tutti. Don Enrico in persona attaccò apertamente l’angioino nella sua poesia italiana Alegramente e con grande baldanza (cfr. Pär Larson, «Don Arrigo. Alegramente e con grande baldanza», in I Poeti della Scuola Siciliana, 3 voll., Milano 2008, vol. III, pp. 1146-1156), vv. 25-27: «Mora, per Deo, chi m’à tratato morte, / e chi tien lo mio aquisto in sua balia, / come giudeo […]». Anche Calega Panzan, un sostenitore genovese di Corradino, scriveva ironicamente nel suo sirventese, Ar es sazos qu’om si deu allegra (BdT 107.1), vv. 49-51: «Si don Enrics volgues lo sieu cobrar / del rei Carle, prestes li·l remanen / e pois fora pagatz de bel nien…». La rottura politica fu inevitabile, don Enrico divenne nemico dichiarato dei guelfi, fu eletto dai ghibellini Senatore di Roma, poi Capitano generale di Corradino in Toscana dalle città di Pisa e Siena. Nella battaglia di Tagliacozzo, in Abruzzo, i ghibellini ebbero la peggio. Don Enrico riuscì a fuggire a Montecassino, ma fu consegnato a Carlo dall’abate a condizione che non venisse giustiziato come il giovane Corradino. Don Enrico fu tenuto prigioniero per più di venti anni a Canosa di Puglia, poi nel castello di S. Maria al Monte. Soltanto nel 1294 (nonostante le numerose sollecitazioni di potenti monarchi d’Europa, nonché di molti trovatori) poté ritornare in patria, alla corte di Sancho IV, dove fu ricevuto con onore e nominato tutore del futuro re Ferdinando IV. Morì a Roa l’11 agosto 1303. Per ulteriori approfondimenti biografici si veda anche Norbert Kamp, «ENRICO di Castiglia (Henricus de Castella, Henricus de Hispania, Arrigo di Castiglia, Anrricus, Don Enrrique)», Dizionario biografico degli italiani, 77 voll., Roma 1960-, vol. XXXXII, pp. 727-736. – All’epoca della sua cattura, ricorda Martín de Riquer («Il significato politico del sirventese provenzale», in Concetto, storia, miti e immagini del Medioevo, Firenze 1973, pp. 287-309): «si scatenò una vera e propria campagna in versi a favore della sua liberazione, campagna che può accostarsi a quelle che si fanno ai nostri giorni per certi prigionieri politici». Limitandoci alla poesia trobadorica, ricordiamo: 1) Bartolomeo Zorzi, Si·l mon fondes, a meravilla gran (BdT 74.16), vv. 50-59: «[…] tan fon Karles enics / qu’el se gardet que visques don Henrics / e mortz cozenz a fort ant’alberges / estz bars, quar sap Espaingnols d’aut coratge, / e per far dir qu’el no si dupta ges / en far aunir tant honrat seingnorage. / Hei, franca genz, lur mort pesatz ades / e que·s dira, se·us sofretz tal outrage; / e be s’albir n’Anfos, qu’onratz reis es, / si laiss’aunir son frair’en tal estage». Questo planh, scritto per la morte di Corradino e di Federico, duca d’Austria (entrambi decapitati per ordine di Carlo d’Angiò il 29 ottobre 1268 a Napoli), contiene anche allusioni piene di ammirazione per Enrico. 2) Austorc de Segret, No sai qui·m so tan suy desconoyssens (BdT 41.1), vv. 25-28: «Ar aura ops proez’et ardimens / a·n Audoart, si vol Haenric venjar, / qu’era de sen e de saber ses par, / e tot lo mielhs era de sos parens». In questo sirventese del 1273 il riferimento a Enrico è occasionale e cade nel momento in cui il poeta incoraggia il re d’Inghilterra Edoardo I a vendicare il principe. 3) Ja non cugei qe m’aportes ogan (BdT 461.141), vv. 1-7: «Gia non cugei que m’aportes ogan / nova razon a favor un serventes / main croi baron e sil cui Castel’es / chui falh bon prez ed onor desenansa, / car il lassa son fraire en turmens, / ben laissara el chuzin e·ls parens; / mal bruit de tals per tuit li mon se lansa». Composto nel 1276 da un anonimo italiano, partigiano di Pietro III, il sirventese si apre proprio con una critica ad Alfonso X per aver trascurato la liberazione del fratello. Gli appelli più considerevoli furono però lanciati da tre poeti ospiti alla corte catalana di Pietro d’Aragona, dove si respirava aria ghibellina: 1) Paulet de Marselha in primis, ma anche i colleghi Cerveri de Girona e Folquet de Lunel. 