Testi: Canello
1883, Toja 1960, Perugi 1978, Eusebi 1995 (IV). – Rialto 20.v.2008.
Mss: A 39, Da
159 (con attribuzione a Guiraut de Borneill).
Edizioni critiche: Ugo Angelo Canello,
La vita e le opere del trovatore Arnaldo Daniello, edizione
critica corredata delle varianti di tutti i manoscritti, di un’introduzione
storico-letteraria e di versione, note, rimario e glossario, Halle 1883, p. 98
(IV); René Lavaud, Les poésies d’Arnaut Daniel, réédition critique
d’après Canello avec traduction française et notes, Toulouse 1910 (ristampa
anastatica Genève, Slatkine, 1973), p. 22 (IV); Arnaut Daniel, Canzoni,
edizione critica, studio introduttivo, commento e traduzione a cura di
Gianluigi Toja, Firenze 1960, p. 213 (IV); Maurizio Perugi, Le canzoni di
Arnaut Daniel, Milano-Napoli 1978, II, p. 149 (IV); James J. Wilhelm,
The Poetry of Arnaut Daniel, edited and translated, New York - London
1981, p. 14 (IV); Arnaut Daniel, L’aur’amara, a cura di Mario Eusebi,
Parma 19952,
p. 50 (IV).
Altre edizioni: François
Just-Marie Raynouard, Choix des poésies originales des troubadours, 6
voll., Paris 1816-21, vol. V, pp. 37-38 (frammenti);
Carl August Friedrich Mahn, Die Werke der Troubadours in provenzalischer
Sprache, 4 voll., Berlin 1846-53, vol. II, p. 79 (riproduce
Raynouard); Gianluigi Toja, Trovatori di Provenza e d’Italia, Parma
1965, p. 178 (testo Toja); Martín de Riquer, Los trovadores. Historia
literaria y textos, 3 voll., Barcelona 1975, II, p. 617 (testo Lavaud, con
modifiche); Arnaut Daniel, Poesías, traducción, introducción y notas
por Martín de Riquer, Barcelona 1994, p. 83 (testo Eusebi, con modifiche a 17,
30, 33 e 52).
Metrica: a7’ b7’ c7’ d7’ e8 f7’ f7’ e8
(Frank 871: 2, unicum). Questo schema è adottato da tutti gli editori,
con l’eccezione di Perugi che contesta a ragione la presenza dell’octosyllabe
nell’ultimo verso: «A differenza di quanto credettero gli editori precedenti,
l’ultimo verso della strofe conta non otto bensì sette sillabe: *A* dà
costantemente l’octosyllabe […] tranne che ai vv. 32 e 48; viceversa *Da*
dà regolarmente un heptasyllabe (ivi comprendendo il v. 24, la cui
ipometria è agevolmente restaurabile). Sin da questa considerazione si
profila, a livello euristico, la maggior economiainerente alla soluzione
trasmessa da *Da*»
(p. 149). Ovviamente la variante da lui ipotizzata non esiste in Frank. Sei
coblas unissonans di otto versi e una tornada di quattro.
Note
«Spinoso» (definizione di Perugi) il
problema della paternità del componimento, con Canello e soprattutto Bartsch
schierati a favore di Guiraut de Bornelh, Lavaud astenuto, e invece Toja, lo
stesso Perugi ed Eusebi orientati verso Arnaut essenzialmente sulla base di
valutazioni stilistiche: «L’analisi interna della canzone rivela nelle
immagini e nelle rime evidenti caratteri della poesia del Daniel» (Toja, p.
216); «L’identikit stilematico è analogo […] ad altri ricostruiti a
proposito di canzoni sicuramente arnaldiane» (Perugi, p. 151); «[…] questa
canzone deve restare nel canzoniere arnaldiano per echi verificabili che la
percorrono» (Eusebi, p. 50).
