Allen 1908 Angeloni 1908-1911 Anglés 1962 Asperti 2006 Bannister 1913 Baroffio, Doda, Tibaldi 1998 Bec 1973, 1977-1978 Beck 1909, 1911 Becker, Suchier, Birch-Hirschfeld 1913 Becker 1929, 1929 Becker 1967 Bertoni 1921 Bignami Odier 1966 Bischoff 1965, 1984 Camilli 1913, 1954 Casamassima 1979 Chiarini 1974 De Bartholomaeis 1926 Dejeanne 1907 Delbouille 1972 Foerster 1932 Frank, Hartmann 1997 Frank 1994 Gorra 1901, 1912 Grémont, Hourlier 1979 Hilty 1981a, 1981b, 1995, 1996, 1998, 2000, 2001 Jeanroy 1889, 1934 Laistner 1881 Lazzerini 1979, 1985, 1986, 1996, 1999, 2001, 2004 Marchot 1900, 1922 Meneghetti 1997, 1998 Mölk 1969, 1998 Monaci 1883, 1892, 1910 Monari 2005 Monteverdi 1952 Novati 1908-1911 Ortiz 1943-1944a, 1943-44b Paden 2005 Parkes 1991 Pellegrin 1980, 1984-85 Picchio Simonelli 1984 Pighi 1970 Pothier 1892 Rajna 1887 Restori 1891, 1892, 1913 Riché 1998 Roncaglia 1948, 1950, 1951 Ruby 1988 Ruggieri 1949 Schläger 1895 Schmidt 1881 Scudieri Ruggieri 1943 Spence 1981 Stengel 1885 Storost 1930 Szövérffy 1964-65 Tagliavini 1969 Terni 1979 Vecchi 1952, 1954 Zumthor 1954, 1963, 1984, 1985
1881
Johannes Schmidt, «Die älteste Alba», Zeitschrift für deutsche Philologie, 12, 1881, pp. 333-341.
A Schmidt si deve la scoperta dell’Alba.
L’A. osserva che la notazione usa sostanzialmente un unico segno neumatico, la virga [si tratta di neumi cosiddetti «semplici»; l’indicazione dello schema melodico è approssimativa, non essendo precisabili le differenti altezze dei suoni prima dell’invenzione della diastemazia: quindi tale notazione neumatica, pur segnando un progresso rispetto a quella alfabetica, serve solo di aiuto mnemonico per melodie già conosciute dall’esecutore]. Le occorrenze del neuma iacens [più precisamente virga iacens, che indica il suono più grave ed è rappresentata da un trattino orizzontale, distinto dal tratto verticale della virga] sull’ultima sillaba del primo e del secondo [rectius: terzo] verso della prima strofa non concordano con la notazione delle restanti strofe. Ci aspetteremmo infatti anche qui la virga, dato che tutti i versi latini hanno la stessa melodia, a differenza del ritornello che ha una melodia diversa da quella dei versi latini, e diversa anche per ognuno dei due (presunti) versi [in realtà un identico neuma appare su to di orto; su i di terris; sulla a finale dei due clamat; su in di insidie; su tur di disgregatur; su a finale di astra; sulla prima e di septemtrio; nel refrain, sulla prima a di Lalba (3 volte), su ra di miraclar (2 volte)]. Schmidt osserva che sul poy del ritornello cadono due note, che queste coprono una intera battuta e che pertanto poy è ritmicamente equiparabile a mira; cita quindi il caso di un ritmo di Beda, dove sul rex di Rex aeterne dominus - Rerum creator omnium manca la nota discendente [questo non accade però in poy, giacché sulla y è ben visibile la virga posta più in basso] e tuttavia rex corrisponde ritmicamente a rerum; di conseguenza poy non può essere scisso in due sillabe per il semplice fatto di occupare lo spazio ritmico di due sillabe.
Schmidt offre la seguente interpretazione: «Der Morgenschimmer zieht jenseits des feuchten Meeres die Sonne heran. Den Hügel überschreitet sie schielend. Siehe erhelt das Dunkel!»: assimila dunque par della prima strofa a part, inteso come preposizione («jenseits», ‘al di là’); interpreta umet come aggettivo («feucht», ‘umido’) e atra come terza persona di atraire con oggetto sol («zieht [...] die Sonne heran»: ‘attrae’); intende poy come sostantivo («Hügel», ‘poggio’) e scompone pas’a bigil [di cui sol sarebbe il soggetto] con pas terza persona di pasar [congiuntivo] e a bigil locuzione avverbiale («schielend»: ‘obliquamente’), supponendo bigil da un obliculus indicato anche [erroneamente] quale ascendente del francese bigle. Infine, divide mira clar e vede in mira l’imperativo di mirar («siehe!», ‘guarda!’); sembra intendere [con dubbia grammatica] clar come verbo con sol di nuovo soggetto e tenebras per oggetto («erhellt das Dunkel»: «[guarda], illumina le tenebre»). Propone inoltre di mutare in clamans il clamat del terzo verso della seconda strofa [emendamento plausibile ma non indispensabile]. Deduce la provenienza benedettina del ms. che contiene l’Alba dal fatto che una mano del sec. XIV (o XV) vergò sul foglio di guardia in fondo al codice le parole sanctus benedictus.
Ludwig Laistner, «Zur ältesten Alba», Germania, 26, 1881, pp. 415-420.
Riconosce umet come aggettivo («feucht»), integra in atra [contro la grammatica] la -s di un riflessivo in enclisi («atras = attrahit sibi?»); scompone poi i pas, lasciando inesplicata la natura di sol («auf welchem o[der] in w[elchem] o[der] dort wo» [?]), mentre i pas sarebbe da intendere «en paix oder pas a pas» (tradotto «sacht», ‘lentamente’) e poi [poy nel testo] è interpretato come verbo («sie [l’alba] sacht emporschwebt», ‘si leva’, cfr. occ. poiar ‘salire’, da cui L. sembra far discendere a forza un poia i > poi’i); trasforma abigil miraclar tenebras in ab egal n’iran las tenebras («bald [ma in tal senso sembra documentato solo per egal] wird die Nacht vergehen», ‘subito la notte scomparirà’).
1883
Ernesto Monaci, Facsimili di antichi manoscritti ad uso delle scuole di filologia neolatina, Roma 1881-1892.
Alla tav. 57 riproduzione fotografica del ms. dell’Alba.
1885
Edmund Stengel, «Der Entwicklungsgang der provenzalischen Alba», Zeitschrift für romanische Philologie, 9, 1885, pp. 407-422. a p. 407.
Riconosce nel par della prima strofa il part (paret) delle altre due, in umet un aggettivo e in atra la terza persona di atraire con soggetto sol («die Sonne zieht das feuchte Meer», ‘il sole attrae l’umido mare’); intende poy ‘poggio’, scompone pass’a bigil come Schmidt (1881), ne accetta l’etimo proposto per bigil e interpreta praticamente allo stesso modo («seitwärts überschreitet sie [il sole] den Hügel» : «inclinato da una parte oltrepassa il poggio»); intende mira come terza persona di mirar attribuendogli un significato incongruo e intende [a quanto sembra…] clar in accezione avverbiale («und [che nel testo non c’è] bescheint hell [clar] die Schatten» : «e rischiara luminoso le ombre».
1887
Pio
Rajna, «Osservazioni sull’Alba bilingue del Cod. Regina 1462», Studi di filologia romanza, 2, 1887, pp. 67-89 (ristampato in Saggi di filologia e di linguistica italiana e romanza, a cura di G. Lucchini, introduzione di C. Segre, Roma 1998). [Rec.: Paul Meyer, Romania, 15, 1887, pp. 607-608.]
Assimila par della prima strofa a part, inteso come preposizione («al di là») e riconosce umet come aggettivo («umido mare», reminiscente degli umida maria di Virgilio); considerando non corretta la lezione del codice ricompone un atras preposizione («dietro») e un ol articolo (ingegnandosi a giustificare la fonetica), intende poy come sostantivo («poggio») e lo disloca alla fine del primo verso; riconosce in bigil l’aggettivo latino vigil (richiamandosi per la b iniziale all’antica e documentata isoglossa occitanica), che riferisce ad alba (quindi «l’alba [...] passa vigile»); legge miraclar come una sola parola, infinito di un verbo (‘spiare’) non documentato in àmbito provenzale, ma ipotizzabile dall’attestato, semiculto miracle ‘torre di osservazione’.
1889
Alfred
Jeanroy, Les origines de la poésie lyrique en France au moyen-âge. Études de littérature française et comparée suivies des textes inédits, Parigi 1889; seconda ed., ivi 1904. [Rec.: Gaston Paris, Journal des Savants, 1892.] Parte I [La poésie française en France], cap. III [L’aube], a pp. 72-77.
Stampa l’intero testo (strofe e ritornello) dello Schmidt e accenna a tre possibili interpretazioni: militare, amorosa, allegorica; con propensione per il secondo, dato il possibile accostamento fra gli «hostes» e i losengiers, lo «spiculator» e la sentinella (veilleur, gaita) che avverte gli amanti [che si postulano adulteri] del pericoloso approssimarsi del mattino. Il canto della sentinella («chant du veilleur»), che prende spunto da circostanze reali nella società feudale del sud, potrebbe anche essere stato influenzato dagli «hymnes du matin» ecclesiastici (dei quali si citano vari incipit di Prudenzio e Ambrogio), pervasi di «symbolisme mystique» (Cristo = luce, notte = peccato); tuttavia in questi inni il giorno viene annunciato dal canto degli uccelli o del gallo, mentre sembra che il ritornello rappresenti il canto della sentinella e di conseguenza rinvii all’«aube amoureuse»; quindi saremmo di fronte alle prime tracce, rinvenibili «vers le XIe siècle», di una «poésie amoureuse en langue vulgaire» che il ritornello [o l’intero componimento?] dovrebbe precedere di poco [sennonché, come risulta dal cap. III e da vari altri punti del volume, l’«aube amoureuse» è nettamente posteriore rispetto alla «poésie amoureuse»].
1891
Antonio
Restori, Letteratura provenzale, Milano 1891.
Pp. 29-30: l’Alba di Fleury è «il primo apparire di qualcosa che arieggi il documento letterario»; «disgraziatamente il ritornello volgare è assai corrotto e guasto». Seguono testo e traduzione secondo Rajna 1887.
1892
Ernesto Monaci, «Sull’Alba bilingue del cod. vat Regina 1462», Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filosofiche (Roma), Serie V, vol. I, 1892, pp. 475-487, e «Ancora sull’Alba bilingue,» pp. 785-789. [Rec.: Gaston Paris, Romania, 22, 1893, p. 627; Theodor Gartner, Kritischer Jahresbericht über die Fortschritte der romanischen Philologie, 2, 1891-1894, erste Hälfte, p. 116.]
Assimila il par della prima strofa a part, inteso come preposizione, riconosce umet come aggettivo («dalla parte dell’umido mare») e atra come terza persona di atraire con oggetto sol («attrae il sole»); scompone po y, con po avverbio, da post, e y pronome, da ille/illi («poi che esso [il sole] passa»); pensa che bigil sia il nome di una montagna («Vigil» [?]) richiamandosi a un oronimo presso Merano; scompone mira clar: con mira interiezione («ecco») e clar sostantivo («chiarore») [a prezzo di abolire la sintassi].
Dom Pothier, comunicazione epistolare ad Antonio Restori (Restori 1892, p. 2).
Secondo Vecchi 1952, p. 113, Pothier «preferiva conferire alla notazione dell’alba un’origine francese».
Antonio
Restori, La notazione musicale dell’antichissima Alba bilingue del ms. Vat. Reg. 1462, Parma 1892 (Per nozze Salvioni-Taveggia). Rist. in Antonio Restori, «Per la storia musicale dei trovatori provenzali», Rivista musicale italiana (Torino, Bocca), 2, 1895, p. 20 sgg., e 3, 1896, p. 439.
«Ogni verso latino ha la stessa frase melodica [...] un vero lapsus dello scrittore è il punctum [che Schmidt vede invece come (virga) iacens] sulle sillabe re (iubare), te (surgite)»; diversamente da quello che afferma lo Schmidt «anche i ritornelli hanno la stessa frase melodica»; una esatta trascrizione musicale moderna è impossibile, e lo conferma il «vecchio musico Ubaldo, di poco anteriore all’Alba che esaminiamo, il quale asserisce che la imperfetta notazione neumatica può richiamare alla memoria una melodia conosciuta, ma non suggerita a chi non l’abbia mai saputa e non la possa sentir cantare da un maestro».
1895
Georg
Schläger, Studien über das Tagelied. Ein Beitrag zur Literaturgeschichte des Mittelalters, Diss. Jena 1895.
