I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
I. Trasmetterò una canzone-sirventese alla mia donna, poiché non ho pensato ad altro – da quando sono partito da Vianes – che alla sua bellezza completa. E subito mi sovviene del giorno in cui lei mi disse: «Bel dolce amico, vai subito ma stai attento a non tornare tardi, se non vuoi che io muoia».
II. Signori, e non ne ho avuto piacere per il fatto che la più bella che io conosca mi ha detto ciò che io vi ho riferito? Ormai nessuno mi può più negare quel che è mio per diritto, perché presso di lei ho tutto quanto io volevo di amore e di amicizia, malgrado i miei nemici; non ebbe altrettanto gaudio Floris quando giacque con la sua amica
III. A causa del mio servizio cortese ebbi dalla mia donna tutto quanto mi piacque, e poiché mi trovò sincero mi dette più di quel che mi aveva promesso, e nel cuore mi tornò la vita. E non mi hanno nuociuto la gelosia né i falsi maldicenti malvagi, che hanno fatto molti discorsi ingannevoli, ma lei non ha creduto loro.
IV. Vi dirò del mio signore del Monferrato che mi dispiacerà quando me ne andrò, tanto è savio e cortese e di bella compagnia; ma – se si vuol giudicare secondo giustizia – ha ben ragione il re Federico quando dice che ci sarebbe bisogno di un piccone per togliergli qualche bene.
V. Eppure nessun Lombardo ha mai speso tanto per la buona fama come fece suo padre, se si vuol dire la verità, il che provoca in noi cortesi una gran sofferenza. Quando partì per la Romania la generosità se ne andò con lui. E sia maledetta Salonicco che tanto costringe a girare poveri e mendichi per la Lombardia!
VI. Malaspina, vi garantisco che voi avete molti amici e pochi nemici dove regna cortesia.
I. 1 sirventes] serventesc R 3 pensai] pens sai C; d’] manca in T 5 mas] manca in R; complia] complida T 7 belhs dous] bel dolc T 8 tost] tuost T; no·t] non T
II. 10 no·m n’es] nom es C, non mes R, no me nes T; pres] peres C 11 quar] pus R; qu’ieu] que CR 12 que] cieu T 13 iamais] jamais pus CR; no·m devede] non deman CR; devede] devedie T 14 qu’ab lieis ai] puois ai T; ab] ap R 17 anc] ni T; fo] fon TR
III. 22 no·m] non R; mi] me T 23 el] al E; via] vida T 24 mi] me T 25 lauzengiers] lauzengier C 26 fag] fac T; mans] manh C
IV. 28 mon senhor] mossenher C, mo senhor ER 29 Monferrat] monfort T 31 es savis] esavis T 32 belha] bel T 33 mas] e CR; qui] quil C; jutgiaria] gugiaria T 34 reys] rey C 35 obs] mestiers CR, mester E; auria] aurian CR 36 l’aver trair’en] lauzar tal ren CR; trair’] trar T; volria] volia E
V. 37 que] e E, quez T; Lombartz] lombart CRT 38 pretz] press T; qui] quil T 39 sos] son CR; que] o que T 40 sofraita] sofraccia T 42 Larguez’] largen R; ab] am T 43 Salonicx] sanh lonicx C, solonicx TE 44 tans] tant RT; fai] faic T 45 paupres] paupre T
VI. 47 vos] vos en T; vos] li C; granren] ganren R, gran rens T 48 avetz] auzetz TR, aura C; pauc] paucx CR 49 renha] renhab C
4. Il Vianes era la terra di origine di Falquet (così come affermato dalla sua Vida).
8. tricx. Il verbo potrebbe provenire sia da trichar sia da trigar, ma mi pare peraltro che il senso complessivo del periodo imponga di accettare il secondo: ‘e bada di non tornare tardi’. Traducendo infatti con ‘ingannarti’, non si avrebbe una frase di senso compiuto, a meno di modificare l’enclitico -t precedente in -m. Per quel che riguarda trigar si veda la nota di Saverio Guida, Il trovatore Gavaudan, Modena 1979, a p. 250 nota 57 e SW VIII:468.
9. morta no sia. Sul sintagma esser mort cfr. Carl Appel, Provenzalische Chrestomathie, Leipzig 1895, gloss. s. v. mort: «mortz soi: ich werde getötet».
