Rialto

29.18

Arnaut Daniel

 

 

 

 

 

 

 

Testi: Canello 1883, Toja 1960, Perugi 1978, Eusebi 1995 (XV). – Rialto 24.i.2008.


Mss: A 41, B 28v, D 52, E 58, F 28 (solo i vv. 1-14), H 10, I 65v, K 50, N 190v, N2 1, U 28v, a 104 (con attribuzione a Raimbaut d’Aurenga).

Edizioni critiche: Ugo Angelo Canello, La vita e le opere del trovatore Arnaldo Daniello, edizione critica corredata delle varianti di tutti i manoscritti, di un’introduzione storico-letteraria e di versione, note, rimario e glossario, Halle 1883, p.115 (XV); René Lavaud, Les poésies d’Arnaut Daniel, réédition critique d’après Canello avec traduction française et notes, Toulouse 1910 (ristampa anastatica Genève, Slatkine, 1973), p. 92 (XV); Arnaut Daniel, Canzoni, edizione critica, studio introduttivo, commento e traduzione a cura di Gianluigi Toja, Firenze 1960, p. 337 (XV); Maurizio Perugi, Le canzoni di Arnaut Daniel, Milano-Napoli 1978, II, p. 491 (XV); James J. Wilhelm, The Poetry of Arnaut Daniel, edited and translated, New York - London 1981, p. 62 (XV); Arnaut Daniel, L’aur’amara, a cura di Mario Eusebi, Parma 19952, p. 130 (XV). 

Altre edizioni: François Just-Marie Raynouard, Choix des poésies originales des troubadours, 6 voll., Paris 1816-21, vol. V, p. 34; Giovanni Galvani, Osservazioni sulla poesia de’ trovatori e sulle principali maniere e forme di essa confrontate brevemente colle antiche italiane, Modena 1829, p. 76 Carl August Friedrich Mahn, Die Werke der Troubadours in provenzalischer Sprache, 4 voll., Berlin 1846-53, vol. II, p. 75 (testo Raynouard); Ernesto Monaci, Testi antichi provenzali, Roma 1889, col. 45 (testo Canello); H. J. Chaytor, The Troubadours of Dante. Being Selection from the Work of the Provençal Poets Quoted by Dante, Oxford 1902, p. 52 (testo Canello); Ernesto Monaci, Poesie in lingua d’oc e in lingua d’oïl allegate da Dante nel “De Vulgari Eloquentia”, premesso il testo delle allegazioni dantesche, Roma 1909, p. 16 (testo Canello);  André Berry, Florilège des Troubadours, Paris 1930, p. 192; Martín de Riquer, Los trovadores. Historia literaria y textos, 3 voll., Barcelona 1975, II, p. 636 (testo Toja); Arnaut Daniel, Poesías, traducción, introducción y notas por Martín de Riquer, Barcelona 1994, p. 133 (testo Eusebi).

Metrica: a10 b10 c10 d10 e10 f10 g10’ (Frank 875: 1). Sei coblas unissonans di sette versi e una tornada di tre.

 

Note

A 6 Perugi abbandona la vulgata che legge con BE cochos motz e propone, per «risolvere il problema posto da quel cent bos che è nella maggior parte dei mss.» (p. 502), cointos motz («affannose parole»); ma nessuno degli editori ha ritenuto utile spiegare ai lettori il motivo dell’inaccettabilità della lezione maggioritaria (presente in FHIKNN2Ua), che invece a noi sembra pienamente legittima (cfr. Aimeric de Peguilhan, Cel qui s’irais ni guerreia ab Amor [BdT 10.15] 31-32: «e mains bons motz mi fai pensar e dir / que ses Amor no·i sabria venir» [The Poems of Aimeric de Peguilhan, a cura di William P. Shepard e Frank M. Chambers, Evanston 1950, p. 101]).