Un’eccessiva varietà di proposte segnala
a 9-13 un nodo critico; cominciamo al solito con Canello, che, pur stabilendo,
anche nella punteggiatura, la vulgata per questi versi, nella traduzione
neutralizza la consecutiva assorbendola al v. 9 («Difficile è trovare una
gioja amorosa scevra da ogni affanno; per tanti lati s’aggira e s’insinua
l’Amor falso: ed essa non ferma sua stanza dove scarseggia la lealtà! Io non
conosco tra mille [donne] due sole […]» [p. 123]), mentre in nota fa una gran
confusione (non rilevata dagli editori successivi) tra i due verbi di 11-12 (s’asembla
e asoma) e attribuisce al secondo un soggetto (jois)
impossibile, addossato nella traduzione al primo: «Il senso del luogo non è
ben chiaro. A noi pare che il soggetto di asoma (su questa voce vedi la
nota a IX 17) sia un joi-s, ripreso mentalmente dal v. 9. Facendo
soggetto il vicino fals’Amors, bisognerebbe, col Raynouard,
interpretare l’asoma per ‘regna’ ‘domina’: “l’amor falso non alligna
dove regna la lealtà”; che ci par quasi una tautologia» (p. 203).
Lavaud, ponendo una virgola alla fine di 12 e contestando il
significato di ‘finir, achever’ proposto da Levy (SW 1 91) per
asomar, ritiene, per parte sua, che vada privilegiato il «sens propre de
“surgir, s’élever en formant une cime, culminer» e così traduce: «Bien
difficilement trouve-t-on une joie sans restriction, car tellement de tous
côtés tournoie et s’abat l’Amour faux, – et il ne
s’approche pas de l’endroit où la loyauté se dresse, –
que je ne trouve point une dame entre mille […]» (p. 25); come si vede,
l’editore francese ripristina la consecutiva sterilizzata da Canello
spostandola addirittura al v. 13, mentre una terza via propone Toja, che mette
un punto e virgola alla fine di 12 e molto semplicemente elimina il problema
della consecutiva: «Ben si trova a fatica una gioia libera da affanno perché
in tante parti volteggia e s’abbatte il falso Amore, che non s’avvicina là
dove lealtà sorge. Io non trovo davvero due donne tra mille […]» (p. 219).
Segue la scia Perugi, che a 10 legge tanta part e traduce: «È ben
difficile, la Gioia, trovarla allo stato puro, visto che un po’ dovunque si
volge e si abbatte Falso-Amore, che non prende stanza in luogo dove Lealtà si
esprime al vertice del proprio valore: quanto a me, non ne trovo due fra mille
[…]» (p. 153); si pone, invece, correttamente il problema Eusebi, che però,
individuando la conseguenza nei vv. 11-12, è costretto a dare ai due versi un
senso del tutto inedito, ricorrendo per s’asembla al significato “se
concentre” indicato da Raynouard e per asomar a quello “finir, achever”
proposto da Levy; con questo risultato: «Ben difficilmente si trova gioia
pura, perché Falso-Amore gira e salta da tante parti che non si concentra là
dove Lealtà finisce: così non ne trovo due fra mille […]» (pp. 51-52).
L’inevitabilità della consecutiva ci sembra nettamente anche se
striminzitamente dimostrata dall’unica altra occorrenza del sintagma tantas
partz: Guilhem de l’Olivier, Mans se fenhon enamorat (BdT
246.40) 4-6: «Vas tantas partz an semenat / lur volontat qu’issit son de la
via, / don aisi·s pert fin’amors e·s desvia» (Oskar Schultz-Gora,
Provenzalische Studien, vol. I, Strasbourg 1919, p. 37); resta da
stabilire la sua collocazione, imprescindibilmente subordinata al significato
dei vv. 11-12, che vorremmo cercare di fissare in modo più stringente. Per
s’asembla riteniamo vincolante la nota di Perugi a Quan chai la fuelha
(BdT 29.16) 33-34 («No vuelh s’asemble / mos cors ab autr’amor»):
«Informazioni più precise comunica […] soprattutto TDF s’assembla
“s’assembler, se réunir, s’accoupler, se marier”» (p. 145), anche se
inspiegabilmente da lui stesso disattesa («non prende stanza»), forse perché,
al pari degli altri editori, non ha considerato la probabile funzione di
dativo di persona rivestita dal locativo lai on (suffragabile, per
esempio, con En breu brizara·l temps braus [BdT 29.9] 49-50: «Arnautz
vol sos chans sia ufertz / lai on dous motz mou en agre» e Guiraut de Bornelh,
Sol c’Amors me plevis [BdT 242.76] 25-28: «Car pos c’om no pot
dir / so cor ni descobrir / lai on es sos entens / pauzatz, drechs es niens»
[Adolf Kolsen, Sämtliche Lieder des Trobadors Giraut de Bornelh, 2
voll., Halle 1910-35, vol. I, p. 28]), accettando la quale, cade di necessità
per asomar l’accezione adottata da Eusebi (‘finire, terminare’), mentre
i significati indicati da Lavaud (-Toja) e Perugi finiscono per coincidere
(‘toccare il culmine, svettare, ergersi, dominare’); con conseguente
inevitabile localizzazione della consecutiva. Con questo risultato: ‘È arduo
trovare la gioia pura, perché in così tante parti gira e volta Falso-Amore, il
quale non si unisce alla persona in cui Lealtà predomina, che non riesco a
trovarne due fra mille […]’.
