Rialto    IdT

281.5

 

   

Rambertino Buvalelli

 

 

 

 

   
   

I.

   
   

Ges de chantar no·m voill gequir,

 

Non voglio lasciare il mio canto, e ho ben ragione di cantare, giacché nessuno dimostra nei miei confronti invidia d’amore, così ve ne voglio dire il vero. Perciò devo cantare volentieri, dal momento che posso solo salire e non scendere in amore, e odo dire e affermare: «Chi niente ha, niente può perdere».

   

et ai razos que chantar deia,

 
   

que negus no me port’enveia

 
4  

d’amor, si vos en voill ver dir.

 
   

Per cho dei chantar volunters,

 
   

que poiar pois e no dessendre

 
   

d’amor, et aug dir e contendre:

 
8  

«Qui ren non a, ren non pot perdre».

 
   

 

   
   

II.

   
   

Perdre non dei lo gent servir

 

Non devo perdere il nobile servire a cui mi sono dedicato nei riguardi di colei che mi guerreggia con cento sospiri – così mi veda Dio –, sospiri tanto accorati che già il primo mi sfida a morire, e così mi fa ben capire che niente mi vale la lunga attesa, perché a tanto non potrei elevarmi.

   

q’ai fait a cella qi·m gerreia

 
   

de cent sospirs si Deus me veia –,

 
12  

aitan corals que del morir

 
   

me desfida toz lo premers,

 
   

e si mi fai trop ben entendre

 
   

qe ren no·m val lo loncs atendre,

 
16  

que tant no·i poiria derdre.

 
   

 

   
   

III.

   
   

E per zo pens, qant dei dormir,

 

E perciò penso, quando devo dormire, se v’è ragione che debba amare la mia signora, la quale sopra di me impone la sua autorità a tal punto che per poco non mi fa impazzire; ma tanto è la sua persona affascinante che sempre mi induce a desiderarla il mio cuore sincero, a cui devo attenermi, e siccome tanto vale (la mia signora), perché non dovrebbe innalzarmi?

   

si razos es q’amar mi deia

 
   

midonz, qui sobra·m seignoreia

 
20  

tant que per pauc no·m fai follir;

 
   

mas tant es sos cors plazenters,

 
   

q’ades me somon de l’entendre

 
   

mon cor ver cui dei attendre,

 
24  

e pos tant val, no m’en deu erdre?

 
   

 

   
   

IV.

   
   

«Dunc, qe·m faras? Vols t’en partir?»

 

«Dunque, che cosa farai? Vuoi andare via?» «Sì, lo voglio.» «Perché?» «Perché troppo folleggia chi persegue il suo danno, e se amore ti contrasta, credi che per diritto ti ascolti?» «Sì, davvero, malgrado i maldicenti mi rendo a lei, poiché a un’altra non vorrei rendermi, dal momento che ella mi può donare e vendere, né alcuna sofferenza mi fa desistere (dal mio intento)».

 

   

«Oc, eu.» «Per qe?» «Qar trop foleia

 
   

qui sec son dan, e se·t plaideia

 
28  

Amors, adreit creis t’en l’auzir?»

 
   

«Hoc, qar, mal grat de lauzengiers,

 
   

mi rent a leis, q’az autra rendre

 
   

no·m voill, q’ela·m pot dar e vendre,

 
32  

ne nuilz maltraitz no·m fai esperdre.»

 
   

 

   
   

V.

   
   

Pero si tot me fai languir,

 

V. Però, sebbene tutto mi faccia languire, non vi è ragione che mai mi ricreda dall’amare colei che verso di me folleggia, poiché mi fa sopportare ciò che vuole. Così, come raffinato amante fedele che non si vuole verso amore difendere, preferisco accettare di buon grado ciò che lei vuole, giacché un’altra non mi può abbassare né innalzare.

   

non es razos que ja·m recreia

 
   

d’amar leis, qui vers mi felneia,

 
36  

car zo que·il plaz me fai soffrir.

 
   

Si cum fins amics vertaders

 
   

qe no·s vol ves amor deffendre,

 
   

mas ço q’il vol voill en grat prendre,

 
40  

q’autra no·m pot baissar ni erdre.

 
   

 

   
   

VI.

   
   

Chanson, va t’en, bos messagers,

 

Canzone, buon messaggero, e … senza più attendere verso … fa intendere che il mio Ristoro non mi può abbandonare.

   

e … ses plus atendre,

 
   

vas … fai entendre

 
44  

que Mon Restaur no·m pot esperdre.

 
   

 

   
   

VII.

   
   

Jovenz, beutaz e prez enters

 

Giovinezza, bellezza e pregio compito e il bene – grande e meno grande – si sono messi senza contesa nella … che sa guadagnare pregio senza mai perderlo.

   

s’es mes e·l ben e·l grant e·l mendre ,

 
   

en la … ses contendre,

 
48  

que sap prez gaignar ses perdre.

 

 

 

 

Testo: Luca Gatti, Rialto 16.i.2017.


1. Per un’espressione simile vedi anche una canzone di crociata di Giraut de Borneil, Era, can vei re (BdT 242.15), v. 76: «car del chantar no·m sui gequitz!».

10 gerreia. I precedenti editori emendano gerreia in guerreia; ad ogni modo, la grafia della lezione tràdita dal ms. è accettabile e trova riscontri nel corpus occitano.