Anche per il pois di 7 Perugi si differenzia dalla vulgata ritenendolo congiunzione causale e non avverbio di tempo; ma in contesti sovrapponibili a questo arnaldiano (cfr. Aimeric de Peguilhan, Lonjamen m’a trebalhat e malmes [BdT 10.33] 33-40; Arnaut de Tintinhac, En esmai et en cossirier [BdT 34.1] 22-26; Raimon Vidal, Belh m’es quan l’erba reverdis [BdT 411.2] 22-28), è costante la presenza della congiunzione avversativa, implicita solo nell’avverbio (‘ma poi’, ‘però poi’).

A 12 ancora Perugi accoglie la lezione isolata di D cap (il can di H è corretto in cab da altra mano) al posto di chams AB presente nella vulgata, rinunciando parimenti al tant della stessa per far largo alla dialefe d’esordio: «que eu no vau cap vaus ni plas ni pueis» («e per valli e pianure e poggi che percorra»); ma l’avverbio non sembra facilmente eliminabile, come dimostra Bernart de Ventadorn, En cossirer et en esmai (BdT 70.17) 1-4: « En cossirer et en esmai / sui d’un’amor que·m lass’ e·m te, / que tan no vau ni sai ni lai / qu’ilh ades no·m tenh’ en so fre» (Bernart von Ventadorn, Seine Lieder mit Einleitung und Glossar, herausgegeben von Carl Appel, Halle 1915, p. 216) e Daude de Pradas, Ben ay’Amors, quar anc me fes chauzir (BdT 124.6) 13-14: «q’ieu non vau tan vas autra part ni·m vir, / qu’ades mon cor no tir lai e mey huelh» (Poésies de Daude de Pradas, publiées avec une introduction, une traduction et des notes par A. H. Schutz, Toulouse-Paris 1933, p. 13).

Problemi più seri, a cominciare da quelli sintattici, forse un po’ trascurati dagli editori, presentano, invece, i vv. 19-21, come sembra dimostrare la varietà di soluzioni proposte, tutte evidentemente insoddisfacenti. Canello, che mette un punto fermo alla fine di 18 e una virgola a 19, traduce: «Ella è stata istruita ed educata dalla Cortesia, e tanto ha saputo rimuovere da sé perfin l’ombra d’un fatto spiacente, che io credo nessuna persona dabbene possa aver odio con lei» (p. 134); Lavaud si limita a sostituire a 19 la virgola con un punto e virgola, ma corregge  la traduzione di 21: «Gracieusement l’instruisit et la forma la Courtoisie, et elle a si bien banni loin d’elle toutes actions déplaisantes que je ne crois pas qu’en elle manque rien de ben» (p. 95); un po’ di confusione si ritrova in Toja, che pone una virgola a testo a 18 ma un punto (come i suoi predecessori) nella traduzione: «Gentile l’educò la Cortesia e la formò, e tanto ha da sé rimossa ogni azione spiacente, che non credo in lei manchi nulla di buono» (pp. 345-46); innova sensibilmente Perugi che fa dipendere 17-18 da 19, chiuso con due punti, e considera rotz (ros a) participio di roire («ronger, rogner, faucher» [p. 505]): «misura ed equilibrio e altri eccellenti attributi, bellezza, giovinezza, perfette operazioni e contegno piacevole, tutto questo le insegnò a fondo Cortesia: tanto ha in sé eroso ogni caratteristica deteriore che non credo che sul suo conto resti da dire nessuna lode» (p. 498); infine Eusebi collega i tre versi con una «subordinazione per paratassi» (p. 133); ne risulta, in pratica, una doppia consecutiva, che lascia più di qualche perplessità: «bene la educò e istruì cortesia che tanto via da sé ha strappato ogni spiacevole comportamento che non credo che in lei niente di buono manchi» (p. 132). Vediamo quali sono i problemi che pone ciascuna di queste proposte, cominciando ovviamente da quella di Lavaud-Toja, che migliora l’ipotesi Canello: in essa si stabilisce una conseguenza logica, oltre che sintattica, tra 21 e 20, che, a voler vedere le cose con un po’ di sana sottigliezza, sembra improponibile, perché si dovrebbe ammettere che tutte le alte qualità della donna (bellezza e giovinezza comprese) dipendano dall’opera di dirozzamento cortese da lei compiuta su se stessa, cosa palesemente insostenibile. La stessa obiezione vale anche per la proposta di Eusebi, aggiungendosi ai gravi dubbi di sintassi, e vale doppiamente nel caso di Perugi, perché coinvolge anche i vv. 17-19: come avrebbe potuto, infatti, Cortesia insegnare alla donna la bellezza e la giovinezza? D’altra parte l’obiezione può indirizzarci verso una soluzione più soddisfacente, permettendoci di isolare nei vv. 19-21 l’unico rapporto di conseguenzialità in grado di vanificarla, quello tra 19 e 20; con questo risultato: «Gen l’enseignet Cortesia e la duois / tant, a de si totz faitz desplazens rotz. / De lieis non cre res de ben si’ a dire» (‘Bene la educò Cortesia e tanto l’addestrò, che ella ha scrostato da sé ogni sgradevole contegno. Credo che in lei non manchi nessun bene’). Per 21 cfr. Bernart de Ventadorn, Lonc tems a qu’eu no chantei mai (BdT 70.27) 39-41: «Pretz e beutat, valor e sen / a plus qu’eu no vos sai dire. / Res de be no·n es a dire» (Bernart von Ventadorn, Seine Lieder mit Einleitung und Glossar, herausgegeben von Carl Appel, Halle 1915, p. 159).