Molto interessanti ci sembrano la
situazione testimoniale (Tuich li plus som enuant hyure A, Tuit li
plus saui en uant iure Da)
e le soluzioni critiche proposte dagli editori per il v. 17: da Canello
(«Tuich li plus savi en vant hiure»), che riproduce quasi integralmente la
lezione di Da senza
accorgersi, o comunque senza nulla dire, dell’ipermetria, a Lavaud («Totz li
plus savis en va hiure») che corregge «le pluriel en sing., à cause du reste
de la strophe», ma consolidando l’ipermetria; da Toja («Totz lo plus soms en
va hiure»), che fa la stessa operazione dell’editore francese sul testo di A,
a Perugi («Tuit li plus som en vant iure»), che invece fa l’operazione
esattamente inversa a quella di Canello (riprodurre A tranne Tuich,
così come Canello aveva ripreso Da tranne Tuit); fino a
Eusebi («Totz li plus savis en vauc hiure»), che riprende Lavaud, ma blindando
con vauc l’ipermetria. Per quanto ci riguarda, riteniamo che la spinosa
questione vada forse affrontata diversamente, innanzitutto riesaminando con
più sottile diffidenza critica la lezione dei codici, nella quale gli effetti
di uno smottamento perturbativo affiorano nell’incongruo plurale, che accomuna
i due esiti, nell’ipermetria di Da e nel quasi certo adattamento
metrico di A (som); tutto potrebbe essere cominciato da un originario *Totz
li plus savis van hiure, dove van stava per va·n, ma dai
copisti interpretato come terza persona plurale, da cui le varie procedure di
adeguamento impiegate (in entrambi la correzione in plurale dell’aggettivo
indefinito d’esordio e l’innesto di en, e invece in Da il
passaggio savis > savi mentre in A la sostituzione di savis
con la glossa normalizzante som). In definitiva questa la nostra
proposta per 17-18: «Totz li plus savis va·n hiure / ses mujol e ses retomba»
(‘Perfino il più assennato se ne ubriaca senza bicchiere e senza bottiglia’).
Piuttosto controversi invece l’assetto e
l’interpretazione proposti per 19-22, e specialmente per la clausola del v. 19
(celembla A, esclemba Da); Canello (che così chiosa
la sua congettura esclembla: «[…] ne ottenemmo tal voce che subito
rivelava stretta parentela col vnz. sgalembro, romagn. sgalèmbar,
sicil. scalembru ‘storto’ […]. Un vb. prov. esclemblar […] poté
quindi formarsi col significato di ‘storcere’, ‘sviare’; e, trattandosi qui di
capelli, ‘scompigliare’» [p. 204]) traduce: «e quel furbetto [d’Amore] gli
scompone i ciuffetti che gli pendono dalla [lunga] chioma, e tanto più
dappresso gli susurra all’orecchio quanto più bellamente l’altro se ne
vorrebbe andare» (p. 123); Lavaud (che legge a 19 gignos’, en cel embla,
commentando: «le verbe esclemblar, imaginé “fort ingénieusement” par
Can., mais sans que rien appuie son hypothèse […], ne figure que
dubitativement dans Levy, III, 172. Quant à l’objection tirée
de la répètition de embla, […] je m’étonne que C. soutienne cette opinion […].