P. 78: le strofe dell’Alba si rivelano come un mosaico di topoi dell’innodia e dunque il testo può considerarsi come un Morgenhymnus, un ‘inno mattutino’ (p. 78). Si veda anche a p. 71, nota 1.
1900
«La plus ancienne Aube», Studi di filologia romanza, 8, 1900, pp. 391-392. [Rec.: Joseph Anglade, Kritischer Jahresbericht, 6, 1899-1901, parte II, p. 250.]
Riconosce nel par della prima strofa il part (paret) delle due successive, in umet un aggettivo e in atra la terza persona di atraire ma con soggetto sol («le soleil aspire l’humide mer»), scompone po y, con po avverbio, da post, e y pronome, da ille/illi, pensa, sulle orme del Monaci (1892), che bigil sia il nome di una montagna («puis il passe le Vigil») e come il Monaci scompone mira clar con mira interiezione e clar sostantivo ma entro una [tentata] normalizzazione sintattica («voilà les ténèbres (devenues) clarté»).
1901
Egidio Gorra, «L’Alba bilingue del codice vaticano Regina 1462», in Miscellanea linguistica in onore di Graziadio Isaia Ascoli, Torino 1901, pp. 489-521. [Rec.: Gaston Paris, Romania, 30, 1901, p. 576; Joseph Anglade, Kritischer Jahresbericht, 6, 1899-1901, parte II, p. 250.]
Riconosce nel par della prima strofa il part (paret) delle altre due, e a favore dell’interpretazione part ‘oltre’ [o meglio, dell’intero sintagma part…mar] adduce un esempio da Bertran de Born [dove peraltro figura un articolo assente nel refrain]: «tro lai part la mar salada». Stampa tuttavia par e trasforma umet [e, sembra, anche la t di part] in lung el: «L’alba appare - lungo il mare»); ricompone atra sol in atras [preposizione] el [articolo] e intende poy come sostantivo («dietro il poggio»); spostando la a iniziale di abigil, che diviene finale di pas, interpreta pasa come terza persona di pasar e ‘restaura’ il decapitato bigil [inteso come sostantivo] inserendo un articolo (’l) in luogo della dislocata a ed eliminando il betacismo (pasa’l vigil, ‘passa la scolta’); interpreta mira come imperativo di mirar e clar come predicato di tenebras, che provvede del congetturale articolo las («mira: chiare sono le tenebre»).
1907
Jean-Marie-Lucien Dejeanne, «Sur l’Aube bilingue du ms. vatican Reg. 1462», in Mélanges Chabaneau, Erlangen 1907 («Romanische Forschungen», 23), pp. 77-80.
Riconosce nel par della prima strofa il part («paret») delle altre due, ma ritenendolo [si presume] semplice variante di forma ne sposta la t al contiguo umet che, ponendo a soggetto sol, trasforma in tumet richiamandosi al provenzale moderno tumar «donner de la tête», né lascia intatto atra che trasforma in e terra («le soleil frappe (de ses rayons) la mer et la terre»); intende poy come avverbio [si presume da post] e riconosce in bigil il sostantivo latino vigil ‘sentinella’ («puis passe la gaite»); scompone miraclar trasformando mira in viran e intendendo clar come sostantivo («les ténèbres se changent en clarté»).
1908
Philip Schuyler Allen, «Mediaeval Latin Lyrics», Modern Philology, January 1908, I parte, pp. 423-476.
Menzione dell’Alba bilingue alle pp. 469-70; a p. 470 la n. 1 asserisce che «The Provençal refrain is: “L’alba part umet mar atras; / Sol po i pas, / Ab egal n’irant las tenebras” or, as Jeanroy suggests, “L’alba part umet mar atra sol / Poy pas abigil miraclar tenebras”: si noti lo sconcertante qui pro quo per cui l’A. attribuisce a Jeanroy il ‘suggerimento’ (mentre si tratta dell’esatta lezione del ms.) e alla ricostruzione di Laistner 1881 lo status di Provençal refrain (mentre si tratta solo di un’arbitraria – e oltretutto infelice – congettura). È citata inoltre la tesi di Monaci 1892 che attribuisce ai versi ‘volgari’ origine ladina (sarebbero stati composti in «Upper Tyrol»). Traduzione inglese del refrain: «Day is approaching across the moist sea; / As it is lifted higher and draws near, / Straightway the shadows flee».
Jean-Baptiste Beck, Die Melodien der Troubadours, nach dem gesamten handschriftlichen Material, zum erstenmal bearbeitet und herausgegeben, nebst einer Untersuchung über die Entwickelung der Notenschrift bis um 1250 und das rhythmisch-metrische Prinzip der mittelalterlich-lyrischen Dichtungen, sowie mit Übertragung in moderne Noten der Melodien der Troubadours und Trouvères, Strassburg 1908 [rec.: Barbara Smythe, Modern Language Review, 4, 1909, pp. 540-542]; ed. francese La musique des Troubadours, Paris 1910.
Osservazioni sulla melodia dell’Alba (nell’ed. francese, pp. 96 sgg.).
1910
Ernesto Monaci, Facsimili di documenti per la storia delle lingue e delle letterature romanze, Roma 1910.
Alla tav. 11 riproduzione del ms. dell’Alba.
1911
Italo Mario Angeloni, «Per una interpretazione latina dell’Alba bilingue», Studi medievali, 3, 1908-1911, pp. 127-131.
Riconosce nel par della prima strofa il part (paret) delle altre due, ma ritenendolo [si presume] semplice variante di forma ne sposta la t al contiguo umet che, ponendo a oggetto mar, identifica con tumet terza persona del latino tumere; scorge in atra l’aggettivo latino («L’alba appare, gonfia il nero mare»); scompone po y con po, da post, e y, da hic, avverbi entrambi temporali, e identifica [stavolta del tutto arbitrariamente] pas con il latino passim; abigil, corretto in abigit, sarebbe terza persona sing. del presente indicativo del latino abigo, mentre miraclar rappresenterebbe l’esito [si presume] di un inattestato aggettivo latino miraclarus, che però nella traduzione è tanquillamente ignorato («il sole poi, in quella [= nel frattempo], disordinatamente qua e là caccia le tenebre»).
Vedi anche: Novati 1908-1911.
Jean-Baptiste Beck, comunicazione scritta del 4/3/1911 a Foerster-Koschwitz (vedi F.-K., p. 268).
Sulla struttura ritmica del refrain:
«Es muss gelesen werden:
L’álba pár | úmet már | átrasól | (3 x 3)
Pó y pás | ábigíl | míraclár | ténebrás (4 x 3),
Po y zweisilbig».
Francesco Novati, nota a Italo Maria Angeloni, Studi medievali, 3, 1908-1911, p. 131, nota 2.
Dice di avere «da lunghi anni sempre sostenuto che abigil dovesse leggersi abigit, da collegare con sol» e di esser convinto che «atras sia null’altro che la forma accusativa plurale femminile dell’aggettivo ater, la quale deve andare congiunta a tenebras. Ne esce fuori, in mezzo al caotico cozzo di parole ancora inesplicabili, come poypas, miraclar, una frase limpida e indubbiamente legittima: sol abigit atras tenebras».
Vedi anche: Angeloni 1908-1911.
1912
Egidio Gorra, «Ancora del ritornello dell’Alba bilingue», in Scritti varii di erudizione e di critica in onore di Rodolfo Renier, Torino 1912, pp. 167-174.
La differenza rispetto al primo intervento (Gorra 1901) sta nell’assimilare al poypas della prima strofa i poy pas delle altre due [per quel che possono valere le separazioni grafiche], ravvisandovi una voce registrata in Du Cange (nella forma poypia) che designa una «[sorta di] torre edificata su una collinetta artificiale» [in realtà la primitiva funzione delle poypes, secondo gli archeologi, pare sia stata quella di ‘tumuli funerari’]; quindi l’alba «appare» non più «dietro il poggio» ma dietro le poypas o torri.
1913
Henry Marriott Bannister, Monumenti Vaticani di Paleografia Musicale Latina, I e II, Leipzig 1913.
I, p. 89, n. 256 (facsimile). Sul problema musicale dell’Alba. II, tav. 50-51 (riprodotta in Ruggieri 1949, I, tav. 4).
Philipp August Becker, Hermann Suchier, Adolf Birch-Hirschfeld, Geschichte der Französischen Literatur, Zweite, neubearbeitete und vermehrte Auflage, vol. I, Leipzig-Wien 1913, alle pp. 12-13 (a p. 13 facsimile del testo dell’Alba).
Già dal titolo del capitolo, Die Anfänge der Volkspoesie, traspare una persistente ideologia romantica: infatti l’Alba di Fleury è «die geistliche Nachahmung eines Volksliedes», dove però non ancora appare il motivo amoroso ma quello, primitivo, del guardiano notturno, nella cui bocca sarebbero posti i versi del ritornello. Il guardiano qui sarebbe Cristo, mentre i nemici rappresenterebbero i pensieri peccaminosi; il ritornello consterebbe di tre versi, senza rima e con andamento trocaico, uno di nove sillabe (terminante con sol) e due, femminili, di sei sillabe. La traduzione sembra ricalcare quella di Schmidt 1881. A p. 13 è inserita una riproduzione fototipica di parte della pagina del codice.
Amerindo Camilli, «L’Alba del codice vaticano reginense 1462», Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, N.S. 31 [131], 1913, pp. 412-423.
Da una lettera del Restori a lui inviata (marzo 1913) riporta, fra le altre, l’affermazione: «qualunque interpretazione [come quella dello Schmidt] che faccia poy di una sillaba è per ciò stesso [perché «sono 21 note per sé stanti» e la «cadenza ... ricorda quasi all’identità parecchie cadenze finali di inni e sequenze»?] assolutamente falsa». Mettendo in pratica la tesi di Dejeanne (1907) [e di Angeloni 1908-1911] considera il ritornello «trasformazione di un originale latino», ma postula per il ritornello «una origine differente da quella dei versi latini», anche se pur sempre un’origine latina, musica compresa: solo che, vagando di bocca in bocca, il refrain si sarebbe adattato «per ravvicinamento meccanico dei suoni», e conseguente obliterazione del vocalismo atono, ad una qualche parlata romanza [ladina?]; così si risponde alle obbiezioni del Gorra [1901 e 1912] (il popolo che ascolta voci latine, pur deformandole nel ripeterle, non arriva a sostituirle e a tradurle nel proprio dialetto) e a una obiezione che l’A. pone a se stesso («non ostante ogni barbara deformazione ... il numero delle sillabe non diminuisce»). Tuttavia la ricostruzione puramente latina del ritornello che viene offerta non fa che allinearsi, sul piano interpretativo, a quanto già proposto da altri (paret, tumet, attrahit, post hic passim, abigit, mire clarus).
Antonio Restori, lettera inviata a Amerindo Camilli (datata 31 marzo 1913) e da questi pubblicata nella parte essenziale in Camilli 1913, pp. 417-418.
A proposito della melodia del ritornello dell’Alba.
1921
Giulio Bertoni, «Il “ritmo delle scolte modenesi” e le così dette “albe”», in Studi su vecchie e nuove poesie e prose d’amore e di romanzi, Modena 1921, pp. 1-32, alle pp. 13-15.
Accosta il ritmo delle scolte modenesi al testo «così prezioso» dell’Alba del codice Reginense, di cui riporta le prime due strofe e quel ritornello «che ha affaticato e affaticherà ancora per un pezzo i romanisti» [facile profezia!], pur avvertendo che «vi ha una differenza notevole tra il nostro carme e l’alba vaticana: l’uno si riferisce alla veglia notturna, l’altra unicamente al sorgere del giorno» (p. 14, nota 2). Ma l’accostamento è, secondo l’A., legittimato dalla presenza delle scolte in entrambi i componimenti. Quanto alla lingua del refrain, «sarà molto verosimilmente provenzale». A differenza degli attardati ‘romantici’, Bertoni non pensa neppure per un attimo a un Volkslied: «Anche questo componimento, come il nostro, non può essere popolare: troppe sono le immagini classiche, troppa è la pulitezza della frase e l’eleganza dello stile, perché non si debba attribuirlo alla penna di un dotto conoscitore della poesia latina. Dalla constatazione che l’alba ha rapporti strettissimi con i canti di Chiesa del mattino (nonché, per altro verso, con i ritmi delle scolte) l’A. fa inoltre discendere una logica conseguenza: che non si può considerarla un genere lettario autonomo.
1922
Paul Marchot, «L’aube bilingue», Romania, 48, 1922, pp. 34-38.
Interpreta: «L’aube paraît: le soleil aspire l’humide mer (de brouillards); puis il passe le Vigil: voilà les ténèbres (devenues) clarté».
1926
Vincenzo De Bartholomaeis, Rime giullaresche e popolari d’Italia, Bologna s.d. [ma 1926], alle pp. vi, 3 e 75.