Un viluppo di ipotesi aggroviglia anche i vv. 26-28: scioglierlo ci sembra impresa non da poco. Canello («ché il Rodano, quand’è ingrossato dalle piogge, non è tanto violento che più violenta corrente amorosa non piombi a stagnarmi nel cuore, quand’io la rimiro» [p. 134]) così chiosa il v. 28: «Verso intricato. Noi opiniamo, che il d’amor dipenda da dotz […]. Temiamo tuttavia che un errore possa celarsi nell’estanc, il quale potrebb’essere corruzione di estant col significato di ‘statim’ ‘sull’istante’, e che quindi avesse ragione a, secondato da U, di scrivere amors. In questo caso, il dettato ne verrebbe più netto, e significherebbe: “Il Rodano, gonfiato dalle piogge, non ha tal empito, che amore con empito più grande non m’irrompa nel cuore, tosto che io la rimiro”» (p. 248); Toja (considerando, con Lavaud, estanc d’amor soggetto di fassa) traduce: «Il Rodano, per quant’acqua lo ingrossi, ha tale impeto che più ricca corrente nel cuore non porti lo stagno d’Amore, quand’io la contemplo» (p. 346), ma in nota approva l’interpretazione del glossatore di H («No faz estanc etc. id est et non faciam estanc. et son ibi. id est e. no faza e estanc. so vol dire Rodanus quando ingrossatur aquis non ita fortiter currit et ubique spargitur quod ego plus largum rivum amoris in corde non faciam et maiorem lacum amoris. scilicet in corde meo quando eam remiro» [Maria Careri, Il canzoniere provenzale H, Modena 1990, p. 269-70). Meritata la reprimenda di Perugi («dal che è facile accorgersi che il Toja non ha compreso nemmeno la glossa di *H*, limitandosi a esemplare la traduzione del Lav» [p. 514]), che da parte sua, accogliendo l’ipotesi testuale alternativa di Canello, ma discostandosene nell’interpretazione («il solo modo di intendere la lezione di *Ua* ci sembra quello di considerare amors come apposizione del soggetto dotz, mercé una costruzione violentemente iperbatica» [p. 515]), così traduce: «Nemmeno il Rodano, per quanta acqua lo gonfi, non ha tale impeto che una vena più abbondante, Amore dico, non mi faccia stagno nel cuore ogni volta che la contemplo»; coraggiosamente innovativa la lettura di Eusebi («ché già il Rodano, per quanta acqua l’ingrossi, non ha tale impeto che al cuore, lago d’amore, non mi faccia più copiosa sorgente quando la contemplo» [p. 133]), che muove da un’importante chiosa lessicale («Mi allontano dai precedenti editori facendo di estanc d’amor apposizione di cor. Malgrado l’elisione, fass’ e estanc non possono saldarsi in un solo sintagma, perché faire estanc, là almeno dove è attestato, ha il senso di “rendere stagno” e non quello di “formare uno stagno”» [p. 134]), commentata con un punto di domanda da Beatrice Barbiellini Amidei (cfr. «Dante, Arnaut e le metamorfosi del cuore : a proposito di “Sols sui qui sai lo sobrafan qe·m sortz”, vv. 26-28», La parola