A. D. y répète, en effet, souvent les mêmes mots avec le même sens»):
«espiègle, elle lui emporte à la dérobée le brin qui lui pend encore à la
chevelure. Et elle lui murmure plus près de l’oreille à mesure que plus
honnêtement il s’en éloigne»; condivide integralmente la posizione
dell’editore francese Toja: «e lui, birichino (Amore), furtivamente gli
strappa il (solo) capello che gli pende dalla chioma, e più vicino gli
sussurra all’orecchio, quanto più onestamente egli si allontana»; Perugi (che,
in clausola a 19, pone a testo la lezione celembla di A) ritiene
gignoset «senza dubbio avverbio» ma per il verbo dispera «di attingere una
conclusione definitiva» e considera quella di Canello, tra «tutte le ipotesi
avanzate, la più verisimile» (p. 161): «il fatto è che egli, con destrezza
insinuante, scosta la capigliatura che a quello scende dal capo e più vicino
gli sussurra all’orecchio, quanto più lentamente se ne allontana» (p. 154);
Eusebi, infine, ripropone l’ipotesi Lavaud (-Toja), ma ritiene che a 21-22 «vi
sia stato uno scambio tra on e e»: «a causa di lui che,
ingannevole, con cautela lo deruba dei capelli che gli pendono dal capo, nel
momento in cui più vicino gli mormora all’orecchio e più dolcemente se ne
allontana» (p. 52). Volendo brevemente chiosare queste proposte, va detto che
esse, al di là delle differenze (soprattutto per il verbo in clausola a 19)
esibite, sono accomunate dal fatto che tutte riferiscono la crin al
titolare di 17 e che nessuna spieghi il significato dei gesti che fals’Amor
compie nei confronti di costui (scostargli o rubargli il capello o i capelli
che gli scendono dal capo), che restano perciò, soprattutto il secondo (il
furto dei capelli) incomprensibili, scollati rispetto al contesto e anche un
po’ comici. La nostra opinione è che l’insensatezza della situazione nasca
dall’erronea attribuzione del crin al soggetto di 17, e che essa
sparisca cambiandone la proprietà e considerandolo attributo fisico (anzi
l’attributo fisico per eccellenza) della fals’Amor personificata; e se
si evocano per un attimo i vv. 19-21 di Ab guai so cuindet e leri (BdT
29.10): «e quan remir sa crin saura / e·l cors qu’a graile e nueu / mais l’am
que qui·m des Luzerna», emergerà con chiarezza il valore di emblema della
femminilità e sensualità assegnato da Arnaut ai capelli fluenti di donna.
Accettando questa ipotesi, la scena che ci viene presentata nella terza
cobla si configura come un’azione seduttiva compiuta dalla fals’Amor,
che nelle vesti di una sensualissima donna, adesca il saggio di turno (anzi il
plus savis) sciogliendosi e scompigliandosi la (saura?) chioma e
bisbigliandogli nell’orecchio dolci ubriacanti parole e ammalianti lusinghe:
per essa funziona a meraviglia l’ipotesi verbale di Canello. Con questo
risultato: «cui ill gignoset esclembla / la crin qe·il pent a la coma /e plus
pres li bruit de l’auzil / on plus gentet s’en desloigna» (‘per il quale egli
[fals’Amor] con subdola malizia scompiglia la chioma che gli pende dal
capo e con tanta maggiore intimità gli bisbiglia all’orecchio quanto più
pudicamente quegli si allontana’).