Divide in «l’alb’apar» in tutte e tre le strofe, accetta «[t]umet», scompone atra in «at ra’» («si gonfia il mare a’ raggi del sole», scompone po y, con po da post e y da ego o da hic [dalla traduzione non risulta chiaro], scompone pas a con pas prima persona di pasar e a interiezione, accetta bigil come vigil, mira come interiezione e clar predicativo di tenebras («poiché (ora che) io (scolta) vi passo (nel cammino di ronda, forse), deh, svegli! ecco chiare le tenebre»).
1929
Philipp August Becker, «Das geistliche Morgenlied von Fleury-sur-Loire», in Behrens-Festschrift: Dietrich Behrens zum Siebzigsten Geburtstag dargebracht von Schulern und Freunden, Jena 1929 (Zeitschrift für französische Sprache und Literatur, 13, Supplement), pp. 205-217. Riproduzione in facsimile, Amsterdam 1968.
Le prime pagine sono dedicate a un riepilogo della storia dell’abbazia di Saint-Benoît-sur-Loire, dei suoi abati e dei relativi prodotti letterari, dalla fondazione alla metà del secolo XI. L’A. sottolinea l’indiscutibile pertinenza tematica dell’Alba, definita con sicurezza «geistliches Morgenlied», a un particolare genere di innodia cristiana i cui modelli sono agevolmente rintracciabili in Ambrogio e Prudenzio, con l’eventuale innovativa sostituzione dello spiculator, se traducibile con «Turmwächter», alla tradizionale immagine del gallo (ma sempre di praeco si parla); sennonché l’ultima strofa, nella sua enumerazione di fenomeni metereologici e astronomici [e sta proprio nell’individuazione in quei versi del cielo equinoziale di primavera il punto più interessante del saggio: si veda, per una più ampia disamina, Meneghetti 1998], suona inappropriata a una conclusione cui invece più organicamente si adatterebbe il ritornello [a motivo di «ein anschauliches Bild von Sonnenaufgang bei steigender Meeresflut»?]. Pensa, come Camilli, che il ritornello consista in un frammento estratto da un componimento poetico latino più antico di analogo argomento (lo spuntar del giorno), ma che tale frammento, storpiato da un illetterato non tanto per cattiva memoria quanto per frequente reiterata recitazione e così divenuto mero balbettio («Lallrede»), abbia attratto l’attenzione di un monaco incline allo scherzo che se ne sarebbe impadronito per inserirlo in veste di refrain nell’inno mattutino da lui stesso composto (forse proprio in vista di questo inserimento). Tuttavia la ricostruzione latina proposta dall’A., in tetrametri trocaici catalettici, non fa che allinearsi, sul piano interpretativo – intrusione di un assurgens («sol assurgens») a parte –, a quanto già proposto da Camilli e da altri (paret, tumet, attrahit, post hic passim, abigit, mire clarus).
Philipp August Becker, «Vom geistlichen Tagelied», in Volkstum und Kultur der Romanen, Herausgegeben von Seminar für Romanische Sprache und Kultur an der Hansischen Universität, Hamburg, Band II, 1929, pp. 293-302.
1930
Wolfgang Storost, Geschichte der altfranzösischen und altprovenzalischen Romanzenstrophe, Halle 1930, alle pp. 65-67.
Avvicina per ragioni ritmiche (tristico con la stessa rima seguito da ritornello) l’Alba di Fleury al vers di Guglielmo IX Pos de chantar m’es pres talenz (BdT 183.10).
1932
Wendelin Foerster, «Das älteste zweisprachige Tagelied», in Wendelin Foerster und Eduard Koschwitz, Altfranzösisches Übungsbuch (die ältesten Sprachdenkmäler mit einem Anhang), siebente, unveränderte Auflage besorgt von Alfons Hilka, Leipzig 1932, alle coll. 265-270.
Riconosce nel par della prima strofa il part («paret») delle altre due, in umet un aggettivo («nass», ‘umido’) e in atra la terza persona di atraire con soggetto sol («das nasse Meer zieht die Sonne herauf»); corregge poy in pos y, con pos da post e y da hic, inteso forse come avverbio di luogo [perché nella traduzione non compare]; riconosce in bigil il vigil latino sostantivo («dann macht ein Wächter [sentinella] seine runde»), che pone a soggetto di mira inteso come terza persona di mirar; corregge clar in annar («er sieht die Finsternis davonziehen»).
1934
Alfred Jeanroy, «La poésie lyrique des troubadours», Eos, 2, 1934, pp. 292-297 e 339-341.
Elenco di di Tagelieder francesi e occitanici.
1943
Jole M. Scudieri Ruggieri, «Per le origini dell’alba», Cultura neolatina, 3, 1943, pp. 191-202.
L’A. non concorda con la tesi di Jeanroy [1904 e soprattutto 1934] di una genesi della tardiva alba religiosa provenzale da un adattamento dell’alba profana amorosa, a sua volta ispirata al modello del canto mattutino della sentinella (gaita), anzi ne assevera il capovolgimento: è sull’alba religiosa, di chiara origine liturgica, che «si sono venuti innestando più tardi, e per un facile suggerimento letterario e ambientale, il motivo d’amore e quello della gaita». Jeanroy pone l’Alba bilingue a capostipite delle albe profane, nonostante che già il Laistner [1881] ne avesse riconosciuto l’appartenenza religiosa (ricordando Ambrogio e Prudenzio), osservando che [nel ritornello] di una sentinella che avverte gli amanti non si riesce a trovare «neanche una sillaba». Per il resto l’A. si sofferma sulle albe provenzali fra XII e XIII secolo e sottolinea l’inesattezza, cronologica e contenutistica (ad esempio rimarcando il «ben scandito inizio liturgico della pur profana alba di Giraut de Bornelh»), di quanto sostenuto al riguardo da Jeanroy [1934]. Nella parte finale dell’articolo l’A. richiama l’attenzione su alcune preghiere del mattino della liturgia mozarabica risalente all’epoca visigotica, tratta dal breviarium gothicum, che potrebbero indicare la Spagna e le finitime province occitaniche, già visigotiche, come terra d’elezione e d’irradiazione per il genere letterario dell’alba (è chiaro che l’osservazione riguarda da vicino, sia pure implicitamente, i problemi di localizzazione dell’Alba bilingue).
1944
Ramiro Ortiz, «L’alba provenzale», Atti dell’Accademia d’Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, serie V, 22, 1943-44, pp. 97-137.
Ramiro Ortiz, «Sulle origini ecclesiastiche dell’alba provenzale», Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti, 103, Parte II: Classe di Scienze morali e lett., 1943-44, pp. 133-141.
Il ritornello dell’Alba di Fleury e la prima strofa della medesima sono citati (rispettivamente alle pp. 135 e 136; il ritornello secondo il testo dato da Marchot 1900) insieme a versi di albe provenzali (Giraut de Bornelh, Folchetto di Marsiglia) per accostarli a certi aspetti della liturgia del mattino nel Breviario romano dove frasi dell’Invitatorium sono ripetutamente inframezzate alla recitazione di un salmo [prefigurando il ritornello dell’Alba?] o dove i versetti lunghi del capitulum precedono la recitazione dei versi brevi di un inno mattutino ricordando la «disposizione strofica dell’‘alba’» [ma per quella di Fleury l’accostamento è molto opinabile perché Ortiz, seguendo Marchot, ne spezzetta il ritornello in quattro ‘versi’]; dal genere dell’inno ad matutinum l’alba neolatina avrebbe poi maturato le note presenze della stella del mattino, del gallo o volatile equipollente, della clara vox della guardia che dà la sveglia.
1948
Aurelio Roncaglia, «Il Canto delle scolte modenesi», Cultura neolatina, 8, 1948, pp. 5-46 (I) e 205-222 (II).
Alle pp. 29-30, l’A., come prima di lui Rajna 1897 e Bertoni 1921, avvicina il «carme del manoscritto capitolare modenese alla famosa ‘alba bilingue’ del codice Vaticano Regina 1462», considerando l’uno e l’altra «come anelli di quella catena [...] che va dagli inni mattutini di Prudenzio e di Ambrogio sino alle ‘albe’ trobadoriche, dove pure spesso l’annuncio dell’alba è dato da una sentinella vegliante».
1949
Ruggiero M. Ruggieri, Testi antichi romanzi, Modena 1949.
I, tav. 4: riproduce la tav. 50-51 del vol. II di Bannister 1913 (riproduzione del ms. dell’Alba).
1950
Aurelio Roncaglia, Il Muratori e la «tesi araba» sulle origini della ritmica romanza, in Miscellanea di Studi Muratoriani, Modena 1950, a p. 300.
Propone una parentela fra il bilinguismo dell’Alba e quello delle muwashshahas (arabo/ebraico e dialetto mozarabico).
1951
Aurelio Roncaglia, «Di una tradizione lirica pretrovatoresca in lingua volgare», Cultura neolatina, 11, 1951, pp. 213-249.
Cfr. sopra. Le osservazioni sull’Alba alle pp. 241-242.
1952
Angelo Monteverdi, Manuale di avviamento agli studi romanzi. I. Le lingue romanze, Milano 1952.
A p. 124. Qualifica il ritornello come «oscurissimo» a dispetto degli «innumerevoli» [già allora] tentativi di interpretazione, tra i quali tuttavia opta, dubitativamente, per quello di Becker 1929: potrebbe trattarsi di una parodistica storpiatura del latino quale appare nella bocca «dei servi di un monastero» o del «vigile che annuncia il venire dell’alba».
Giuseppe Vecchi, «Osservazioni ritmico-meliche sull’Alba bilingue del Cod. Vaticano Regina 1462», Studi medievali, N.S. 18, 1952, pp. 111-120.
Si ritengono scarsamente affidabili le osservazioni paleografico-musicali di Bannister 1913 perché «il musicologo è partito dallo studio del filologo romanzo [Monaci 1892]» che mirava alla identificazione più dello scriptorium (ritenuto ladino) che della forma dei neumi; in realtà questa forma trova riscontri in manoscritti provenienti dallo scriptorium di Fleury-sur-Loire e lo stesso volume del Bannister ce ne offre «una esauriente copia di esempi». Dopo un excursus su «un più vasto piano culturale e storico» dove dà breve conto di studi sul genere alba che ne dimostrano le origini liturgiche e di altri saggi, più strettamente rapportabili all’Alba bilingue, sulle poesie farcite in ambito mediolatino e sulle khargias mozarabiche in ambito ispanico, l’A. torna alla questione della melodia, che è «semplice, sillabica, cioè con rispondenza di ciascun suono ad una singola sillaba, secondo i canoni della sequenza». Fornisce anche una trascrizione-interpretazione moderna che diverge da quella di Restori 1892 «nella interpretazione ritmica. Il Restori, infatti, applica all’alba un ritmo misurato, prettamente moderno (3/8), che non trova alcuna giustificazione paleografica nella forma dei neumi e neppure si può sostenere storicamente», invece «storicamente» il ritmo musicale si adegua al ritmo verbale («ritmica isosillabica»): suddivisioni binarie ad andamento trocaico nei versi latini, suddivisioni binarie nel «ritornello volgare», che sarebbe [ma non è chiaro su quali fondamenti] schematizzabile in tre versi (3+3 b/c/b) cui si aggiungerebbe una coda (3c).
1954
Amerindo Camilli, «L’Alba del codice vaticano Reginense 1462», Studi di filologia italiana, 12, 1954, pp. 335-344.
Versione riveduta e corretta di Camilli 1913.
Giuseppe Vecchi (a cura di), La poesia latina medievale, seconda ed. riveduta e ampliata, Parma 1958 (prima ed. 1954). Testo a p. 146, traduzione a p. 147 (adotta l’interpretazione De Bartholomaeis); trascrizione musicale moderna nella tavola X, nota a p. 472.
La tesi ladina (Monaci) potrebbe essere rafforzata sul piano musicale se non fosse altrettanto fragile l’assegnazione proposta da Bannister 1913, in base al tipo di notazione, a uno scriptorium dell’Italia settentrionale. Accenna alla possibilità di «una genesi dell’Alba bilingue in un ambiente di rapporti franco-mozarabici, e a una parentela formale con le muwashshahas bilingui con khargias in dialetto mozarabico», riprendendo «gli studi del Roncaglia» (senza indicazione bibliografica).
Paul Zumthor, «Au berceau du lyrisme européen», Cahiers du Sud, 41, 1954, pp. 3-29, alle pp. 23-24.
1962
Higinio Anglés, «El tesoro musical de la Biblioteca Vaticana», in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. Card. Albareda a Bibliotheca Apostolica edita, I («Studi e Testi», 219), Città del Vaticano 1962, pp. 23-53, a p. 39.
