Rialto
Repertorio informatizzato dell’antica letteratura trobadorica e occitana
Anonimi
Per zo no·m voill desconortar
461.
193
Anonimi
Per zo no·m voill desconortar
Trad. it.
Apparato
Note

Non mi devo sconfortare, perché ho una gran quantità di compagni, a cui sono fatti grandi onori, tanto che pensano di meritarli, sulla base di quanto penso che ognuno sappia, ancora prima che il mondo perisca. Dunque, chi biasima gli altri in malo modo deve essere conoscitore di se stesso, cioè di ciò che gli si può rimproverare.

3 gran[s]] gran    4 q’ancor] qan cor; cuida[n]] cuida    5 [q]e] e    7 blasm’ autrui] blasma autrui

2-3. Petrossi assume che la rima sia -órs, ma essa è -ós, da confrontare con -on degli altri testi con medesima formula metrica, sebbene al v. 3 il rimante sia honors (/o'nos/): si tratta di una rima regolare, su cui si veda Giovanna Santini, Rimario dei trovatori, Roma 2011, p. 27.

4. Il ms. reca la lezione Qan cor li cuida meritar, che presenta diversi problemi. De Bartholomaeis corregge «qan om» e traduce i vv. 2-4: «perché ho un gran numero di compagni a cui son fatti grandi onori quando li si vuol rimeritare», dove «li» è riferito ad «onori». Petrossi conserva la lezione del codice (anche al v. 3 lascia gran) che rende con «perché ho un grande numero di compagni a cui è fatto grande onore, quando il cuore li pensa di meritare», usando cor come soggetto non articolato e riferendo li ai «compagni», unico sostantivo maschile plurale della traduzione. È evidente che tutte le traduzioni, compresa quella da me fornita, sono, a rigore, impossibili, perché li in provenzale è solo pronome dativo singolare, mentre meritar è verbo transitivo. Dovremmo quindi trovare los in riferimento a compagnos oppure – ciò che è una soluzione migliore – las in riferimento a honors. Poiché il pronome dativo li non è giustificabile in alcun modo, l’unica possibilità è che sia un italianismo caduto sotto la penna di un copista, che ha inteso honors come maschile plurale. Del resto, anche meritar è un verbo raro in provenzale, che ha per questo significato merir: di meritar si hanno poche occorrenze in testi religiosi tardi, dove potrebbe trattarsi di influsso del latino. Qui, invece, potrebbe essere un altro italianismo. Un ulteriore problema posto dal verso è il soggetto di cuida. Petrossi assume che sia cor senza articolo e declinazione, ma il senso non riesce dei più felici e, ad ogni modo, la questione viene solo spostata dal verbo a cor: questo è il cor di chi? De Bartholomaeis risolve, come si è visto, emendando qan cor > qan om; forse sarebbe preferibile conservare la c: qan c’om. Sono, tuttavia, persuaso che qan cor vada inteso come q’ancor (forma dell’avverbio presente anche in provenzale, ma certo più frequente nel volgare toscano), che anticipa la temporale del v. 6. Soggetto del verbo devono essere i compagnos, pertanto cuida va posto al plurale (sarebbe caduto un titulus). I compagnos pensano di meritare grandi onori già adesso, addirittura prima della fine del mondo, quando ad ognuno verrà assegnato ciò che gli spetta dall’unico vero giudice. Intesa in questo modo, la prima parte della cobla potrebbe essere ironica: l’autore direbbe di conoscere troppe persone che pensano di meritare onori che non gli competono (anche Petrossi afferma che il verbo cuidar significa «“ritenere erroneamente, presumere ingannevolmente”, e quindi comporta lo sfasamento tra ciò che si pensa e ciò che nella realtà delle cose risulta essere»). Ciò parrebbe confermato dagli ultimi tre versi, nei quali l’autore ammonisce coloro che criticano gli altri in malafede (cioè per accrescere il proprio prestigio) senza guardare i propri difetti: è presumibile che costoro siano proprio i compagnos assetati d’onori immeritati, che compaiono nei versi precedenti.