Seri problemi interpretativi presentano
i versi 28-32, la cui ardua comprensibilità ha dato origine a ipotesi
singolari. Per un efficace commento delle proposte di Canello («Nessun legato
di Roma ha ingegno cotanto sottile; e a donna Menzogna in persona, che tanto
bene sa disputare, potrebbe egli dare dei punti» [p. 123]), Lavaud («En effet,
tous les légats de Rome ne son point d’esprit si subtil. Aussi a-t-il comme
devise “Mensonge”, car il conteste si doucereusement qu’il pourrait me tromper
même sur un fil déjà promis» [p. 27]) e Toja («Tutti i legati di Roma non sono
davvero d’ingegno tanto sottile, perché Madonna racconta menzogna e tanto
soavemente rifiuta che saprebbe ingannarmi anche di un filo [promesso]» [p.
220]), ci avvarremo dell’efficace sintesi di Perugi: «Tutte queste proposte,
come salta subito agli occhi, hanno il loro punto debole, talvolta troppo
debole: il Ca è costretto ad attribuire a devisa un significato che
questa parola non ha; […] Lav traduce puosca come “pourrait”; il Toja,
infine, ha la geniale idea di introdurre un articolo onorifico senza
l’indispensabile complemento nominale» (p. 162). Completiamo il quadro citando
l’opinione dello stesso Perugi («perché tutti i legati di Roma non sono di
tanto sottile discernimento che la sua menzogna dichiarata, che con tanto
insinuante dolcezza chiede il soddisfacimento delle sue pretese, mi possa
ingannare punto o poco» [p. 154]), che suscita perplessità soprattutto per il
significato attribuito a caloigna, e quella di Eusebi («perché tutti i
legati di Roma non sono di animo così astuto come la sua riconosciuta
menzogna: tanto soavemente discute che mi si potrebbe ingannare anche su una
cosa semplice come un filo» [p. 53]), che è costretto a una divisione
sintattica che appare poco credibile. Ma, al di là dei punti deboli di
ciascuna delle ipotesi analizzate, quello che immediatamente colpisce in esse
è che, fatta eccezione per Eusebi che si accorge del problema ma offre una
soluzione semanticamente e sintatticamente irricevibile, nessuno degli editori
abbia ritenuto necessario chiarire il rapporto che lega il sen tant sotil
dei legati di Roma alla devisa messoigna, rifugiandosi
nell’escamotaggio non autorizzato dalla sintassi di compararlo al sen
della fals’Amor; con la conseguenza, inevitabile, che i due elementi
restano separati e logicamente sconnessi. Il nostro parere è che ciò che
ostacola pesantemente la comprensione dei versi in esame è il significato
generalmente attribuito a falsar (‘ingannare’), che finisce per
disarticolare l’intero impianto logico del passo. Le cose sembrano andare al
loro posto scegliendo l’accezione “widerlegen” registrata in SW 3 404,
s.v.: in questo caso sa devisa messoigna diventa oggetto di f. e
sen soggetto di posca nella versione eptasillabica di Perugi.
Con questo duplice risultato (ponendo una virgola alla fine di 31): ‘perché
tutti i legati di Roma non sono di ingegno così sottile che mi si possa
smentire la sua conclamata menzogna, che in modo così soave affabula’; ‘perché
tutti i legati di Roma non sono di ingegno così sottile che mi possa smentire
la sua conclamata menzogna, che in modo così soave affabula’.
Un altro scoglio è il liure in
rima al v. 33: la soluzione proposta già dubitativamente («Non sappiamo
tuttavia addurre alcun esempio d’un se s in enclisi su tal o
simile parola» [p. 205]) da Canello (per tal·s liure: «Chiunque Amor
segue si rassegni a questo» [p. 123]) e bocciata da Bartsch, viene accolta da
Lavaud (seguito da Toja) con questa chiosa: «se liurar, R., IV, 82, se
“livrer”, se “remettre entre les mains”, comme un homme-lige; per tal
est la locution habituelle: “ainsi, de cette manière”» (pp. 26-27); Perugi
pensa a un sostantivo («avvertendo che manca qualunque documentazione in
proposito» [p. 164]): «Chi segue Amore a tale condizione», mentre Eusebi a un
aggettivo: «Chi segue Amore in tal modo, povero lui!». Per quanto ci riguarda,
riteniamo che vada senz’altro accolta l’idea di Perugi, ma proponiamo una
diversa soluzione, che si fonda però su un ragionamento deduttivo non
documentabile: esso parte dalla constatazione di una sostanziale
sovrapponibilità semantica di liure e deliure aggettivi,
ricavabile senza sforzo dai lessici, e che dovrebbe per logica conseguenza
interessare anche il versante sostantivale, documentato solo per l’allotropo
prefissato (cfr. PD, s.v.: “expédition d’affaire; paiement”).