del testo, 6, 2002, pp. 91-108, a p. 92), che, riproponendo il testo di Perugi, traduce: «che nemmeno il Rodano, per quanta acqua l’ingrossi, non ha tal forza, che Amore nel cuore una corrente più abbondante non mi trasformi in lago, quando la contemplo». Al termine di questa rassegna, speriamo esauriente e sufficientemente chiara, delle diverse opinioni su questi bellissimi e tormentatissimi versi, quello che più di ogni altra cosa colpisce è che, sebbene quasi tutti gli studiosi considerati abbiano più o meno esplicitamente (cfr. soprattutto Barbiellini Amidei, « Dante, Arnaut», pp. 94-95: «E riguardo all’estanc, al lago nel cuore arnaldiano, si può ancora ricordare la glossa del ms. H […], che vuol dire: il Rodano, quando è ingrossato dalle acque, non scorre tanto impetuosamente e si sparge ovunque, che io non faccia nel cuore più largo fiume d’amore e più ampio lago d’amore, cioè nel mio cuore, quando la osservo») accolto la spiegazione complessiva del glossatore di H, nessuno si sia interrogato sulla sua congruità testuale e contestuale, ma soprattutto che nessuno abbia degnato di adeguata attenzione l’ipotesi sintattica (fass[a] prima persona) sulla quale essa si fondava. Sicché, riguardo al primo punto, nessuno si è chiesto da dove sbucasse il concetto di ‘dilagamento’ riferito al Rodano, che potesse autorizzare la sua estensione alla locuzione faire estanc con riferimento alla dotz che finisce nel cor del locutore, dal momento che, come ha correttamente osservato Eusebi, essa può avere solo il significato di ‘rendere stagno’, ‘far stagnare’; riguardo, invece, al secondo punto, riteniamo che sia stato un errore ignorare quella ipotesi e che proprio da essa potrebbe scaturire la soluzione del problema esegetico legato ai vv. 26-28. La nostra opinione, infatti, è che in questi versi Arnaut voglia chiarire le ragioni che ostacolano il verificarsi della condizione prospettata a 25, cioè quella di un’autonoma facoltà comunicativa del cor rispetto al grado di coinvolgimento emotivo del locutore nei confronti della dama invitata a devinar. Insomma, sembra dire Arnaut, io avrei la possibilità di palesare alla dama l’amore che provo per lei solo se il mio cuore fosse in grado di esternare da sé il vortice di emozioni che mi investe quando la guardo; ma tale esternazione è fieramente ostacolata dalla mia capacità di contenimento e controllo di ogni tumulto emotivo, fermando e facendo ristagnare nel cuore anche le turbolenze più impetuose. In definitiva, questa la nostra proposta: «que jes Rozers, per aiga qe l’engrois, / non a tal briu c’al cor plus larga dotz / no·m fass’estanc d’amor, qan la remire» (‘perché il Rodano, per quanta acqua possa ingrossarlo, non ha un impeto tale che una più impetuosa corrente io non riesca a rendere uno stagno d’amore nel mio cuore, quando la guardo’).