5. Il verso presenta un problema, perché è evidente che la stessa congiunzione (segon q’) non può reggere prima l’indicativo cuit, poi il congiuntivo sapza (sicuramente da leggere sacha, altrimenti sarebbe irregolare la rima con desfacza = desfacha del verso seguente). De Bartholomaeis traduce supplendo alcuni termini non presenti nel testo: «secondo quel ch’io penso e ciascuno voglio che sappia». Petrossi non si pone interrogativi e livella tutto sull’indicativo: «secondo ciò che io penso e ciascuno sa». Qui l’autore sottolinea che la sua opinione (ieu cuit) coincide con ciò che sanno tutti (chascuns sapza): solo alla fine dei tempi si potranno valutare i veri meriti. Pertanto introduco, al posto della coordinazione, un qe subordinante da cui dipende il congiuntivo. In alternativa, si potrebbe trasformare cuit in cuid’ (cioè cuide) al congiuntivo, ma questa soluzione è meno soddisfacente perché la congiunzione segon qe regge di norma l’indicativo.

7-8. De Bartholomaeis elimina de si nella propria traduzione: «deve conoscere ciò che altri può rimproverare a lui». Petrossi traduce con una resa poco efficace in italiano: «di sé deve essere consapevole di ciò che gli si può rimproverare». Il v. 8 amplifica il complemento de si del verso precedente, con un collegamento per asindeto molto frequente in funzione esplicativa. Quelli che biasimano in malafede gli altri, ma non usano lo stesso criterio con se stessi e non fanno un serio esame di coscienza sono probabilmente gli stessi che vorrebbero ricevere grandi onori in vita, dei quali si parla all’inizio della cobla: si veda la nota al v. 4.

Testo

Edizione, traduzione e note: Giorgio Barachini. – Rialto 28.ix.2018.

Mss.

P 63v (adespoto).

Edizioni critiche / Altre edizioni

Edizioni critiche: Vincenzo De Bartholomaeis, Poesie provenzali storiche relative all’Italia, 2 voll., Roma 1931, vol. II, p. 302 (insieme a Ges al meu grat non sui ioglar, BdT 461.126 e Va, cobla, al Iuge de Galur, BdT 461.246); Antonio Petrossi, Le “coblas esparsas” occitane anonime. Studio ed edizione dei testi, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, 2009, p. 241; Giuseppe Noto, «Anonimo, Ges al meu grat non sui joglar (BdT 461.126) con Anonimi, Per zo no·m voil desconortar (BdT 461.193), Va, cobla: al Juge de Galur (BdT 461.246), Seigner Juge, ben aug dir a la gen (BdT 461.217), Ges per li diz non er bons prez sabuz (BdT 461.133)», Lecturae tropatorum, 5, 2012, pp. 1-23, a p. 14.

Nota filologica

La cobla è trascritta unita a Va, cobla, al Iuge de Galur (BdT 461.246).

Metrica e musica

Metrica: a8 b8 b8 a8 c8 c8 d8 d8 a8 (Frank 578:9). Cobla di otto versi. Rime: -ar, -ós (-órs), -acza (= -acha), -enz. Lo schema metrico è presente in altri tre componimenti: la cobla di Uc de Saint Circ Vescoms, mais d’un mes ai estat (BdT 457.44) a cui risponde quella di un Vescomte N’Ugo, ja no m’en sabretz grat (privo di BdT), il partimen di Elias e Gui d’Ussel En Gui, digaz al vostre grat (BdT 136.1a = BdT 194.4) e il partimen tra Alberjat e Gaudi, Gaudi, de donzella m’agrat (BdT 12b.1 = BdT 170.1). Tutti questi testi presentano le stesse rime (-at, -on, -ana, -ens), parzialmente coincidenti (-ens) o comunque confrontabili (-at > -ar, -on > -ós, -ana > -acha) con quelle dell’anonimo. Il componimento più antico è quello di Elias e Gui d’Ussel.

Informazioni generali

La cobla non presenta elementi di datazione. Essa è, tuttavia, seguita nel ms. dai quattro versi di Va, cobla, al Iuge de Galur (BdT 461.246), che funge da tornada, benché non abbia le caratteristiche formali per essere tale. Ciò suggerisce, in ogni caso, di riportare i due testi al medesimo ambiente, che è quello gravitante attorno al Giudice di Gallura, Nino Visconti, tra il 1275 e il 1296: cfr. Circostanze storiche. La strofa presenta alcune imperfezioni, tra le quali almeno una sembra un palese italianismo (li al v. 4).

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