Postulando l’identico significato anche per la forma non prefissata, e tenendo
conto che nel verso arnaldiano si parla di Amor senza ulteriore
qualificazione, si avrebbe questo risultato: «Qui Amor sec per tal liure, /
cogul tenga per colomba» (‘Chi segue Amore per una ricompensa siffatta (la
sensualità della fals’Amor), scambi il cuculo per colomba’).
Nell’assetto dei vv. 37-40 si fronteggia
una linea Canello-Eusebi, che lega il v. 38 a 37, e un’altra
Lavaud-Toja-Perugi, che invece lo lega a 39: la casistica quasi completa delle
occorrenze di proverbis (BdT 76.5, 11-12; BdT 194.1,
49-50; BdT 246.55, 11-12 BdT 335.9, 12-14; BdT 461.236,
7-8) sembra dar ragione alla seconda.
Con l’esclusione di Toja ed Eusebi, che
non lo ritengono un problema, ognuno degli altri editori propone una soluzione
diversa per il mot tornat (comba) del v. 42: a cominciare da
Canello che pensa a un inedito significato: «Piuttosto si potrebbe sospettare
che con puois s’intendesse il ‘poggio’ per eccellenza […]; e che
Comba denotasse il picco di Come» (pp. 202-03); a Lavaud, che
ipotizza un de tomba («cette locution, que je rattache à tombar,
doit signifier en pente, prêt à tomber» [p. 27]): «qui est d’aplomb ou qui
penche vers sa perte»; fino a Perugi, che mette a testo lomba («hapax
molto poco probabile accanto al documentato lom/lombe» [Eusebi]): «che
cosa è pianura e che cosa è collina» (p. 156). Il nostro parere è che comba
rivesta a 2 e 42 un’accezione diversificata dal termine cui nei due loci
si oppone (puoi/plan), sicché nel primo caso ha propriamente il
valore di ‘valle’ che orograficamente si contrappone a ‘monte’, mentre nel
secondo quello di ‘depressione, fossato’, unica possibile contrapposizione ‘in
basso’ alla pianura.
Molto più complessa
e irta di difficoltà la situazione dei vv. 43-48, per i quali risulta, come al
solito, utile una panoramica delle opinioni in campo. Canello (per il testo
seguito integralmente da Lavaud e Toja, parzialmente per l’interpretazione)
legge a 44 blasm’a leis e a 47 loigna, traducendo: «e so pure di
tali amanti che in modo s’appajano da averne onta la donna e l’uomo sudiciume.
Io per me ho rinunciato a qualche ricca villana per non volere sollazzi
vergognosi, e biasimo disgiunto da ogni onore; e però rifuggo dall’avere
quest’Amor per padrone» (p. 123); Perugi si discosta da Canello a 44 (per il
primo emistichio: «La vulgata pone Don blasm’a leis, ma è chiaramente
superiore la lezione di *Da* Don blasm’es leis […]», e per
il significato di groma: «[…] noi rinviamo ad afr. gromer
“grommeler” […]» [p. 167]), a 45 (m’ai > n’ai), a 46 (jabs
> gabs: «gabs è tradotto “sollazzi” Ca: “moqueries” Lav:
“scherni” Toja: il Ca è fuori strada, i suoi successori intendono giustamente
ma senza avvedersi che gabs non può avere questo significato. […]
Per japs cfr. SW jap, jaup “Gebell,
Gekläff” [...]»
[p. 168]) e a 47 (jonga > loigna: «Gli editori
non si sono avvisti del ritorno della stessa parola in rima dal v. 14, e del
resto “biasimo disgiunto da onore” è traduzione erronea, mentre più corretto è
“avec honneur lointain” Lav, che tuttavia è costretto a forzare il testo
[“blâme immédiat”]. La soluzione è offerta ancora una volta dal Bartsch» [p.