Serissimi problemi interpretativi, forse sottovalutati da tutti gli editori, pone anche il v. 32; li esamineremo nel dettaglio dopo la consueta panoramica delle opinioni. Canello (che stabilisce la vulgata in clausola: m’a comors) traduce, senza interrogarsi sui nessi logici: «Ahimè! se non la godrò! Lasso! Come gravemente m’ha dentro ferito!» (p. 134); cerca di porvi rimedio Lavaud, che è costretto a un’eccessiva disinvoltura traduttiva: «Ah! si je ne la possède pas, elle, en revanche, elle s’est si rudement saisie de moi!» (p. 95); nessun problema invece per Toja: «Ahi, me infelice, se non la possiedo! Come male mi ha preso!» (p. 346); Perugi pensa, al contrario, che il verbo in clausola non sia comordre ma acomordre (su cui cfr. Autet e bas [BdT 29.5] 57), con il significato «di dirozzare […] l’amante, acclimatarlo a un ambiente e uno stile di vita regolato dal codice cortese» (p. 518), e che di conseguenza l’esito testuale sia il perfetto m’acomors (da lui francesizzato secondo la lezione di a in m’aquemors) non il passato prossimo m’a comors: «ahimè se non l’ho, tanto mi fece male quando cominciò ad addomesticarmi!» (pp. 499-500); Eusebi, infine, riprende nella sostanza l’opposizione di Lavaud (aiutandosi con la nota: «La stessa opposizione in vii, 1» [p. 134]), ma cercando di mantenersi più fedele al testo: «Aimè, se io non l’ho, tanto dolorosamente lei mi ha preso!» (p. 134). Come si vede anche da questa sintetica carrellata, a parte il caso di Lavaud ed Eusebi, che, forse avvertendo il disagio logico che procurava la vulgata di Canello, si sono rifugiati in un topos oppositivo difficile da riscontrare nel testo arnaldiano, nessuno degli editori ha avuto da eccepire sull’assetto logico del verso, così come nessuno ha avuto dubbi sul fatto che il pronome della protasi («si no l’ai») fosse con certezza da riferire alla donna; ma i problemi posti dal verso non finiscono qua. C’è, infatti, da spiegare anche il significato ampio dell’apodosi, che, a nostro parere, non può che essere l’interiezione scissa (Hailas) di autocommiserazione, a sintetizzare in modo estremo l’enorme carico di sofferenza che procurerà al locutore il mancato possesso non della donna (che striderebbe in maniera grossolana con l’impianto delicatamente cortese del componimento), ma del solatz evocato a 31. Se si accettano queste premesse, allora l’esclamazione che occupa gran parte del secondo emistichio deve necessariamente essere una sorta di chiosa all’interiezione, quasi un telegrafico commento all’atteggiamento di rassegnata accettazione della sofferenza da parte del soggetto che parla: con la conseguenza molto probabile che il verbo in clausola nasconda non una terza persona (come da tutti gli editori moderni ritenuto), bensì una prima persona, e l’inevitabile corollario che l’unica lezione accettabile per esso sia il m’acomors indicato da Perugi. Si propone in definitiva: «Hai, si no l’ai, las! tan mal m’acomors! / Pero l’afans m’es deportz, ris e jois, / car en pensan sui de lieis lecs e glotz» (‘Se non l’avrò [con riferimento a solatz], povero me! tanto male mi sono abituato! Eppure l’affanno è per me divertimento ecc.’); oppure: « Hai, si no l’ai, las! ta·n mal m’acomors!» (‘Se non l’avrò [con riferimento a solatz], povero me! Tanto mi sono abituato alla sofferenza! E tuttavia l’affanno è per me divertimento ecc.’). Delle due ipotesi, comunque, è la seconda che ci sembra da preferire, perché mal sostantivo rinvia con più immediatezza alla sofferenza d’amore: cfr. Bernart de Ventadorn, Non es meravelha s’eu chan (BdT 70.31) 29-32: « Ben es mos mals de bel semblan, / que mais val mos mals qu’autre bes; / e pois mos mals aitan bos m’es, / bos er lo bes apres l’afan» (Bernart von Ventadorn, Seine Lieder mit Einleitung und Glossar, herausgegeben von Carl Appel, Halle 1915, pp. 189-90).