16 derdre. Il verbo è impiegato da Rambertino anche in Toz m’era de chantar geqiz (BdT 281.10), v. 42 (participio passato). Non sembrerebbe attestato altrove nella lirica occitana; per il significato vedi PD derzer, ovvero «lever, élever, dresser».

18 amar. L’emendatio è condivisa da tutti gli editori e trova riscontro, ad esempio, in Nuills hom no s’auci tan gen (BdT 366.22), v. 22: «tal dompna c’amar mi deia». Il costrutto dever amor costituisce infatti hapax.

23-24. Melli emenda ver cui eu in verai ieu: «Mon cor verai ieu dei attendre, / e pos tal val, no m’en deu erdre?» (‘D’altronde non posso certo disattendere ciò che sinceramente mi detta il mio cuore, e come potrebbe non spingermi a innalzarmi verso di lei poiché vale tanto?’). L’intervento pare superfluo, poiché il senso del passo è già sufficientemente chiaro.

25-28. La tecnica delle coblas tensonadas è assai diffusa nella poesia trobadorica: sulle forme del dialogo nella lirica occitana si rimanda all’approfondita analisi di Marco Grimaldi, Allegoria in versi. Un’idea della poesia dei trovatori, Bologna 2012, pp. 143-222 (in particolare pp. 191-209). Relativamente al dialogo interiore si trovano punti di contatto fra Rambertino Buvalelli e la canzone di Aimeric de Peguilhan Chantar vuilh. – Per qe? – Ja·m pladz (BdT 10.16), componimento giocato integralmente sulle coblas tensonadas; ad ogni modo, la fonte del trovatore bolognese per il passo in questione sarà da rinvenirsi più verosimilmente in Ges non puesc en bon vers faillir (BdT 356.4) di Peire Rogier: «Vuelh m’en partir. – / No far! – Si faray. – Quers ton dan. – / Qu’en puesc als? – Vols t’en ben jauzir?», vv. 49-51 (per cui vedi Paola Allegretti, «Il sonetto dialogato due-trecentesco. L’intercisio e le sue origini gallo-romanze», in Il genere «tenzone» nelle letterature romanze delle origini, Atti del convegno internazionale (Losanna, 13-15 novembre 1997), a cura di Matteo Pedroni e Antonio Stäuble, Ravenna 1999, pp. 73-109, a p. 88).

27 se·t plaideia. La lezione originaria del ms. è sec plaideia, il che costringerebbe a interpretare plaideia come sostantivo, con significato di ‘querelle’. Così Bertoni, Rambertino Buvalelli, p. 63: «Che plaideja sia un sostantivo, e non già una forma verbale, è stato veduto dal Levy». Ciò nonostante, la considerazione di Emil Levy si basava esclusivamente sul passo di Rambertino, rendendo di fatto il sostantivo un hapax all’interno del corpus provenzale. In ogni caso, è a tutti gli effetti molto probabile che il copista abbia trascritto un secondo sec per attrazione di quello rinvenibile a inizio verso (qui sec son dan e sec plaideia): l’emendatio di Bertoni, I Trovatori, – ignorata da Melli (ma cfr. la rec. di Michelangelo Picone, Studi e problemi di critica testuale, 21, 1980, pp. 209-219, a p. 217) – che qui si accoglie (sulla scorta dell’edizione Capusso), dona senso al passo e, non da ultimo, riconduce la forma plaideia al verbo plaideiar, largamente attestato.

28. Bertoni nella sua prima edizione rinuncia a ricostruire il verso.

36 qe·il. Casini propone qu’il; Bertoni, Rambertino Buvalelli stampa queil; Bertoni, I Trovatori, Melli e Capusso condividono la lezione que·il. In particolare, per Capusso, Rambertino Buvalelli, p. 32 «L’espansione que·il [è] motivata metricamente»; si ritiene qe·il intervento più economico dal punto di vista paleografico, e necessario per ragioni non metriche ma morfologiche.

42-43. Le integrazioni lai vas Est e a na Biatriz, proposte da Casini e accolte in Bertoni, Rambertino Buvalelli, e Melli, sono, sebbene plausibili, assai ardite; si preferisce non emendare in passo, come Bertoni, I Trovatori, e Capusso.

44 Mon Restaurs. Melli stampa con iniziali minuscole, non interpretando la iunctura come senhal, al contrario degli altri editori, ma si tratterebbe dell’unico caso all’interno del corpus del trovatore. Si è corretto l’errore flessionale, secondo l’usus del trovatore, per cui si veda S’a Mon Restaur pogues plazer (BdT 281.8), vv. 21 e 31 (ma cfr. Albert Stimming, rec. a Bertoni, Rambertino Buvalelli, Zeitschrift für romanische Philologie, 34, 1910, pp. 224-228, a p. 226). – no·m pot esperdre. Il manoscritto presenta la lezione no·m pot perdre: il verso è dunque ipometro. Si accoglie l’emendatio di Casini e Capusso; Melli propone invece no mi pot perdre (sulla scorta di Bertoni, no me pot perdre).

47. Le integrazioni proposte per la lacuna sono plus bella (Casini, Bertoni e Melli) e plus valen (Capusso).

[LG]


BdT    Rambertino Buvalelli    IdT

Testo    Circostanze storiche