10. Senhors. Inutile la correzione nel più esatto senhor, come provano i numerosi esempi addotti da Guida, Il trovatore, pp. 269-70, n. 1, cui si aggiunga almeno Giraut de Borneil, Be vei e conosc e sai (BdT 242.26), v. 9: «Senhers Dieus, drechurers chars», secondo la lezione del ms. unico C, corretta però dall’editore in senher. — E no·m n’es. L’espressione si ricava da E, considerato che C trascrive no mes, R non mes, T no me nes (che di conseguenza risulta ipermetro di due sillabe, visto il peres in rima).
13. Zenker stampa devede res e a tale soluzione aderiscono anche Arveiller - Gouiran, i quali riconobbero «dans la forme devede un prétérit sans -t final», come altrove in Falquet. Appel preferisce invece la lezione deved’e res. La scelta non appare semplice, ma mi sembra di poter esprimere una leggera preferenza per l’ipotesi formulata da Appel; il poeta, in effetti, sta affermando un dato di fatto, gode della piena felicità, ha tutto quanto desidera in tema di amore e amicizia, malgrado l’azione di contrasto dei suoi nemici. Assegnando a devedar il consueto significato di ‘vietare, impedire’ (PD, s.v., ma anche ad esempio Sergio Vatteroni, Il trovatore Peire Cardenal, 2 voll., Modena 2013, gloss. s.v.), in effetti la costruzione devedar e(n) res risulta inattestata. SW II:191-2, traduce devedar con «entsagen, absagen, sich hüten», mentre LR V:474, suggerisce «interdire, mettre en interdit, défendre, prohiber». A mio avviso però, considerato il contesto e l’insistito ricorso da parte di Falquet de Romans al linguaggio feudale, parrebbe più appropriato, per usare le parole di Martin de Riquer, Guillem de Berguedà, 2 voll., Abadía de Poblet 1971, vol. II, p. 88, n. 2, «un peculiar sentido feudal: “negar o rehusar a alguien lo que se le debe”». Nel nostro caso la lezione, banalizzante, di CR, ci suggerisce che siamo di fronte a un termine di cui un copista non ha compreso il significato, inducendolo a sostituirlo con un lemma più facile, ordinario: devedar non lo è, mentre il significato feudale che esso ebbe nelle carte giuridiche potrebbe essere suonato strano alle orecchie di un semplice copista. Si tenga presente inoltre che in T il v. 14 inizia così puois ai tot quan volia, con una lezione manifestamente erronea (per ipermetria), e che però contiene puoi, corrispondente al pus di CR in questo verso. Potrebbe trattarsi della prova del rimaneggiamento che i due codici occitanici avrebbero fatto subire al testo, tanto più perché deman è variante isolata. La proposta dunque che avanziamo è di riconoscere nella lezione devede res, la terza persona plurale del futuro di devedar, e cioè la forma devederes, il cui riferimento lontano sono i Senhors di v. 10, ai quali il nostro trovatore si rivolge affermando che, avendone goduto, nessuno potrà più rifiutargli quel che gli è feudalmente dovuto in ragione della fedeltà e del servizio.
14-15. Questi versi si leggono identici in Raimon de Miraval, Tals vai mon chan enqueren (BdT 406.42), vv. 29-30: «qu’ab lieys ai tot quan volia / d’amor e de drudaria». La segnalazione risale a Zenker il quale concluse che probabilmente fu Falquet a copiare dal trovatore del Carcassés. Il problema però mi pare più intricato di quanto intravide il filologo tedesco. Il testo di Raimon de Miraval, infatti, è una canzone in stretti rapporti con la canzone sirventese di Peire Vidal, Neus ni gels ni ploja ni faing (BdT 364.30) databile a poco dopo l’agosto del 1204 e, soprattutto, fu modello metrico per la cobla Raimonz, en trobar es prims (BdT 457.32), di Uc de Saint Circ, trascritta in Italia all’interno del ms. H: entrambi i testi dovettero circolare nel XIII secolo nelle corti italiane e in ambiente veneto. Coincidenze tra i testi di Falquet de Romans e Raimon de Miraval si registrano anche nel comune ricorso ad alcune rime in -ai(s) ed in -ia: sia (BdT 156.14, v. 8, BdT 406.42, v. 14), verai (BdT 156.14, v. 21, BdT 406.42, v. 27), gelozia (BdT 156.14, v. 24, BdT 406.42, v. 5).