1963
Paul Zumthor, Langue et techniques poétiques à l’époque romane (XI
e-XIIIe siècles), Parigi 1963. Traduzione italiana di Maurizio Maddalena, a cura di Andrea Fassò, con un’introduzione di Cesare Segre: Lingua e tecniche poetiche nell’età romanica, Bologna 1973, Ai capp. I e II passim, in particolare pp. 85-87 (96-97 della traduzione italiana).
Sottolinea l’adattamento reciproco, anche verbale, fra i versi latini e i versi volgari dell’Alba, secondo una già sperimentata (canzoni mariane) «tecnica della glossa»; dove la «glossa», latina o volgare che sia, non è una giunta ma una parte integrante del testo bilingue. Tale linea interpretativa era già stata anticipata in Zumthor 1954.
1964
Carlo Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, quarta ed., Bologna 1964; quinta ed., ivi 1969.
Ed. 1964, pp. 429-430, nota 63: «siamo ancora ben lontani da un’interpretazione soddisfacente di un testo certamente molto corrotto su cui non si può fare serio affidamento».
Ed. 1969, p. 495: avverte che il testo è corrotto e che «non si è neppure certi se il volgare che rappresenta sia o no il Provenzale»; riporta le interpretazioni di Rajna, Gorra, De Bartholomaeis, Becker, Camilli e Vecchi.
1965
Bernhard Bischoff, «Panorama der Handschriftenüberlieferung aus der Zeit Karls des Grossen», in Karl der Grosse, 3 voll., Düsseldorf 1965. Vol. II: Das geistige Leben, a p. 250, n. 129.
Confutazione dell’ipotesi di un’origine friulana del ms. Reginense dell’Alba avanzata da O. Dobiaš-Roždestvenskaja.
Joseph Szövérffy, Die Annalen der lateinischen Hymnendichtung, 2 voll., Berlino 1964-65, vol. I, p. 361.
L’Alba è riconosciuta come Morgenlied.
1966
Jeanne Bignami Odier, Les manuscrits de la Reine Christine au Vatican, in Queen Christina of Sweden. Documents and Studies («Analecta Reginensia», 1), Stokholm 1966, pp. 33-43, alle pp. 40 e 43.
1967
Philipp August Becker, «Vom Morgenhymnus zum Tagelied. I. Das geistliche Morgenlied. II. Die Alba von Fleury-sur-Loire», in Id., Zur romanischen Literaturgeschichte. Ausgewählte Studien und Aufsätze, München 1967, pp. 148-173, alle pp. 149-164.
Scorge nell’Alba un inno mattutino (per una discussione delle tesi di Becker si veda Meneghetti 1997).
1969
Ulrich Mölk, «A propos de la provenance du Codex Vaticanus Reginensis Latinus 1462, contenant l’aube bilingue du X
e ou XIe siècle», in Mélanges offerts à Mme Rita Lejeune, 2 voll., Gembloux 1969, vol. I, pp. 37-43.
Dopo aver ricordato che Schmidt 1881 non ha mai affermato la provenienza del codice dal monastero di Fleury, come erroneamente gli viene attribuito da Meyer 1887, suddivide in cinque argomenti la probabilità della medesima provenienza. Il primo è che non emergono chiaramente prove favorevoli o contrarie. Il secondo e il terzo si basano sulla presenza nel codice delle Notae juris e delle opere di Fulgenzio. Il secondo è che le Notae juris altomedievali si trovano tutte in manoscritti copiati in Francia. Il terzo è che la stessa osservazione vale per la tradizione di Fulgenzio. Il quarto è che secondo l’autorevole parere di Bernhard Bischoff lo stato paleografico dei Fulgentiana e delle Notae iuris nel codice denuncia lo stile di Fleury fra VIII e IX secolo. Il quinto è che il foglio 1 del codice, appartenente a una Bibbia della fine del VI secolo, è da annettere ad altri dieci fogli della medesima Bibbia conservati nella biblioteca di Orléans, su uno dei quali compare «une marque de propriété du VIIIe siècle: Sci Benedicti abbati Floriacensi».
1970
Giovanni Battista Pighi, De quibusdam uersificationis syllabicae generibus, in Studi di ritmica e metrica, Torino, 1970, pp. 169-170.
Osservazioni sulla struttura ritmica delle strofe e del refrain. Per quanto concerne le prime, l’A. afferma che «latinorum huius Albae uersuum metra antiquo uocabulo embateria uocare possumus»; incerto, invece, il metro del refrain: «nam, si syllabas tantum consideramus, molossos metimur […]; sin uerborum diuisiones atque assonationes attendimus, silentia post tertiam quamque syllabam ponere, ut metra ex molossis embateria fiant, haud absurdum uidetur». In tal caso, dunque, emergerebbe una sostanziale identità ritmica tra i versi delle strofe e quelli del ritornello.
1972
Maurice Delbouille, «La formation des langues littéraires et les premiers textes», in Grundriss der Literatur des Mittelalters (GRLMA), I, Heidelberg 1972, pp. 559-584, a p. 567.
Nell’Alba saremmo di fronte ad un «bilinguisme calculé».
1973
Pierre Bec, «L’aube française Gaite de la Tor: pièce de ballet ou poème lyrique?», Cahiers de civilisation médiévale, 16, 1973, pp. 17-33.
Interessa tangenzialmente l’Alba (di cui non si fa menzione) per la discussa appartenenza al genere ‘alba’ e la concomitante presenza della gaita, che ha corroborato in molti studiosi l’ipotesi che l’abigil del testo floriacense possa riferirsi a un bigil (vigil) ‘guetteur’.
1974
Giorgio Chiarini, «Il bilinguismo dell’Alba di Fleury e le kharagiat mozarabiche», in L’Albero, N.S., 51, 1974, pp. 3-21. [Rec.: F. L[ecoy], Romania, 96, 1975, p. 143.]
Dopo un’accurata disamina delle precedenti integrazioni del ritornello (con apprezzamento per il Rajna, al di là dell’anacronistico «pittoricismo»), invita a misurarsi con la sua pur malmessa realtà testuale e a prendere atto del divario linguistico rispetto alle strofe latine (una «direzione perentoriamente indicata dall’incipit: L’alba», con tanto di articolo); respinge il presupposto che il ritornello «vada spiegato interamente nell’ambito di un solo tipo linguistico», fosse pure l’apparentemente plausibile provenzale; ricorda la possibilità, ventilata da Roncaglia e Zumthor, di rapporti «franco-mozarabici» e quindi di una affinità con le muwashshahas arabe ed ebraiche provviste di khargias in dialetto mozarabico; riporta tre esempi di khargias tratti da tali composizioni e, nel sottolineare che il bilinguismo si insinua anche all’interno delle khargias medesime, si sente incoraggiato a riproporlo anche per l’interno del ritornello [ma il rapporto con le khargias è limitato a un mero parallelismo]; di conseguenza, mentre si allinea all’interpretazione di part come preposizione e di umet come aggettivo («al di là dell’umido mare»), di poy scomposto in po avverbio di tempo e in y avverbio «circostanziale-deittivo», di pasa come terza persona di pasar, di bigil come sostantivo (il latino vigil), e infine di miraclar, seguendo il Rajna, come infinito di un pur non attestato verbo («poi, ecco, passa la sentinella a scrutare le tenebre»), vede invece in atra il classicamente attestato plurale astratto del latino ater e in sol la terza persona del provenzale solre < solvĕre («L’alba [...] rompe l’oscurità»). Pertanto risulterebbero elementi latini allo stato puro atra, vigil (già corretto dal Rajna sul regionale betacistico bigil) e tenebras, e tangibilmente calcato su Virgilio umet mar («umida maria»): quasi allo stesso modo che orto iubare del primo verso della prima strofa ne è un aperto prelievo. Il ritornello sarebbe stato composto dallo stesso autore delle strofe latine con la precisa intenzione di annettervelo e non si accetta il possibilismo di Zumthor.
1978
Pierre Bec, La lyrique française au Moyen-Age (XII
e-XIIIe siècles). Contribution à une typologie des genres poétiques médiévaux, Paris 1977-1978, I: Études, pp. 90-107; II: Textes, 24-30.
Edizione dei cinque Tagelieder francesi.
1979
Emanuele Casamassima, comunicazione orale a Lucia Lazzerini, riportata in Lazzerini 1979, p. 140, nota 7.
Per quello che riguarda la datazione della minuscola dell’Alba nel ms. Vaticano, che viene fatta risalire al X secolo o all’XI in., Casamassima opta per la datazione più tarda.
Dénis Bernard Grémont, Jacques Hourlier, «La plus ancienne bibliothèque de Fleury», Studia Monastica (Abadia de Montserrat - Barcelona), 21, 1979, a p. 256.
Lucia Lazzerini, «Per una nuova interpretazione dell’Alba bilingue (cod. Vat. Reg. 1462)», Studi medievali, S. III, 20, 1979, pp. 139-184.
Dopo aver ricordato la lettura di Chiarini che segue i suggerimenti di Roncaglia e Zumthor, pone in rilievo il presupposto storico-culturale di ogni interpretazione, finora stranamente trascurato o solo appena accennato da Laistner [e da Becker]: che ci troviamo davanti a un inno mattutino («Morgenhymnus»), liturgico o paraliturgico; di questo fatto viene fornita copiosa documentazione, da Ambrogio e Prudenzio in poi attraverso gli Analecta Hymnica, focalizzando però l’attenzione sulla liturgia della veglia pasquale e relativi commentari, dove il Cristo che riemerge dalla breve incursione nell’oltretomba secondo una tradizione già patristica viene assimilato al sole che sorge (cfr. del resto l’appellativo biblico Sol iustitiae). Per um& si ipotizza una mécoupure (part umet > par tumet); tumet mar («è gonfio il mare») rinvia ad antecedenti classici (in particolare a un verso di Stazio, Tebaide, dove l’oceano si gonfia appunto del sole che sta per nascere: tumet igne futuro); si accetta la correzione, già proposta in molte ipotesi di restituzione al latino del refrain, di abigil in abigit (ma con significato del tutto diverso); per poypas è accolto il riconoscimento (risalente a Gorra) di un’attestata parola mediolatina (poypa/poypia); miraclar viene invece ricondotto all’infinito di un mediolatino verbo miraclar[e]. Ne risulta una lettura «atra[s] sol | poypas abi(g)it miraclar tenebras», con caduta della -s di atras, davanti a sol, per aplografia, dove si ipotizza che quella sorta di primitivo castello che è la poypa designi la città di Dite, l’oscura (atras è dunque ricollegato a poypas) roccaforte del demonio, mentre si segnala come anche il mare, nella tradizione esegetica medievale, sia frequentemente inteso come luogo delle forze del male. S’instaura pertanto una perfetta corrispondenza tra l’immagine ‘naturalistica’ del sole che riemerge dal tenebroso abisso marino e la soggiacente allegoria del Cristo-sole risorgente dopo la discesa nel cupo châtelet au diable. La forma verbale abigit, come si accennava sopra, non è più identificata con l’indicativo presente di abigo, ma col perfetto di abeo (nell’accezione di «passo/vado a finire in/a»); abigit = abiit (con ben nota grafia mediolatina, ove g è spesso adibito a rappresentare i in iato) regge sia atra[s] poypas, complemento di moto a luogo senza preposizione, sia l’infinito miraclar cui si attribuisce non il significato di ‘scrutare’, bensì quello di ‘stupire incutendo terrore’, dunque ‘annichilire’, ‘sbaragliare’ («il sole discese negli oscuri castelli a sbaragliare le tenebre»), significato che con ben maggiore pertinenza si addice non solo all’etimo [ex-miraculare, che contiene un miraculum latore, al pari di vox mediae come, ad esempio, mirabilia > merveille ecc., di prodigi sia mirabolanti sia terrificanti], ma anche al suo oggetto, le tenebre, ossia le potenze diaboliche, del cui stupore/terrore di fronte all’evento è stato scritto e poetato da Prudenzio in poi. Nella storia del testo si individuerebbero due fasi: una prima, latinamente corretta, con paret, mare, abiit (due sillabe per sineresi), miraclare, e con i due [presunti] versi scandibili secondo lo stesso schema ritmico delle strofe (4p + 7pp) e impreziositi dall’enjambement («atras sol | poypas abiit»); una seconda fase, in un latino paravolgare che viene assegnato alla categoria, istituita ed etichettata da d’Arco Silvio Avalle, di «circa romançum», con introduzione dell’articolo («L’alba») e caduta della desinenza o apocope in par, mar, miraclar, senza che la melodia, incentrata sugli ictus e non obbligatoriamente legata allo stile sillabico nei suoi rapporti con il testo, ne subisca danni; alle strofe, per le quali viene prospettata una possibile ascendenza o ispirazione insulare (per la precisione irlandese), sarebbe stato annesso in seguito il ritornello, incorso per tradizione orale-mnemonica nella suddetta mutazione e divenuto «circa romançum».