L’estrema frammentazione esegetica segnala anche per i vv. 37-39 un nodo critico di notevole complessità: vediamola nel dettaglio. Canello, che legge a 39 solses («tignoso») e così traduce i versi in esame: «e nulla arrecò mai tanta gioja al cuor mio quanta ne diede quel tignoso (?) fallace referendario, che senza muovere parola, dovette sciogliere con me la sua borsa …» (p. 134), annota: «Lo Chabaneau propone un’assai buona interpretazione di questo verso e del precedente. Consiste nel riferire l’aquel a un solatz sottinteso, mettendo allora una virgola prima di don e un’altra dopo esbrugit; e leggendo sols es. Si tradurrebbe: “come fece quel [solazzo], del quale nessun finto referendario poté dir parola, che è il mio solo tesoro”» (p. 248); Lavaud («et rien ne me put donner tant de joie au cœur – que l’a fait ce jeu (rêvé) sur lequel jamais faux médisant n’a fait bruire sa langue, car c’est là un trésor pour moi seul» [pp. 96-97]) a sua volta così commenta la proposta di Chabaneau: «Je suis cette explicaion, en la modifiant sur deux points. Aquel, selon moi, se rapporte à treps ni bortz du v. 36 envisagés comme subst. unique, et je lis: a mi sol so·s tresors, leçon autorisée par deux groupes de mss. sur trois, et qui achève beaucoup mieux l’idée exprimée» (p. 97); dall’editore francese dissente Toja («né cosa alcuna tanta gioia poté dare al moi cuore, quanto ne diede quella intima, di cui anche i falsi maldicenti non han mormorato, perché per me solo è un tesoro» [p. 346]): «Non credo necessario questo accordo piuttosto insolito: aquel può riferirsi più semplicemente a ioi, senza sottintendere solatz. […] Il passo significa che non c’è divertimento, che abbia mai dato letizia al cuore di Arnaut, quanto il ioi, tesoro intimo e segreto, di cui non possono parlar male nemmeno i falsi adulatori» (p. 345); azzera tutto Perugi, che legge ses tresors (con ses possessivo) seguito dai puntini sospensivi: «e nulla mi poté dare tanta gioia al cuore quanto quella di cui mai maligno maldicente poté insinuare che a me, da solo, i suoi tesori …» (p. 500); scompiglia le carte, per evidente insoddisfazione, anche l’ultimo editore («aquel è antecedente della relativa c’a mi sol so·s tresors»): «né niente al cuore mi poté dare tanta gioia come fece quello, che mai maligno maldicente rese pubblico, che a me solo è tesoro» (p. 135). Alla fine di questa, sia pur sintetica, rassegna, resta viva la sensazione che si sia ancora lontani da una soluzione soddisfacente; la nostra opinione è che essa possa scaturire da una riflessione più approfondita sul passaggio che riguarda il feinz lausengiers. Se, infatti, proviamo a chiederci per quale sua condizione psicologica il locutore può presumere ragionevolmente un’astensione del maldicente a esercitare la sua azione diffamatoria, l’unica risposta possibile è data dall’afans di 33: è lo stato di sofferenza e di dolore del personaggio che dice io l’unico in grado di distogliere la malevola attenzione del lauzengier e al tempo stesso di rappresentare per lui un vero tesoro, considerata la sua capacità di trasformarlo in deportz, ris e jois. In definitiva, questa la nostra proposta (mantenendo inalterato il testo di Eusebi): ‘e niente mi poté dare al cuore tanta gioia quanta me ne ha data quello (l’affanno), di cui mai ha sparlato malefico maldicente, che solo per me è un tesoro’.

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