168]): «perché so di un amante che nel rapporto amoroso si comporta in modo
che a lei viene biasimo ed egli raccoglie infamia: quanto a me, ho già mandato
a monte un grosso guadagno per non volere che le diffamazioni si uniscano alla
vergogna o la critica all’onore, ed ecco perché tengo a distanza la sua
signoria» (p. 156); Eusebi, infine, pur ricollegandosi in gran parte alla
vulgata, se ne allontana a 44 (blasma lei s’el col > blasm’a leis,
el col), a 47 (blasmes ab honor joigna > blasme ab honor loigna)
e a 48 (loinge > loing): «e so di qualche amante che si accoppia
così da rimproverare lui [Amore] se raccoglie gromma; tanto che io ho perduto
per questo una bella corte, perché non voglio scherni con vergogna né che il
vituperio si congiunga con l’onore; per cui fuggo il suo dominio» (p. 54). A
questo punto, volendo individuare gli elementi che accomunano le diverse
posizioni, non si fatica molto a desumerne con nettezza almeno due: a) la
valenza negativa attribuita a termini come groma al v. 44 e
gabs/jabs al v. 46 (in questo secondo caso addirittura ignorando
l’indicazione di massima positività contenuta nella lezione [iais] di
Da);
b) l’impossibilità di annullare l’opposizione (negativo > positivo) dei due
sostantivi (blasme/blasmes > honor) di 47. Con la conseguenza
che, limitandoci al secondo elemento, nessuno degli editori si è chiesto,
considerato il piallamento negativo operato nei versi precedenti, come si
potesse giustificare in quel verso la possibilità per il locutore di ricavare
onore da una situazione descritta come foriera di vergogna e biasimo senza
scampo: una contraddizione macroscopica praticamente passata in giudicato, ma
che, palesata, avrebbe forse potuto illuminare l’intero contesto. Infatti, se
proprio sulla base di 47, postuliamo che anche nei vv. 44 e 46 si verifichi
un’opposizione positivo > negativo, il senso complessivo dei versi in
questione si chiarirà senza dover ricorrere a forzature o piallature
semantiche, perché chi parla intende semplicemente rifiutare una situazione
amorosa in cui si verifichi uno sdoppiamento di effetti: vanto (gabs) e
onore per lui che è riuscito a possedere una dama (magari di rango alto) e
biasimo e disdoro per la donna amata. Resta da accertare la valenza positiva
di groma; e qui ci viene incontro in modo del tutto insperato un
grandissimo ammiratore di Arnaut, Dante, che proprio dal «miglior fabbro del
parlar materno» mutuerà il termine nel v. 114 di Par. XII: «Ma l’orbita
che fé la parte somma / di sua circunferenza, è derelitta, / sì ch’è la muffa
dov’era la gromma» («In senso proprio g. è il “tartaro” o “gruma”,
sedimento del vino che s’incrosta nelle botti ed è ritenuto prova della buona
qualità del contenuto. […] Nel contesto del luogo dantesco la g. vuol
significare metaforicamente la sostanza dei buoni principi informatori della
regola francescana e la loro retta osservanza» [Vincenzo Valente, voce
gromma in Enciclopedia Dantesca, III, Roma 1971, pp. 287-88]. Ci
sembra, a questo punto, chiaro quello che forse intendono dire i versi in
oggetto, per i quali formuliamo la seguente proposta: «q’ieu sai drut que si
assembla / don blasmes leis, el col groma; / q’ieu n’ai ja perdut cortil, /
car non vuoill gabs ab vergoigna / ni blasmes ab honor joigna, / per q’ieu
loinge son seignoril» (‘perché conosco qualche amante che copula in modo che
lei ne ricava biasimi e lui vantaggi; e per questo motivo ho già rinunciato a
un’occasione d’oro, perché non voglio lodi unite a vergogna né che il biasimo
accompagni l’onore, ragion per cui prendo le distanze dalla sua signoria».
[af]
BdT
Arnaut
Daniel |