Clemente Terni, Trascrizione musicale dell’Alba bilingue, in appendice a Lazzerini 1979 (pp. 180-184).
Trascrizione (sperimentale) in cinque versioni: I, «diplomatica per quanto concerne il testo letterario, semidiplomatica invece per il testo musicale, congetturando una chiave»; II e III, in ritmo libero (basate sul testo Lazzerini I e Lazzerini II [quest’ultimo è quello che sembra preferibile a Paden 2005]): « I versi della strofa e del ritornello rivelano la loro identità strutturale in un ritmo esacordale: si^dó re mi^fá sol si^dó re mi^fá (sol)»; IV e V in ritmo a battuta, basata sul testo Chiarini: «I versi della strofa e del ritornello rivelano la loro identità strutturale nel tipo di versificazione de arte mayor», con soluzione binaria per IV, ternaria per V.
1980
Élisabeth Pellegrin, «Fragments et Membra Disiecta», in in J. P. Gumpert, M. J. De Haan, A. Gruys (edd.), Codicologica, III (Essais typologiques), Leiden 1980, pp. 70-95.
1981
a. Gerold Hilty, «Das älteste romanische Liebesgedicht», in Jahresbericht 1980/81 der Universität Zürich, 1981, pp. 3-12. Rist. in Neue Zürcher Zeitung, n° 106, Samstag-Sonntag 9.-10. Mai 1981, pp. 67-68.
b. Gerold Hilty, «Die zweisprachige Alba», in «Europäische Mehrsprachigkeit». Festschrift zum 70. Geburtstag von Mario Wandruszka, a cura di Wolfgang Pöckl, Tübingen 1981, pp. 43-51.
Vedi Hilty 1995 e 2000.
Sarah Spence, «Et Ades Sera l’Alba: ‘Revelations’ as Intertext for the Provençal Alba», Romance Philology, 35, 1981, pp. 212-217.
1984
Bernhard Bischoff, «Altprovenzalische Segen (Zehntes Jahrhunderts). Mit einer Abbildung (Tafel IV)», in Id., Anecdota novissima. Texte des vierten bis sechszehnten Jahrhunderts, Stoccarda 1984 (Quellen und Untersuchungen zur lateinischen Philologie des Mittelalters, Band VII), cap. XLI, pp. 261-265.
Alla fine del capitolo certifica (p. 263 e nota 12) che, stando al tipo di scrittura, il codice Vaticano Reg. Lat. 1462, che contiene l’Alba, è «erst in das XI. Jahrhundert zu datieren».
Maria Picchio Simonelli, «A proposito dell’ “Alba bilingue”», Annali dell’Istituto Universitario Orientale - Sezione Romanza, 26, 1984, pp. 297-330 (facsimile a p. 300).
L’A. dà per certa la pertinenza dell’Alba all’innodia («Non c’è dubbio che questo è l’ambiente culturale entro cui dobbiamo muoverci per trovare la giusta interpretazione», p. 304), ma contesta l’ascrizione del componimento alla liturgia pasquale, ritenendo anzi fuorviante tale attribuzione. Si tratterebbe invece di «uno dei tanti inni di Mattutino», con la consueta opposizione [già ampiamente rilevata da Lazzerini 1979] luce-grazia / tenebre-peccato, di cui si adducono altri riscontri liturgici e paraliturgici, segnalando anche una possibile reminiscenza ovidiana («adfluit incautis insidiosus Amor», Remedia amoris, v. 148) nell’accostamento degli ‘incauti’ alle ‘insidie del nemico’ [le indicazioni astronomiche della terza strofa latina, che chiaramente disegnano il cielo dell’equinozio di primavera, non sono prese in considerazione]. Dunque le strofe latine mostrano un autore «assai colto» e s’inseriscono perfettamente nel tipo di cultura sviluppatosi dai «fermenti umanistici suscitati dalla riforma carolina» (l’ultima frase tra virgolette è di Aurelio Roncaglia). Passando al refrain, l’A. scorge in par/part la forma romanza di paret; divide um& in u met, con u < ubi e met < mittit; riferisce atra a mar ‘mare’ (soggetto, mentre sol, ‘il sole’, sarebbe l’oggetto di met ‘manda fuori’. Traduzione: «l’alba appare dove il mare buio fa sorgere il sole». Più ostico l’enigma posto dal verso successivo: l’A. cita la proposta Lazzerini per poypas ‘castello’, che dà «nuova vita ad una vecchia ipotesi del Gorra», ma non ritiene di accoglierla, anche se «è quasi un peccato dover rinunciare a tante belle idee per cercare una verità che in sé può apparire ben più banale e certo meno sfolgorante». La correzione di abigil in abigit [= abiit] appare troppo onerosa: «Bisognerebbe pensare che lo scriba non avesse capito quello che fissava graficamente [,] né il poypas come sostantivo [l’A. legge in tutte le tre scrizioni poy pas, il che è contestabile, almeno nel primo caso] né l’abigil come verbo» [ma la tesi dell’incomprensione – o della comprensione sommaria – non è poi così avventurosa e implausibile, se si considera che Fleury-sur-Loire è nettamente al di fuori dell’isoglossa, molto circoscritta, delle poypes]. Qual è allora la soluzione? Eccola: poy sarà avverbio di quantità, ‘un poco’ [con monottongamento di au in paucum, estraneo alla lingua d’oc, per il quale viene addotta la «larga documentazione» reperibile «in testi occitanici antichi come il Saint Alexis»: dove si corregga l’evidente refuso, o lapsus che sia, occitanici in oitanici]; pas la terza persona del presente di passar/passer, con vocale finale caduta per elisione; abigil l’esito volgare di un advigilis [ma, ahimè, tale etimo dovrebbe esser munito di asterisco, in quanto ignoto al latino che conosce soltanto il raro verbo advigilare], e il tutto viene così spiegato: «di poco avanza vigile [soggetto: l’alba] a far miracolo delle tenebre (a miracolare le tenebre)». Nell’insieme il ritornello mostrerebbe una veste linguistica composita, mista di elementi oitanici e occitanici, genericamente etichettabile come «rustica romana lingua» d’area galloromanza. Insussistente, per l’A., la possibilità che sul testo abbiano agito influssi transpirenaici, ossia che il bilinguismo riecheggi quello delle kharagiat: che sono recenziori, ma se anche non lo fossero apparterrebbero comunque a una cultura profondamente diversa.
Paul Zumthor, «Un trompe-l’œil linguistique? Le refrain de l’ “aube bilingue” de Fleury», Romania, 105, 1984, pp. 171-192.
Nelle prime venti pagine troviamo considerazioni [a tratti nebulose, quando non ovvie] relative alla questione ‘che cosa noi intendiamo per latino e volgare e che cosa invece intendevano i responsabili della decina di testi [in verità alquanto eterogenei], fra cui l’Alba di Fleury, che «constituent la totalité du corpus roman» delle origini (p. 172): l’A. discute della presunta continuità, deducibile dalla fonetica storica [tradizionale, di fondo ottocentesco], fra il latino del III secolo e «tel ou tel mot recueilli dans les rares documents de nos IXe, Xe, XIe siècles»; dell’interpretazione di questi documenti «à l’interieur des limites – supposés stables – d’un certain type linguistique», tipo però definito da un assetto più recente; della tendenza (in particolare riguardo ai Giuramenti di Strasburgo, all’Eulalia, al Saint Léger) a individuare una base dialettale sul modello dell’esperienza contemporanea dell’A.L.F. e dell’illusione, poi abbandonata (a partire dal 1965), di scoprire la base dialettale dei suddetti monumenti e di poter identificare dati oggettivi che conducano in tale direzione. Invita quindi a rivolgere l’attenzione «moins sur des moyens que sur des fonctions», per la riconosciuta aleatorietà di ogni trascrizione nel progressivo quadro di diglossia che caratterizza Gallia e Italia tra V e VII secolo: donde l’opportunità di parlare di «registri» piuttosto che di «lingue» e, dando come per niente scontata l’opposizione latino-volgare, di studiare la funzione sottesa alle varie denominazioni di lingua latina / theotisca [ma qui l’opposizione è macroscopica, e parlare di diglossia appare fuorviante] / romana / rustica e di sermo rusticus. Si ribadisce dunque l’utilità dello schema funzionale, disegnato da H. Lüdtke, dei due canali comunicativi, il secondo dei quali, che consisterebbe in un «reimpiego» formale-protocollare del discorso orale, potrebbe spiegare le «proposizioni instabili», all’occhio del filologo, fra latino e romanzo, soprattutto nel caso delle Formule di Soissons, dei Giuramenti di Strasburgo, della Lex Salica e della sua parodia; mentre nei testi poetici, come l’Indovinello veronese, l’Eulalia, i poemetti di Clermont-Ferrand o la stessa Alba di Fleury, il processo di formalizzazione è in più connotato da finalità «estetiche», in vista della «constitution (pour le temps d’une lecture ou d’une performance) d’un registre évocateur, renvoyant à un ensemble de valeurs différentes de celles que véhiculait la tradition livresque». Terminato il prologo l’A. dichiara di voler applicare queste sue ultime considerazioni all’Alba di Fleury. Si comincia con un lungo elenco dei testi finora proposti (diciannove) per il ritornello dell’Alba, accompagnati dalle relative traduzioni-interpretazioni, se ne commentano le ambiguità e le incongruenze grafico-fonetiche, grammaticali e prosodiche; si mette in rilievo il contributo prima di Becker poi di Lazzerini nella pertinente collocazione liturgica e lettura allegorica delle strofe latine, ma si domanda alla fine il perché del ritornello e del suo provocato effetto di rottura, un effetto che «manifeste une intention significatrice». Alla fine questo significato, supportato dalla versificazione di tipo zajalesco dell’inno (strofe + ritornello), si ridurrebbe semplicemente a un jubilus, «le cri désarticulé d’une joie», come mostrerebbero certi fonetismi vocalici e consonantici rilevabili nel ritornello. L’idea muove dichiaratamente da un’ipotesi di Becker, che nel ritornello non vedeva nient’altro che lallende Worte [sfugge però il pur promesso aggancio con le considerazioni svolte nella prima parte del saggio: la dimensione «estetica»/«artistica» del ritornello consisterebbe in un «grido inarticolato»?].
1985
Lucia Lazzerini, «Nuove osservazioni sull’Alba bilingue», Medioevo romanzo, 10, 1985, pp. 19-35.
È il proseguimento del precedente intervento (Lazzerini 1979), integrato da ulteriori raffronti sul significato allegorico e in particolare liturgico-pasquale (nelle sue tre o quattro gradazioni) di voci che occorrono tanto nelle strofe (spiculator = praedicator, Aquilo = forze del male, Arcturus = Cristo vittorioso sugli Inferi e «simbolo della Chiesa trionfante») quanto nel ritornello (mare = inferno, alba = battesimo/Pasqua, sol = resurrectio Christi, tenebras reminiscente dell’Ufficio delle Tenebre). Sempre per quel che riguarda il ritornello si insiste, con più copiosa documentazione, sulla pertinenza borgognona di poypa (allegando anche una cartina toponomastica), peraltro non separabile dalla centralità dell’abbazia di Cluny e dei suoi abati né dai contatti con Saint-Benoît-sur-Loire, ove fu confezionato il codice vaticano dell’Alba [si aggiunga, per quanto concerne l’etimo di poype, spesso collegato senza fondamento a podium o a non ben identificate radici celtiche, la possibile derivazione da *puppia – per puppa ‘mammella’ – ascrivibile al campo semantico di fr. mamelon, it. mammellone ‘collinetta tondeggiante’; a questa base latina riconducono il lemma Albert Dauzat, Gaston Deslandes, Charles Rostaing, Dictionnaire étymologique des noms de rivières et de montagnes en France, Paris 1982. Per l’esito -ppj- > -p- (con anticipo di j) cfr. Antonin Duraffour, «Phénomènes généraux d’évolution phonétique dans les dialectes franco-provençaux étudiés d’après le parler de la commune de Vaux (Ain)», Revue de Linguistique romane, 8, 1932, pp. 1-280; si vedano in particolare le pp. 254-55 sui casi in cui «la labiale reste et le yod disparaît»; ma è significativo, a p. 200, anche l’esito roybos < rŭbeos].
Élisabeth Pellegrin, «La tradition des Textes classiques latins à l’abbaye de Fleury-sur-Loire», Revue d’histoire des textes, 14-15, 1984-85, pp. 155-167, a p. 164.
Paul Zumthor, «Archaïsme et fiction: les plus anciens documents de langue “romane”», in La linguistique fantastique, sous la direction de S. Auroux, J.-C. Chevalier, N. Jacques-Chaquin, C. Marchello-Nizia, Parigi 1985, pp. 285-299, a p. 289.