18. Il riferimento è all’eroe del romanzo in versi Floris e Blanchefleur. Il suo ricordo torna altre volte nel corpus di Falquet de Romans (cfr. in BdT 156.I, Domna, eu preing comjat de vos, i vv. 136-138: «qe Tristans fon vas Iseut fals / contra mi, e vers Blancheflor / Floris ac cor galiador») e in altri trovatori (se ne vedano gli elenchi in Mauro Braccini, Rigaut de Barbezieux, Le canzoni, Firenze 1960, p. 115 n. 1; Saverio Guida, Trovatori minori, Modena 2002, p. 314; Francesca Gambino, «Tant m’abellis e·m plaz (BEdT 30.IV)», in “Salutz d’amor”. Edizione critica del “corpus” occitanico, a cura di F. G., introduzione e nota ai testi di Speranza Cerullo, Roma 2009, pp. 354-377, a p. 371, n. 153.
19. Cfr. Peire Vidal, Pos tornatz sui en Proensa (BdT 364.37), vv. 5-6: «qu’ap servir et ab honrar / conquier hom de bon senhor»; Aimeric de Pegulhan, Chantar voill - per que? - ja·m platz (BdT 10.16), vv. 30-32: «cre me tu qe merseian / aman, sirven e preian / conquer hom amia». Servir-sofrir sono due predicati intercambiabili nel codice linguistico trobadorico: Gaucelm Faidit, Lo gens cors honratz (BdT 167.32), v. 96: «per gen sofrir en patz» (sofrir] servir IKT); Aimeric de Pegulhan, D’avinen sap enganar e trahir (BdT 10.18), v. 21: «qu’eu en diga, sufren ni ab servir» (sufren ni ab servir] sirven ni ab sufrir C, soven ni an sufrir EM, soffron et a servir IK). Nel caso specifico Arveiller - Gouiran propongono sufrir di E in luogo di servir, giustificandolo come una lectio difficilior, formando ossimoro con gen. La soluzione – ingegnosa – non può però, a mio giudizio, essere accolta per due ordini di motivi: anzitutto perché isolata nello stemma; e poi in quanto l’alternanza sufrir / servir è così diffusa da risultare normalissima e nel codice linguistico trobadorico l’espressione gen sufrir rinvia al medesimo campo semantico di gen servir.
21. Il verso compare identico in Blacatz, Lo belz douz tems me platz (BdT 97.6), v. 21: «car me trobet verai»; con qualche variante si legge invece in Giraut de Borneil, M’amia·m men’estra lei (BdT 242.48), vv. 31-32: «per que verai / m’a trobat, e fai parven», in cui comunque, come in numerosissimi casi, verai è in posizione rimica (una semplice ricerca sulla COM 2 consente di accumulare numerosissimi altri esempi.
28. Si vedano le Circostanze storiche.
29. La lezione, isolata e minoritaria e in quanto tale respinta, monfort di T, fa riferimento ad un «castle in Périgord (Dordogne)», citato anche da Bertran de Born, Pos Ventadorns e Comborns ab Segur (BdT 80.33, v. 3), e Un sirventes novel plazen (BdT 80.42, v. 42), e Torcafol, Membraria·us del jornal (BdT 443.3, v. 3), oppure un conte di Monfort, come suggerisce Frank M. Chambers, Proper Names in the Lyrics of the Troubadours, Chapel Hill, 1971, p. 190. Appare decisamente meno probabile l’identificazione con Simone di Monfort.
35. La lezione di T permette di recuperare uno iato in apertura di verso e in quanto tale si rivela difficilior; Alfred Jeanroy, recensione a Zenker, Folquet von Romans, Revue critique, 42, 1896, pp. 368-369, a p. 369, propose invece di conservare mestiers e cassare hi, per recuperare l’esatta misura metrica (che però si potrebbe anche ottenere facendo sineresi in auria). In ogni caso la soluzione più adeguata pare essere quella di mantenere la lezione trasmessa da T.