2) Cerveri, influenzato da Paulet, è autore del sirventese Pus li rey laxon la ley (BdT 434a.52), vv. 17-24: «Si tan fos que·l reys N’Amfos / volgues baxar son enemic / compaynos agra tals dos / no·n ac tals ab rey Lezoic. / Mas no·m par c’o vuylla far, / ans y perdria mon presic / c’ab caçar per sojornar / oblida son frayre N’Anric». 3) Folquet de Lunel, Al bon rei qu’es reis de pretz car (BdT 154.1), vv. 41-48: «E qui·l papa pogues citar / a major de se, fora bo, / quar del rei n’Anfos no vol far / e del rei Carle, bon perdo; / e qu’om rendes n’Enric, qu’ora seria, / e l’emperi non estes pus vacan, / e pueis, ab totz los reis que baptism’an, / anes venjar Jhezu Crist en Suria». Composta attorno al 1273, si tratta di una pièce indirizzata ad Alfonso X, sostenuto da parecchie città italiane (Milano, Pavia, Cremona, Asti e Genova) per la candidatura imperiale; al centro vi troviamo una lunga diatriba contro il Papa, accusato di portare odio tra Carlo d’Angiò e il re di Castiglia, di impedire la liberazione di Don Enrico, di mantenere la vacanza dell’Impero e di arrestare tutti i tentativi di Crociata in Terra Santa. – Cronologicamente primo fra tutti, il sirventese di Paulet si apre con una dichiarazione di malessere dovuto a due ragioni: il tramonto di Valore e Nobiltà in Provenza e la prigionia di Enrico di Castiglia; prosegue lamentando l’abbandono del principe nel campo di battaglia da parte dei tedeschi, l’inevitabile cattura, la sofferenza di tutta la Spagna e di Roma. Si conclude con un innalzamento di tono e l’esplicito appello rivolto ad Alfonso X di Castiglia, unica autorità in grado di intervenire in favore del fratello. – Al v. 1 l’incipit è tipico nel repertorio dei compianti provenzali. L’intenzione di Paulet de Marselha è però riecheggiare, attraverso la rima e la dittologia sinonimica, l’esordio di Alegramente e con grande baldanza (PSs 50.8), unica poesia pervenutaci del principe castigliano. Composta tra il 1267 e il 1268, la canzone-sirventese di Enrico è da una parte il manifesto della rottura con Carlo d’Angiò, dall’altra il riflesso delle agitazioni sorte in Italia alla notizia dell’arrivo di Corradino. In essa l’autore dichiara di scorgere un mutamento in positivo delle proprie sorti e, sulla scia delle convenzioni ghibelline, profetizza l’imminente disgrazia del giglio angioino, concentrando tutte le speranze nella persona dell’erede svevo. All’indomani della disfatta di Tagliacozzo, delle speranze disattese, quando il principe è ormai imprigionato, Paulet non può fare altro che cantare «amb tristesa i desplaer», capovolgendo in negativo il verso originario di Enrico (Stefano Asperti, Carlo I d’Angiò e i trovatori. Componenti «provenzali» e angioine nella tradizione manoscritta della lirica trobadorica, Ravenna 1995, pp. 188-189). – Al v. 4 la perifrasi e paratges es mermatz en Proensa allude a Carlo I d’Angiò, allora Conte di Provenza. Simili espressioni sulla decadenza del valore in Provenza, imputabili alla dominazione francese, si trovano in molti trovatori; in particolare cfr. Guilhem di Montanhagol, Ges per malvastat qu’er veya (BdT 225.5), vv. 8-14: «De re mos cors no s’esfreya / mas quar so nom camget Proensa, / que falhi tan que·s desleya! / Per qu’ueymais aura nom Falhensa, / quar leyal senhori’ e cara / a camjada per avara / don pert sa valensa»; Peire Bremon Ricas Novas, Ab marrimen doloiros et ab plor (BdT 330.1a), vv. 25-29: «Ai, Proensal, en can grieu desconort / es remazut et en cal desonranza! / Perdut avetz solatz, juec e deport, / e gaug e ris, onor et alegranza, / et es vengut en man de cel de Franza». Anche Enrico di Castiglia usa l’epiteto Slealtà per riferirsi a Carlo in Alegramente e con grande baldanza (PSs 50.8), vv. 19-20: «e·lla fallanza che fé Slealtà, impura / e crudele a guida d’amaroso», in opposizione ad Alto Valore, senhal impiegato per apostrofare Corradino ai vv. 33-34: «Alto Valore ch’aggio visto in parte, / sìati a rimproccio lo mal ch’ài soferto». – Sui difficili rapporti tra il Conte e Paulet de Marselha si vedano anche la canzone Aras qu’es lo gays pascors (BdT 319.2) e la pastorella L’autrier m’anav’ab cor pensiu (BdT 319.6). – Al v. 6 compare per la prima volta il mot refranh N’Enric. Si tratta di una espediente utilizzato anche Cerveri de Girona, Pus li rey li laxon