«Notre aube [...] se range dans le genre des hymnes matinaux et le sous-genre dit antelucanus (d’‘avant la lumière’), l’autre étant le lucis ortus». Equipara le strofe al ‘testo’ e il refrain alla ‘glossa’.
1986
Lucia Lazzerini, «À propos de l’Aube de Fleury», Romania, 115, 1986, pp. 552-553.
Replicando a Zumthor 1984 a proposito della traduzione francese fatta da quest’ultimo della traduzione-interpretazione del ritornello dell’Alba in Lazzerini 1979, l’A. avverte a sua volta l’opportunità di fornire lei stessa una traduzione francese più corretta e rispondente al suo pensiero: così, a una prima versione chiarificatrice ne aggiunge una seconda arricchita di puntuali inserzioni (poste fra parentesi quadre) in cui sono sinteticamente illustrate le allegorie, le fonti e le principali particolarità grafico-fonetiche e lessicali. Seguono (p. 553) brevi righe di risposta da parte di Zumthor, che avanza dubbi sulla possibilità di una «interpretazione così precisa» e resta attestato sull’«effet de balbutiement», al quale caso mai le parole riconoscibili (alba, sol, «abiit» [quest’ultima individuata dalla sola Lazzerini dietro la grafia abigil]) «pourraient bien en effet porter des connotations mystiques» [ma forse neanche ai tempi dell’apostolo Paolo la glossolalia riusciva a eguagliare questo cumulo di «effetti»].
1988
Christine Ruby, «Les premiers témoins du français», in Le livre au Moyen Age, Paris 1988, pp. 133-137, a p. 135, tav. 19.
1991
Malcolm Beckwith Parkes, «An Anglo-Saxon Text at Fleury: The Manuscript of the Leiden Riddle», in Id., Scribes, scripts and readers: studies in the communication, presentation and dissemination of medieval texts, London - Rio Grande, Ohio 1991, pp. 263-274, a p. 270.
1994
Barbara Frank, Die Textgestalt als Zeichen. Lateinische Handschriftentradition und die Versschriftlichung der romanischen Sprachen, Tübingen 1994, in particolare alle pp. 103-106.
Riconosce senza esitazione il carattere paraliturgico delle strofe latine dell’Alba, ma scorge nel refrain (dando fiducia – per la verità immotivata – all’avventurosa interpretazione proposta da Gerold Hilty), un minuscolo componimento poetico ispirato alla «Tradition der Frauenlieder». La petitio principii del carattere profano del refrain poggia – oltre che sulla discutibile, debolissima e contraddittoria ‘soluzione’ hiltiana – su un’indebita, superficiale generalizzazione della teoria di Bec 1977, p. 43 (non a caso smentita da studi più approfonditi) citata a p. 105: «Refrains et couplets appartiennent donc bien souvent à deux couches textuelles différentes, voire hétérogènes, les uns constituant une sorte de fonds commun, les autres représentant la marque plus spécifique de la pièce, pièce elle-même popularisante ou, le plus souvent, appartenant à un autre régistre (courtois, religieux, narratif, didactique etc.)».
1995
Gerold Hilty, «Les plus anciens monuments de la langue occitane», in «Cantarem d’asquestz trobadors». Studi occitanici in onore di Giuseppe Tavani, a cura di Luciano Rossi, Alessandria 1995, pp. 25-45, alle pp. 35-42.
Dopo avere citato le conclusioni di Zumthor 1984 sulla intenzionale incomprensibilità del testo del ritornello osservando che in tal modo si fa di necessità virtù, riprende, ampliandole, le sue precedenti considerazioni volte a dimostrare il legame tra il refrain e la tradizione della chanson de femme. Il riconoscimento che non è ancora del tutto esaurita ogni possibilità di interpretazione è dunque esclusivamente autoreferenziale, stante la damnatio memoriae cui Hilty condanna la quasi totalità delle interpretazioni diverse dalla sua (e di questa, spesso, più razionali ed economiche, giacché logica e sintassi non sembrano costituire una priorità per il romanista elvetico). Hilty ribadisce dunque la sua fantasiosa ricostruzione: legge l’et stilizzato di umet [che ricorre inequivoco nel suadet della seconda strofa] come equivalente solo grafico della congiunzione occitanica e (presente in tale forma davanti a consonante), perché sarebbe in realtà segno fonetico di una e occitanica qualsiasi; scompone pertanto [il presunto] ume in u interiezione (atona, variante di o tonico) e me pronome personale oggetto di prima persona; per il resto vede mar come variante dell’occitanico maire/mair ‘madre’ [mar è inattestato], accetta in atra la terza persona del presente di atraire ma la pensa integrabile da una s, da se pronominale, caduta per aplografia davanti a sol (non ‘sole’ ma l’aggettivo – in funzione di predicato nominale – ‘solo’, accetta in poy la presenza dell’esito occitanico di post e di ibi/hic ma con i pronominale di persona, scompone abigil in a interiezione e bigil, nella cui forma, accettandone l’identificazione vulgata col latino vigil, aggettivo, indica il betacismo di tipo sud-occidentale, accetta mira da mirar, ma nella forma imperativa e «costruita con un doppio accusativo», intende clar come sostantivo (‘chiarore’) e tenebras come suo predicativo. Di conseguenza traduce [con una certa libertà]: «L’aube apparaît. Oh mère! il [l’amato] s’approche seul. | Puisque je passe a lui, ô ciel, gardien, regarde la clarté comme si c’étaient des ténèbres !». Posto che la t di part (da paret) sia un ipercorrettismo limosino-pittavino e la b di bigil sia un guasconismo è aperta l’ipotesi di «un original gascon [...] copié au Limousin ou au Poitou avant d’entrer, au dehors du domaine occitan, dans le manuscrit de Fleury-sur-Loire»; ed è un «originale», da qualcuno inserito nelle aliene strofe latine, che dal rispetto tematico, se si prende a spunto analogico più le alboradas spagnole o le cantigas de amor galego-portoghesi che le khargias mozarabiche, documenterebbe la prima irruzione del lirismo profano nella tradizione degli inni cristiani del mattino, cosicché l’opposizione «amour divin» (strofe) vs. «amour humain» (ritornello) sarebbe contrassegnata anche dal rispetto linguistico.
1996
Gerold Hilty, «Text und Melodie der altokzitanischen zweisprachigen Alba», in Stefan Horlacher e Marion Islinger, «Expedition nach der Wahrheit». Poems, essays, and Papers in Honour of Theo Stemmler. Festschrift zum 60. Geburtstag von Theo Stammler, Heidelberg 1996, pp. 295-306.
Lucia Lazzerini, «Briciole marcabruniane», in Studi di filologia medievale offerti a d’Arco Silvio Avalle, Milano-Napoli 1996, pp. 217-236.
Lo studio è di diverso argomento, ma a un certo punto l’A., nel deprecare l’eccessiva, acritica attenzione dedicata a certi contributi inconsistenti (p. 219 e note 3 e 4), porta ad esempio quello di Zumthor 1984 sull’Alba di Fleury, «castello in aria» quando non «parafrasi o citazione» della medesima A. 1979; e a Zumthor aggrega Hilty 1995 nella disinformata affermazione dell’inesistenza di miraclar. Nel ribadire (con implicito rinvio a Lazzerini 1979 e 1985) il «simbolismo trasparente che accomuna strofe e ritornello», l’A. segnala, a proposito dell’Aquilo del primo verso della terza strofa, la raffigurazione di tale vento «con corpo umano e testa inequivocabilmente demoniaca» sul basamento di un candelabro conservato nella cattedrale di Essen (della scultura si dà anche un’immagine fotografica) e accosta il mostriciattolo alla «descrizione dell’Anticristo fornita da Ildegarda di Bingen [...] che, non a caso, in un’altra visione chiama aquilo la forza tentatrice del demonio».
1997
Barbara Frank, Jorg Hartmann (avec la collaboration de Heitz Kurschner), Inventaire systematique des premiers documents des langues romanes, Tübingen 1997.
Scheda dell’Alba (peraltro scarna e incompleta; «molto lacunosa» anche secondo Asperti 2006, p. 230) al n° 2058.
Maria Luisa Meneghetti, Le origini, Roma-Bari 1997 (Storia delle letterature medievali romanze, I).
Cap. V [«Le più antiche testimonianze del volgare in area francese»], § 4.2 [«L’Alba bilingue di Fleury-sur-Loire: problemi di datazione, d’interpretazione e di localizzazione»], pp. 169-177 (si vedano anche le pp. 181-182 e per la bibliografia le pp. 259-260).
L’A., dopo aver ricordato l’inclinazione dei primi interpreti [storicamente scontata: cfr. l’esauriente excursus di Monari 2005, pp. 681- 692, sulle tesi dei ‘padri fondatori’ della romanistica – primi fra tutti Jeanroy e Gaston Paris – in merito alle origini del ‘genere’ alba] a vedere nel ritornello un «campione di poesia popolare», nella fattispecie di «canzone d’alba» (Rajna 1887) o di «canto di vedette» (Gorra 1901 e 1912), indica a partire dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta [del ’900] una «tendenza a negare il carattere volgare della lingua del refrain», rappresentata da Camilli (1913 e 1954) e Becker (1929 e 1967), poi seguita da una maggiore attenzione all’intero testo dell’inno, inaugurata da Zumthor (1963) col suo richiamo, sia pure analogico, al caso delle khargias mozarabiche, «fantasiosamente» preso alla lettera da Hilty per la tesi, peraltro non esente da contraddizioni, del rapporto tra strofe dell’inno (latino) e ritornello-glossa volgare. Si sofferma quindi ampiamente sui due interventi di Lazzerini 1979 e 1985, che considera portatori dell’«ipotesi più persuasiva tra quelle concepite fino a questo momento» (p. 177). Si obietta tuttavia l’onere dell’integrazione di due sillabe nel testo del ritornello ‘primigenio’, tanto più che la melodia (posto che a ogni neuma corrisponde una sillaba) osta a tale ricostruzione, per concludere che «l’ipotesi più economica è che in realtà il refrain ‘latino’ non sia mai davvero esistito, se non come puro modello mentale», al cui influsso non poteva certo sottrarsi il dotto monaco che, probabilmente nel X secolo e probabilmente a Cluny, volle costruire appositamente per i fedeli partecipanti alla veglia pasquale un ritornello orecchiante la rustica romana lingua [l’ipotesi del ‘modello mentale’ non è affatto alternativa, ma semmai complementare, alla ricostruzione Lazzerini, come esplicitamente affermato in Lazzerini 1998-99].
Segnaliamo un lapsus nell’esposizione: pur aderendo, per l’interpretazione di abigil, alla proposta Lazzerini che riconduce il lemma a un abigit latino da intersi però non come il presente indicativo di abĭgo già da molti ipotizzato, bensì come perfetto di abĕo (ossia abiit ‘è andato, si è recato’), l’A. traduce poi, per evidente lapsus, ‘si reca’.
Altra obiezione era stata in precedenza (nota 22) mossa a Becker a proposito del primo verso della terza strofa, dove lo studioso interpreta Aquilo come «stella polare»: si osserva che Aquilo «nella tradizione tanto latina classica quanto mediolatina» designa il vento del nord o il nord come punto cardinale.
1998
Giacomo Baroffio, Alberto Doda, Rodobaldo Tibaldi, «Musim. Musicae Imagines. Gli studi di paleografia musicale e l’esigenza di nuovi strumenti di ricerca», Scrittura e civiltà, 22, 1998, pp. 419-472, a p. 463.
Gerold Hilty, «L’énigme de l’Aube de Fleury est-elle déchiffrée?», Revue de linguistique romane, 62, 1998, pp. 320-330.