36. Zenker nella sua edizione stampa volia che è lettura propria di CE, ma che contrasta, per essere rima identica, con il v. 14. L’analisi della tradizione manoscritta sembra inoltre far propendere per la lezione di RT volria.
37-38. Ancora qui, come nel caso citato da Suzanne Thiolier-Méjean, Les poésies satiriques et morales des troubadours du XIIe siècle à la fin du XIIIe siècle, Paris, 1978, p. 88 n. 1, è l’avarizia ad opporsi a pretz. Tra gli esempi di questa locuzione, piuttosto frequente pur se non diffusissima, si veda quello citato in SW VI:257, tratto dalla Vida di Gaucelm Faidit: «E messir lo marques Bonifacis de Monferrat lo mes en aver et en raubas et en gran pretz, lui e sas chanssons».
37. Lombartz. Vale per ‘italiano del Nord’, in generale. Questo riferimento nasconde forse un ironico cenno alla proverbiale avarizia dei lombardi, la cui unica eccezione sarebbe stato appunto Bonifacio?
39. paire. Si tratta di Bonifacio II di Monferrato. Sul suo ruolo nelle crociate cfr., oltre alle Circostanze storiche, anche Gianfelice Peron, «Temi e motivi politico-religiosi della poesia trobadorica in Italia nella prima metà del Duecento», in Storia e cultura a Padova nell’età di Sant’Antonio, Padova 1985, pp. 255-299, alle pp. 270-271.
41. Romania. Indica genericamente l’impero bizantino. La citazione è piuttosto rara dacché la sola altra sua occorrenza ricorre in Senher marques, no·us vuelh totz remembrar (BdT 392.I), la lettera epica indirizzata da Raimbaut de Vaqueiras al marchese Bonifacio, vv. 36-38: «Et encaussei ab vos a Filopat / l’emperador qu’avetz dezeretat, / de Romania, e l’autre coronat». Più diffusa invece la sua presenza nelle Vidas, come dimostrano le biografie di Elias Cairel: «En Romania estet lonc temps», e Bertolome Zorzi: «et avenc se que quand el anava […] de Venecia en Romania».
43. Salonicx. I nomi di località, come noto, furono frequentemente storpiati dai copisti: così, ad esempio, Raimbaut de Vaqueiras, No m’agrad’iverns ni pascors (BdT 392.24), v. 63: «Sicar Montos e Salanicx» (Salanicx] sans leonicx U). Essendo Salanicx il nome esatto della città ellenica, si potrebbe anche considerare errore comune nei testimoni la lezione Salonicx, ma la variante, graficamente minima, sarà piuttosto poligenetica. Bonifacio fu investito della carica di signore del regno di Tessalonica nel 1204.
46. Impossibile stabilire con certezza di quale Malaspina si tratti, se cioè Guglielmo (1194-1220) o suo cugino Corrado I, ma propendiamo, per una molteplicità di indizi, verso il primo (vd. Circostanze storiche).
Edizione, traduzione e note: Gerardo Larghi. – Rialto 21.ii.2022
C 228v (Falq(ue)t d(e) roth.), E 132 (.../quet de...), R 15r (.Falq(ue)t de rotma(n)s.), T 182v (Folcet deroman).
Edizioni critiche: Carl Appel, Provenzalische Inedita aus Pariser Handschriften, Heidelberg 1880, p. 100; Rudolph Zenker, Die Gedichte des Folquet von Romans, Halle 1896, p. 46; Vincenzo Crescini, Manuale per l’avviamento agli studi provenzali, Milano 1926, p. 293; Raymond Arveiller et Gérard Gouiran, L’oeuvre poétique de Falquet de Romans, Aix-en-Provence 1987, p. 42; Gilda Caïti-Russo, Les troubadours et la cour des Malaspina, Montpellier 2005, p. 223.
Altra edizione: Vincenzo De Bartholomaeis, Poesie Provenzali storiche relative all’Italia, 2 voll., Roma 1931, vol. I, p. 235 (testo Zenker).