la ley (BdT 434a.52), dove alla fine di ogni cobla ricorre la parola-rima N’Anric. – Al v. 7 il ms. legge totæspanha, Riquer restituisce tota Espanha. Il copista di C impiega sempre æ per indicare l’elisione di a davanti ad una parola cominciante per e; ciò obbliga l’editore moderno a prescindere dalla a finale per non danneggiare la metrica. – Espanha nei trovatori corrisponde al regno di Castiglia e León (Carlos Alvar, La poesia trovadoresca en España y Portugal, Madrid 1977, pp. 292-301). – Al v. 10 l’espressione de Burcx tro en Alamanha delinea limiti geografici europei citati anche in un sirventese di Bertran de Born (BdT 80.14), vv. 75-76: «Lo reis joves s’a pretz donat / de Burcx tro qu’en Alamanha». Levy corregge in Burc, ma nel ms. Burcx riproduce indubbiamente il castigliano Burgos. – Al v. 13 l’espanhol indica gli abitanti dei regni occidentali, in particolare castigliani e leonesi (Alvar, La poesia trovadoresca, pp. 292-301). – Allo stesso verso, del Gronh corrisponde a Logroño, nome di luogo che i trovatori provenzali consideravano composto di articolo e sostantivo, cioè Lo Gronh. In passato gli editori hanno equivocato a lungo su questo punto. Levy, sbagliando, identifica il toponimo con il promontorio di Saint-Malo sulla scorta di un errore, generato in precedenza da Friedrich Diez (Leben und Werke der Troubadours, Zwickau 1829, p. 528) nella traduzione del sirventese Quan vei lo temps renovelar (BdT 81.1) di Bertran de Born figlio, v. 24: «lais sa terra al senhor del Gronh». Diez aveva interpretato come elevazione di Saint-Malo dal francese groin. Paul Meyer («Périodiques», Romania, 11, 1882, pp. 438-441, a p. 441) riconosce l’errore e stabilisce che: «Il s’agit de Logroño en Espagne, qui en vieux français, par ex. dans Froissart, ne s’appelle jamais autrement que Le Grong». De Bartholomaeis pensa invece a Mongronh, località della Catalogna. Ricordiamo altri esempi presenti nei trovatori, cfr. Cerveri da Girona (BdT 434a.43), v. 25 «Tot l’als tenc vil: que·l Groyn ne Soria»; Gausbert Amiel (BdT 172.1), v. 25 «tal que de Paris tro al Groing». Logroño, per la sua posizione sul cammino di Santiago, è citato anche nei cantari di gesta, cfr. Girart de Roussillon (Micheline de Combarieu du Grès et Gérard Gouiran, La Chanson de Girart de Roussillon, Paris 1993), v. 7266: «E vinrent a une aige au gas de Groin» e v. 8264: «Trop a grant don del Rin entros qu’au Groing». – Al v. 16 el reys N’Anfos è Alfonso Fernández il Saggio, fratello di Enrico di Castiglia, re di Castiglia e León dal 1252 al 1284. – Al v. 27 Colradi è Corradino di Svevia, duca di Svevia, Re di Sicilia e Re di Gerusalemme; ultimo degli Hohenstaufen regnanti. Dopo la morte dello zio Manfredi nella battaglia di Benevento del 1266, Corradino si mosse alla riconquista del regno, passato nel frattempo sotto la corona di Carlo I d’Angiò, ma fu sconfitto dopo un’apparente vittoria iniziale nella Battaglia di Tagliacozzo. Alardo di Valéry, consigliere di Carlo, ideò uno stratagemma per sconfiggere le truppe ghibelline, numericamente superiori. Ordinò al nobile Enrico di Cousances di indossare l’armatura e le insegne reali, vista la forte somiglianza tra costui e Carlo d’Angiò. Caduto questo combattente, i ghibellini ebbero l’illusione di aver ucciso il re francese e di avere in pugno la vittoria. Si lanciarono così all’inseguimento dei guelfi in apparente rotta, per essere poi travolti dalla carica di ottocento cavalieri francesi tenuti in riserva. L’ingegnoso espediente è citato anche da Dante, Inf., XXVIII, 17-18: «[…] là da Tagliacozzo, / dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo». Lo schieramento ghibellino non resse il colpo e si disperse, subendo la strage. Corradino si dette alla fuga dirigendosi verso Roma, ma fu tradito e consegnato al suo avversario che lo condannò a morte senza regolare processo. Il principe svevo fu giustiziato a Napoli, in piazza del Mercato, il 29 ottobre 1268. Si veda inoltre Peter Herde, «CORRADINO di Svevia, re di Gerusalemme e di Sicilia», Dizionario biografico degli italiani, 77 voll., Roma 1960-, vol. XXIX, pp. 364-378.

[LT]


BdT   Paulet de Marselha