La domanda del titolo riguarda l’accettabilità delle tesi di Meneghetti 1998 e soprattutto Lazzerini 1979 e 1985. Hilty comincia con il contestare lostupore di Meneghetti sulla universale negligenza degli studi di Becker sull’Alba (ripubblicati postumi nel 1967) ricordandole l’esistenza di un suo intervento pubblicato nel 1981 nella doppia veste di discorso rettorale zurighese («sous le titre Das älteste romanische Liebesgedicht») e di articolo nella «Neue Zürcher Zeitung». Passa poi ad analizzare la primitiva versione latina del ritornello ipotizzata da Lazzerini 1979 [e 1985] e la relativa interpretazione (condivisa da Meneghetti), mettendone in dubbio i fondamenti: il verbo di movimento abire necessita di una preposizione davanti all’accusativo e quando, nel latino medievale, la preposizione manca, l’accusativo è quello di un nome proprio [ma cfr. Lazzerini 1999], e nome proprio non possono considerarsi le poypas; miraculare ‘compiere miracoli’ è di sparuta attestazione e comunque è intransitivo, mentre il corrispettivo dialettale moderno esmeralya non presenterebbe propriamente l’accezione di ‘sbalordire/sbaragliare’ assegnata da Lazzerini a miraclar bensì quella di ‘troubler/étonner’ [per la verità, la differenza sfugge; si sospetta un’imperfetta padronanza della lingua italiana da parte dello studioso]. Inoltre l’area di poypa (Borgogna) e l’area di esmeralya (Svizzera romanda) non coincidono [affermazione falsa, in quanto poype è ben attestato nella Svizzera romanda, cfr. il ginevrino Fort de La Poype]; se il passaggio dall’ipotizzato primitivo strato latino del ritornello al secondo strato semivolgare che abbiamo sotto gli occhi può giustificare par (a costo di prelevare la t del due volte occorrente part per prestarla all’iniziale di un tumet al quale solo dubitativamente si concede la lettura -et di & [ma basta il successivo, chiarissimo suad& a fugare il dubbio] e mar, non altrettanto giustificabili sono poypas e abiit da bisillabi dilatati in trisillabi (tanto più se in abigit -g- vale y, che indicherebbe l’appartenenza delle due i a sillabe distinte). Hilty s’interroga inoltre sulla latitanza dell’articolo determinativo dopo il così vistoso inizio con l’alba, non spiegata da Lazzerini [ma anche nella Parodia della Lex Salica, dove pure si registra una cospicua serie di articoli – lo cabo, lis potionis, latercia –, è riscontrabile una certa arbitrarietà nell’uso di tale innovazione volgare]. Desta infine forti perplessità (manifestate anche da Meneghetti 1998) il tentativo di accordare la melodia delle strofe con la palesemente diversa melodia del ritornello [in realtà, per carente informazione bibliografica, si attribuisce falsamente a Lazzerini l’ipotesi di una omologia strutturale delle strofe e del refrain più volte rilevata sia da musicologi (Terni) sia da studiosi di ritmica mediolatina (Pighi)]; tanto più ‘cesura’ culminante con sol sarebbe incompatibile con enjambement e iperbato [ma le indicazioni musicologiche dell’A. restano oscure]. A questo punto Hilty rivolge nuovamente la sua attenzione polemica verso Meneghetti 1997 e 1998, sostenendo di non aver mai affermato che nell’Alba di Fleury si colga un’eco delle kharjas mozarabiche, ma di essersi limitato a sottolineare analogie tematiche, rinvenibili anche nelle alboradas e nelle cantigas de amigo, come del resto risulta da altri suoi scritti ignorati da Meneghetti (Text und Melodie der altokzitanischen zweisprachigen Alba, in Stefan Horlacher - Marion Islinger [edd.], «Expedition nach der Wahrheit». Poems, Essays, and Papers in Honor of Theo Stemmer, Heidelberg 1996, pp. 295-306). Quanto alla sua proposta di interpretazione, vilipesa da Meneghetti come «pesantemente ricostruttiva» e «fantasiosa», un lettore non gravato da pregiudizi dovrebbere riconoscere che l’intervento ricostruttivo si limita all’«addition d’un s à la fin de atra» spiegata «par une haplographie entre atra et sol (= atra·s sol)», esattamente come nella proposta Lazzerini, benché con diversa interpretazione. Vengono quindi ristampati testo e traduzione dell’Alba in conformità a Hilty 1995.
Maria Luisa Meneghetti, «L’Alba di Fleury: un osterlied», in «Miscellanea mediaevalia». Mélanges offerts à Philippe Ménard, a cura di Jean.-Claude Faucon, Alain Labbé e Danielle Quéruel, 3 voll., Parigi 1998, vol. II, pp. 969-983.
Mettendo momentaneamente fra parentesi il senz’altro arduo refrain (per il quale accennerà poi alle stimolanti ma vaghe e contraddittorie proposte di Zumthor 1963 e 1984 e a quelle «pesantemente ricostruttive» di Hilty 1981, accoglie le argomentazioni di Mölk 1969 a favore di una trascrizione dell’Alba operata nello scriptorium del monastero benedettino di Fleury, riconosce Laistner 1881 e Schläger 1895 come pionieri nella collocazione del testo entro la «tradizione innodico-liturgica cristiana», dà al sorprendentemente trascurato Becker (1967, ma 1929) il merito di aver definito il testo un «inno pasquale mattutino» e a Lazzerini (1979 e 1985) il merito di averne puntualizzato con ampia documentazione tratta da passi di autori patristici e medievali la tematica della Resurrezione. L’A. obietta tuttavia a Lazzerini una insoddisfacente giustificazione della terza strofa, non bastando una lettura che vede nel ritornello [che torna in gioco, ora non più «fra parentesi», incaricato di spiegare, in una sorta di circolo vizioso, quello che invece dalla strofa doveva essere spiegato] la discesa di Cristo agli Inferi (le poypas) e la disfatta delle potenze demoniache (miraclar tenebras), e neppure un pur accettabile supplemento di interpretazione allegorica nei riguardi di Arturo, all’Oriente, degli astra poli, di Aquilo, perché «bisognerebbe [...] dimostrare l’esistenza nel testo di un preciso riferimento temporale, tale da dimostrare che l’alba descritta non è l’alba di un qualsiasi giorno dell’anno, bensì l’alba del giorno di Pasqua». A questa dimostrazione soccorre Becker, secondo il quale nella terza strofa risiede una indicazione della posizione astronomica di Arturo, della Stella Polare o del Gran Carro, vale a dire l’indicazione che l’alba ivi descritta «è l’alba dell’equinozio di primavera, e cioè l’alba del giorno in cui, secondo l’esegesi biblica, sarebbe avvenuta la creazione del mondo». L’A. dubita però, in assenza di riscontri classici e mediolatini, di un Aquilo «equivalente sineddotico della Stella Polare» e/o del Nord, e insiste sul tradizionale Aquilo «vento del Nord», che a un certo momento cessa di soffiare e separa (disgregatur) «il proprio destino da Arturo» [beninteso dal punto di vista meteorologico e non più astronomico], «la cui comparsa nel cielo serale rappresenta un sicuro indizio dell’arrivo della primavera». Si delineerebbe pertanto «il quadro climatico post-equinoziale, in cui la tradizione ebraica prima, e cristiana poi, hanno fissato la celebrazione della Pasqua».
Ulrich Mölk, «Plan- und Kunstsprachen auf romanischer Basis II. Altokzitanisch», in Lexicon der Romanistischen Linguistik, herausgegeben von Günter Holtus, Michael Metzeltin, Christian Schmitt, vol. VII, Tübingen 1998, cap. 492.
Menzione dell’Alba a p. 687, con rinvio a Mölk 1969 per la dimostrazione della provenienza floriacense del ms. e (soltanto) a Lazzerini 1985 «zur sprachlichen und kulturgeschichtlichen Interpretation».
Pierre Riché, «Après l’an mil un soleil radieux éclaira-t-il l’Occident?», Bulletin de la Société Nationale des Antiquaires de France, 1998, pp. 45-55, a p. 50.
1999
Lucia Lazzerini, «Superfluum puto apertas ineptias confutare. Minime precisazioni sull’Alba bilingue», Romanica Vulgaria - Quaderni, 16-17 (Studi Provenzali 98/99, a cura di Saverio Guida), pp. 5-40. [Recensioni: Paolo Canettieri, Critica del testo, V/3 (2002, ma «finito di stampare nel mese di dicembre 2003»), pp. 802-804.]
Gerold Hilty 1998 oppone, sfidando ogni ostacolo logico e cronologico, la tradizione religiosa delle strofe latine a una tradizione profana del ritornello, da leggere come una chanson de femme in formato ridotto: saremmo dunque in presenza di una specie di «alborada da abbazie», della interpolazione di un Frauenlied in un inno mattutino? E per di più per cantare «quel demenziale guazzabuglio» [quello che viene fuori dall’interpretazione di Hilty]? Vanamente Hilty si appiglia ora all’esempio delle khargias mozarabiche, che «appartengono a un contesto culturale del tutto diverso», ora al modello del refrain exogène proposto da Pierre Bec per canzoni soprattutto oitaniche (ma attestate solo partire dalla fine del XII secolo); inoltre, nello specifico esempio dell’alba Gaite de la tor, uno studio di Madeleine Tyssens smentisce Bec sull’autonomia formale e semantica del refrain rispetto al resto del componimento.
Per quel che riguarda l’edizione-interpretazione del ritornello elaborata da Hilty l’A. [essendo l’exergo geronimiano un’ovvia preterizione] smentisce provatamente la lettura dell’abbreviazione per -et come unicamente destinata alla congiunzione e non anche alla terminazione verbale; denuncia l’inesistenza di un occitanico mar/mare «madre», casomai addebitabile al franco-provenzale (ma il dato confliggerebbe allora con l’altra [peraltro corretta] assunzione di Hilty del tratto guascone manifestato dalla consonante iniziale di bigil); mentre una nuova contraddizione sorge dall’assunzione della forma part come ipercorrezione limosina, insufficientemente giustificata con l’ipotesi di un originale guascone copiato tra Limosino e Poitou. L’A. domanda su quali basi poggi un sol complemento predicativo del soggetto al caso régime; constata la sorta di «lingua franca» (altro che «corretto occitanico»!) risultante da un mira clar tenebras tradotto «regarde la clarté comme si c’étaient les ténèbres». Transitando alle «obiezioni puntuali di Hilty», fornisce [a integrazione di suoi precedenti contributi] ampia esemplificazione di abire che regge l’accusativo senza preposizione nel latino cristiano e medievale; adduce a suffragio dell’emendamento di abigil in abigit [= abiit a norma di una ben nota grafia mediolatina documentata nei precedenti contributi], sostenuto anche dall’acclarato uso di abire in contesti escatologici, l’ipotesi di una falsa ricostruzione dopo caduta di -t in fonosintassi, falsa ricostruzione indotta dalla concomitante, tendenziale caduta di -l nell’occitanico settentrionale si verificherebbe anche per -l). Difende inoltre, pur dichiarandola del tutto ininfluente ai fini esegetici, la teoria (avanzata in Lazzerini 1979 e pretermessa invece in Lazzerini 1985) del ‘doppio strato’ del ritornello, lo ‘strato’ che avremmo sott’occhio e la ‘sinopia’ o ‘livello soggiacente’, stante la «possibile omologia strutturale con il metro delle strofe» sostenuta da vari studiosi (un’ipotesi cui può affiancarsi, a titolo di «opinione complementare», la «formula ‘modello mentale’» suggerita da Meneghetti 1997.
Per quanto riguarda la melodia si osserva che Hilty confonde «strutture versificatorie e veste musicale», mentre proprio quest’ultima, verosimilmente modificata da un cantor, come risulta da casi comparabili, potrebbe aver influito sulla prosodia.
L’A. ribadisce i fondamenti teologici e linguistici della proposta relativa a miraclar «stupire e gettare in confusione»; la localizzazione del lemma poypa [e del corrispettivo oggettivo, ‘piccola altura’, ‘sorta di terrapieno’] in area francoprovenzale e più precisamente borgognona, ampiamente confermata anche dalla toponomastica attuale (dato da cui discende ipso facto, considerata l’epoca del testo, l’ascrizione a Cluny del refrain), in significativa concordanza con l’isoglossa di miraclar nei suoi esiti dialettali; documenta infine l’occorrenza non solo classica, ma anche mediolatina, di ater attributo di poypa.
2000
Gerold Hilty, «Le style c’est l’homme», nella rubrica «Tribune libre» della Revue de linguistique romane, 64, 2000, pp. 610-612.
Replica a Lazzerini 1999, intervento fortemente critico nei confronti di Hilty 1998 (e 1995). L’A. protesta contro certi passaggi della prosa di Lazzerini percepiti come inurbani [ma si ammetterà che neppure la pervicace riproposizione della propria tesi con sdegnosa damnatio memoriae delle diverse opinioni rappresenta la quintessenza del bon ton], donde il celebre aforisma del titolo, integrato nel finale, in cavalleresco omaggio alla parità dei sessi, con «... et aussi la femme». Il punto saliente dell’intervento è individuabile nel rinvio dell’A. a un suo scritto del 1981 («Die zweisprachige Alba», in Wolfgang Pöckl [ed.], Europäische Mehrsprachigkeit. Festschrift zum 70. Geburtstag von Mario Wandruszka, Tübingen 1981, pp. 43-51), che, se fosse stato letto da Lazzerini, ne avrebbe scoraggiato le obiezioni. Lì si troverebbe, secondo l’A., la giustificazione della forma mar ‘madre’ in luogo di maire, attestata in una carta tolosana del 1151 e da mettere in parallelo con la forma frares di una carta del Rouergue del 1196, mentre nel Supplement di Emile Levy sono citati due frars da carte limosine. Inoltre Raimbaut de Vaqueiras presenta frar in rima (e sempre in rima cavalar); in Flamenca e nella Chanson de la Croisade albigeoise «le resultat de variu se trouve dans une rime en -ar» [ma per la verità in Flamenca nessun vair o var occorre in rima]; quindi ci sarebbe accordo geografico fra mar(e) e bigil col suo betacismo sudoccidentale. [A parte la dubbia legittimità del ‘gemellaggio’ tra gli esiti mar < matre e var < variu, è il metodo che non convince; giacché è chiaro che raschiando il fondo del barile a caccia di hapax, rarità ed eccezioni (previa frantumazione del testo in trucioli monosillabici) si riesce a dimostrare tutto e il contrario di tutto. Pertanto l’accusa di scarsa attenzione alla bibliografia hiltiana, reiteratamente rivolta a Lazzerini e Meneghetti, andrebbe più propriamente addebitata allo stesso Hilty, che sembra non far tesoro dei saggi avvertimenti di maestri della linguistica occitana come Jules Ronjat (Grammaire historique des parlers provençaux modernes, § 113): «Les textes vpr. ont ici {ossia nella rappresentazione degli esiti del suffisso -ariu} comme ailleurs une grafie trop capricieuse pour qu’on puisse toujours dater et localiser les fénomènes avec assurance»].