La tradizione appare assai compatta, mancando errori manifesti e comuni a tutti i codici che permettano di stabilire l’esistenza di un archetipo. Si possono invece individuare alcune famiglie. La prima potrebbe essere rappresentata da CER, uniti dalla lezione al v. 35 mestier, la quale rappresenta però più una variante adiafora che errore congiuntivo. Di contro Caterina Menichetti, Il canzoniere provenzale E (Paris, BNF, fr. 1749), Strasbourg 2015, pp. 39, 149-150, 199-200 e nota 39, ha individuato una fonte condivisa dai manoscritti ET «che emerge prevalentemente in corrispondenza di testi relati da un numero ridotto di manoscritti, tutti riferibili al Midi»: tale considerazione fu già di Raymond Arveiller - Gérard Gouiran, L’oeuvre poétique de Falquet de Romans, Aix-en-Provence 1987, p. 41, ma fu contestata, per la poesia che qui ci occupa, da Gilda Caïti-Russo, Les troubadours et la cour des Malaspina, Montpellier 2005, p. 224, la quale rimarcò che «au-delà des différences de lecture pour le vers 37, CRT s’opposent donc à E».
In realtà, a nostro parere la sola famiglia di cui si possa parlare è quella costituita da CR, i quali al v. 11 in luogo di qu’ieu leggono que (in sé si tratta di una variante adiafora, ma acquista evidente significato alla luce dei casi discussi di seguito); al v. 13 modificano il verbo devedar in demandar e l’avverbio che lo precede (iamais in iamais pus); al v. 33 leggono e, lezione peraltro deteriore rispetto alla concorrente mas. Infine, al v. 36: la lezione di CR rappresenta un errore per la mancanza di significato complessivo del verso: non si comprende, infatti, perché dovrebbe aver bisogno di un pic chi volesse lauzar tal ren (intendendo ren nel suo significato di persona).
Il testimone T, a sua volta, fa parte a sé, conservandoci talora la lezione, a mio avviso, esatta. Esso comunque ha errori che gli sono propri: v. 8, dove si tratta di confusione tra no·m e non, forse per una cattiva lettura di un tildo; v. 14: si registra ipometria, giacché in luogo di qu’ab lieis, T conserva solo puois, senza integrare la sillaba mancante; v. 29, dove T incorre in una evidente confusione di nomi: nella poesia di Falquet non può che essere questione del signore di Monferrato e non di quello di Montfort; v. 31: benché la lezione di T possa essere suddivisa in e savis risulta difficile considerare e come una voce di essere. Nel codice, perciò, manca il verbo: più probabilmente il copista è stato tratto in inganno da qualche legatura del suo antigrafo; v. 32, ove invece di bella si rinviene il maschile bel, con una incongruenza a livello logico sintattico, ed una lacuna metrica (ipometria). Quanto ad E, al netto di quel che emerge al v. 35, in nessun caso è apparentato da errori significativi ad altri testimoni. La comune discendenza di CERT da un unico ramo è quindi solo una ipotesi di lavoro sostenibile sulla base degli studi sulla tradizione manoscritta trobadorica. Abbiamo scelto C come ms. base per l’edizione.
Metrica: a7 b7 b7 a7 c7’ c7’ d7 d7 c7’ (Frank 584:7). Cinque coblas unissonans di 9 versi, seguite da una tornada di 4 versi. Rime: -es, -ay, -ia, -icx. La canzone è metricamente identica ad altre tre: Arnaut Plagues, Be volgra midons saubes (BdT 32.1); Bernart de Tot-lo-mon, Mals fregz s’es els rics crois mes (BdT 69.3); Uc de Saint Circ, Messonget, un sirventes (BdT 457.21). Proprio quest’ultima canzone-sirventese attribuisce l’invenzione del so a Arnaut de Plagues, la cui canzone fu inviata ad un re di Castiglia, che è stato identificato con Alfonso VIII o con Fernando III. Non si può escludere che a sua volta Falquet de Romans abbia fatto da tramite tra la struttura ideata da Arnaut de Plagues e Uc de Saint Circ, col quale è accomunato oltre che da talune somiglianze testuali nei rispettivi canzonieri, soprattutto dalla comune frequentazione di corti del Nord Italia. Un confronto incrociato rivela un intenso trapasso di rimemi tra le poesie stesse.
Canzone-sirventese che, secondo i canoni del genere, dedica una parte delle strofe alla lode della dama, ed una seconda parte al marchese di Monferrato, composta attorno al 1212. Si vedano le Circostanze storiche.