Per Hilty il segno & [a dispetto dell’incontrovertibile suad&] non rappresenta solo et ma è «dans des textes médiévaux ... employé pour transcrire des e» e in antico vallone «peut rendre le résultat de la préposition et du préfixe in»; l’assenza della marca del caso soggetto nella funzione predicativa non sarebbe apparsa poi così rara a Lazzerini se la medesima avesse consultato di Frede Jensen anche The Old Provençal Noun and Adjective Declension, Odensee University Press, 1976 (in particolare alle pp. 129-131), dove viene fissato il punto di partenza del «collasso del sistema di declinazione» nel sud-ovest del dominio occitanico: sicché l’assenza di -s in sol ‘solo’, riferito all’ipotetico amante venuto a prelevare la fanciulla per l’ipotetica fuitina, «peut être un trait dialectal» [inutile, a questo punto, sottolineare la precocità davvero sorprendente del ‘collasso’. Del resto Hilty, confermando il suo disinvolto relativismo grammaticale, ignora completamente la marca sigmatica del nominativo in un altro testo arcaico, lo scongiuro di Clermont-Ferrand che recita Cum pisce in aqua fregit sua ala et resoldé | si resold in ista mans qui deslogé. Presumendo in tale formula, pour les besoins de sa cause, la stessa deriva morfologica ipotizzata per l’Alba, egli interpreta ‘in questa mano’ (!); mentre, come dimostrato in Lazzerini 2001 e ovviamente confermato da Paden 2005 e Asperti 2006, si deve intendere, a norma della corretta declinazione bicasuale, in ista (aqua), con mans soggetto].
2001
Gerold Hilty, «I primi testi romanzi», in Lo spazio letterario del Medioevo - 2. Il Medioevo volgare, direttori: Piero Boitani, Mario Mancini, Alberto Varvaro, I.2. La produzione del testo, Roma 2001, pp. 57-89.
A pp. 73-75 ripropone per l’ennesima volta la sua lettura del refrain (ignorata da Mölk 1998 e decisamente respinta da Meneghetti 1997 e Lazzerini 1999) come canto d’amore e chanson de femme in miniatura.
Lucia Lazzerini, Letteratura medievale in lingua d’oc, Modena 2001, § 1.1.4 alle pp. 19-23 e bibliografia essenziale a p. 234.
Ricapitolando i suoi precedenti contributi, sottolinea il pieno riconoscimento nelle strofe latine della presenza di un concentrato di topoi dell’innodia cristiana: luce vs. tenebre, spiculator «banditore del Verbo divino» (e, biblicamente, «sacerdote»), ostium insidie «presenze demoniache», Phebus «Cristo, sol iustitiae», ma anche, considerando la destinazione dell’inno al canto pasquale, Cristo-sole «simbolo della Resurrezione», tanto più che nella terza strofa si danno indicazioni astronomiche molto precise, come già vide Becker, riferibili all’equinozio di primavera e dunque al periodo pasquale. Rispetto alle strofe il ritornello denuncerebbe «un livello stilistico più orientato verso il sermo humilis», un sermo humilis – ossia un latino volgareggiante e imbarbarito che «con minimi emendamenti» (ovviamente virtuali) è possibile recuperare come ‘base di partenza’ linguistica del refrain. Si tratterebbe dunque di una diglossia studiata, ‘riflessa’ e, per così dire, calata dall’alto. Non a caso il livello volutamente ‘ribassato’ sotto il profilo linguistico non rinuncia ad esprimere un dotto simbolismo, parallelo e omogeneo a quello delle strofe latine: in alba (anzi l’alba, vs. aurora) è forse latente il riferimento a un’Alba ‘Pasqua’ (cfr. ingl. Easter, ted. Ostern) e alle «bianche vesti dei catecumeni battezzati durante la veglia del Sabato Santo», al termine della ebdomada [settimana] in albis; il «grumo grafico» poypas abigil allude – previa una giustificabile correzione di l in t e la documentazione di un uso grafico di g per i – al discendere (abire) di Cristo risorto entro il «nero» (atra[s]) «castello del diavolo» (poypa/poipia, appunto ‘[sorta di] fortezza’ secondo la toponomastica borgognona e il lessico franco-provenzale) a «sbaragliare» (miraclar voce franco-provenzale e limosina da *exmiraculare) le «tenebre»; le strofe latine denuncerebbero «uno stile raffinato e ipercolto [...] che rinvia a una tradizione neoisperica» [rendendo dunque superflua l’ipotesi di strofe irlandesi preesistenti al refrain avanzata in Lazzerini 1979] ben presente anche nell’Occupatio, poema latino di Oddone (879-942), abate di Cluny e promotore del canto liturgico nella medesima abbazia (dove, «in quegli stessi anni, viene forse composto il Quem quaeritis, embrione del teatro medievale», a conferma dell’azione promozionale dell’ordine cluniacense nei confronti della partecipazione popolare alla liturgia e dunque, direttamente o indirettamente, del volgare). Sappiamo che dal 930 Oddone è a Fleury-sur-Loire, impegnato nel risanamento del degradato monastero locale: donde la possibilità che «da Cluny vi [a Fleury] sia stato importato il refrain dell’Alba, inventio paraliturgica e insieme aurorale esercizio di trobar».
2004
Lucia Lazzerini, «Recensioni e strafalcioni. Di nuovo sulla questione dell’ “Alba bilingue”», Cultura Neolatina, 64, 2004, pp. 311-317.
Replica alla recensione di Canettieri a Superfluum puto ecc. (Lazzerini 1999), di cui si rileva, oltre a qualche ovvietà teorico-metodologica, l’arbitrarietà di proposte quali umet ricondotto a un verbo humeo inusitatamente transitivo, poypas presunta «deformazione» di Phoebas (che dall’abituale accezione di «sacerdotessa di Febo» passerebbe a indicare «l’astro di Febo»), abigil congiuntivo presente di un inattestato (in volgare) avigilar «far la guardia» e l’altrettanto irrelato miraclar nel senso di «scrutare». L’A. non nasconde il proprio sconcerto di fronte alla conseguente proposta interpretativa, secondo cui un «nero [atra] mare» bagnerebbe [ma cfr. le riserve di cui sopra] un sole che, assimilato alla stessa scolta, verrebbe invitato a «scrutare le tenebre».
2005
Giorgio Monari, «Son d’alba. Morfologia e storia dell’alba occitanica», Critica del testo, 8, 2005, pp. 669-763.
Dettagliata analisi dell’alba come genere letterario. Dell’Alba bilingue si fa menzione, in riferimento alle (ampiamente citate) teorie di Jeanroy, alle pp. 683-684; nella nota 46 si rinvia ai contributi di Meneghetti 1997 e Lazzerini 2001.
William D. Paden, «Before the Troubadours: The Archaic Occitan Texts and the Shape of Literary History», in «De sens rassis». Essays in Honor of Rupert T. Pickens, Amsterdam 2005, pp. 509-528.
Nella sua puntuale e bibliograficamente accurata rassegna dei più antichi testi in lingua d’oc, l’A. dedica all’Alba bilingue le pp. 497-502. A proposito della lettura del refrain proposta da Hilty 1995, osserva che il richiamo alle kharjas in cui compare una fanciulla che confessa alla madre le sue pene d’amore è molto suggestivo; purtroppo, però, questa interpretazione sembra avere scarsa attinenza con la lingua del testo. In effetti occorre un discreto sforzo di fantasia per individuare ‘Oh mère’ in um& mar da leggersi u me mar, ‘il s’approche’ in atra con aggiunta di riflessivo in enclisi asillabica, ‘je passe à lui’ in pas, ‘la clarté’ in clar, e soprattutto ‘comme si c’étaient des ténèbres’ in tenebras. Non è neppure chiaro, aggiunge Paden, che cosa significhi il secondo verso [del ritornello] nella ricostruzione di Hilty: «since the girl goes to her lover, she asks the watchman to observe brightness as tough it were darkness (?)» [a dire il vero il pensiero di Hilty è abbastanza perspicuo: la fanciulla chiederebbe al guardiano di far finta che l’alba non sia ancora spuntata, ossia di chiudere un occhio – meglio se tutti e due – sulla sua fuga, come se il buio pesto gli impedisse di vederla; ma tale ricostruzione è talmente lambiccata, e talmente labile il rapporto col testo, che le perplessità dell’A. sono più che comprensibili]. In conclusione, la lettura di Hilty risulta irricevibile sul piano della sintassi e del significato (p. 499), mentre «Lazzerini offers a more satisfactory reading». Paden illustra quindi, in sintesi, il significato allegorico attribuito al refrain secondo quest’ultima interpretazione; cita inoltre la proposta alternativa di Lazzerini 1979, pp. 161-62 [dall’autrice, peraltro, ritenuta insoddisfacente], «L’alba par, tumet mar, atra[s] sol | poy pasa, bigil, miraclar tenebras» (traduzione: ‘L’alba appare, è gonfio il mare: poi il sole passa, vigile, a sbaragliare le tenebre’). Questa lettura sembra a Paden preferibile: «On the grounds of reluctance to make any unnecessary emendation, I lean toward Lazzerini’s second solution» [sennonché, scartata l’«unnecessary emendation» di abigil in abigit, si deve necessariamente introdurre una divisione delle parole estranea al testo, che mai, nelle tre scrizioni, accorpa a poypas la a di abigil: siamo proprio sicuri, allora, che quest’ultima opzione sia del tutto indolore? E che bigil sia, senza dubbio alcuno, attributo confacente al sole?]. Paden confessa di non capire «why the refrain is in vernacular, which is one of the strongest points of the analogy to the jarcha» [ma si veda, per una risposta a tale interrogativo, la scheda relativa a Lazzerini 2001 in fine]; ritiene però che nell’Alba «the refrain narrates the past descent of Christ into Hell or his resurrection» (p. 501) [mentre è chiaro che non vi può essere alcun riferimento alla discesa agli Inferi se leggiamo sol poy pasa, giacché la vittoria sulle Tenebre deve per forza precedere – e non seguire – il (ri)sorgere del Sole; risulterebbe inoltre casuale, anziché legata al significato profondo del testo, la puntuale descrizione, contenuta nella terza strofa latina, di quello che Venanzio Fortunato chiama «tempore vernali, Dominus quo Tartara vicit» e gli astronomi definiscono ‘triangolo primaverile’: cfr. Meneghetti 1998 e Lazzerini 2004, p. 312, nota 6].
2006
Stefano Asperti, Origini romanze, Roma 2006, pp. 230-231.
L’A. si limita a constatare che il refrain «è difficilmente decifrabile sia nel dettato che nell’assetto linguistico di base (si è anche pensato a un refrain in latino ‘volgarizzato’)». Tale difficoltà dovrebbe implicitamente giustificare la sospensione del giudizio e l’assenza di qualsiasi informazione – peraltro un po’ sorprendente in un manuale specificamente dedicato alle origini romanze – sulle principali proposte interpretative, demandata a esigui e neppure aggiornati rinvii bibliografici. Ne risulta di fatto minimizzata l’importanza di un monumento che è stato invece percepito – e certamente non a torto – come cruciale fin dalla sua scoperta (bastano a dimostrarlo sia l’abnorme quantità di contributi critici sia l’ormai secolare accanimento esegetico). Strofe latine, testo e traduzione sono ripresi da Lazzerini 2001, ma purtroppo l’A. non si è accorto di un banale ed evidentissimo refuso ivi insinuatosi (sudet per suadet), che riproduce pari pari, senza alcun controllo sulle decine di facsimili e di precedenti edizioni.