Il rilievo assicurato nella canzone-sirventese alla crociata suggerisce di porne l’ideazione in un momento in cui tale argomento doveva avere una particolare importanza nella pubblica opinione, nonché nella vita dei destinatari primi di questo testo, e cioè Federico II ed Ottone del Carretto, senza comunque sottovalutare il ruolo, qui nascosto, di Guglielmo di Monferrato. L’invio a Ottone del Carretto (vv. 63-69), dimostra che i versi furono certamente cantati tra 1220 e 1226, vale a dire dopo l’incoronazione di Federico II (come apertamente dichiarano i vv. 45-46), e durante il soggiorno del poeta di Romans presso la corte aleramica.
I del Carretto derivarono il loro nome da un castello posseduto a Cairo Montenotte. Ottone, l’avo del Nostro, fu esponente di parte ghibellina e alleato di Federico Barbarossa, tanto da risultarne plenipotenziario alla firma della pace di Costanza (1183). Alla morte di Enrico, suo figlio, la divisione testamentaria coinvolse i due figli Ottone e Enrico II (gli altri due maschi erano stati destinati alla carriera ecclesiastica, tant’è che divennero in successione i vescovi di Savona): Cairo, con Rocchetta, Carretto, Scaletta, Cortemilia, Castino, Trezzo e Savona, toccarono ad Ottone, mentre Enrico II prese possesso dell’area di Noli e Finale, dell’alta Valle della Neva e dell’alta Val Bormida.
Il più antico documento in cui rinveniamo il nome di Ottone risale al 1181, mentre il più recente è del 4 febbraio 1241. Lo si incontra, infatti, tra coloro che assistettero all’atto con cui il 7 luglio 1181 a Alba il marchese Manfredi II di Saluzzo condusse negoziati con gli abitanti di Alba (Tallone 1906, c. 72). Fu podestà a Genova nel 1190, nel 1194, a Savona nel 1220. Ottone si vide costretto a cedere i diritti che vantava su Savona, con atto ufficiale del 10 Aprile 1191. Si trasferì quindi in Val Bormida assumendo il titolo di Marchese del Carretto, dal nome di una località nei pressi di Cairo. Il 6 luglio 1209 cedette Cortemilia e i paesi vicini al Comune di Asti in cambio di una somma di denaro, mentre il 5 luglio 1214 cedette la sovranità (e dunque l’alto dominio) sui paesi valbormidesi (tra cui «Castrum Carii, Vignarolio, medietatem montis Cavilionis, medietatem de Carcaris, de Runchi de Mallo, de Bauzilis et castrum quod vocatur Deus»: su ciò Provero 1994). Il successivo 16 luglio 1214 a loro volta i consoli del Comune di Genova diedero al marchese Ottone I Del Carretto e a Ugo suo figlio, l’investitura feudale di Cairo, Carretto, Vigneroli, e metà di Carcare, con l’impegno però di restituirli in caso di richiesta da parte della città.
Nel 1220 fu ospite presso la corte di Federico II, tanto che il suo nome si ritrova in un documento del 25 novembre col quale Federico II, appena eletto imperatore, regolò alcune questioni relative al comune di Poggibonsi (Provero 1994): nelle settimane successive dovette seguire la corte imperiale nei suoi spostamenti, giacché di tale soggiorno abbiamo traccia il 16 dicembre (Böhmer 1881, p. 37). Nel 1224 Ottone cedette al Comune di Savona i diritti di pedaggio in Cairo e in Carcare. Importante, invece, dal rispetto degli equilibri di potere e della gestione patrimoniale la decisione con cui nel 1233 Ottone fece remissione ai cittadini di Cairo dei diritti di fodro e di maletolta, ricevendo il giuramento di fedeltà da parte della comunità e la facoltà che, due anni più tardi, Ottone Del Carretto concesse agli abitanti di Cairo di fare testamento («testare») a favore di eredi diretti (figli, fratelli, genitori), pagando una modesta somma («modico pretio»), oltre che di alienare (vendere, donare) i beni immobili a terzi, pagandogli la dovuta somma, e di andare al pascolo senza costi («sine fictu et aliqua dacita») in alcuni suoi terreni. Tali conferimenti rientrano in un percorso politico che da tempo Ottone andava costruendo in vista del rafforzamento del proprio territorio e del proprio dominio. Parte del consolidamento prevedeva la formalizzazione dei rapporti con i comuni, laddove almeno questi organismi istituzionali fossero politicamente strutturati, com’era il caso di Cairo («in burgo Carii») che già da tempo era retta da una Comunità organizzata («populo sive Communi Carii»), che rivendicava i diritti (allora detti « privilegi ») delle popolazioni in deroga (anzi in contrapposizione) ai diritti dei feudatari, tanto che, come si legge nella concessione, si rivolge (Provero 1994).
Il marchese era ancora vivo il 5 novembre 1235 quando Guglielmo Embriaco Negro, membro della nota famiglia genovese, promise a Fra’ Millone de Buxono priore di Lombardia degli Ospedalieri di San Giovanni, di pagare cento lire di genovine a saldo dell’acquisto del castello gerosomilitano di Rocchetta Cairo, ceduto dagli Ospedalieri al marchese Ottone del Carretto per potenziare il suo patrimonio e la sua difesa (Archivio di Stato di Genova, Atti not. maestro Salomone, Cartul. 15, II, f. 88r: Ferretto 1906-1910, pp. 120-121): nel 1237 fu arbitro in una disputa tra il Comune di Asti e i signori di Calamandrana e di Canelli. È l’ultima notizia che abbiamo di lui. Morì in ogni caso prima del 1242.
Al periodo tra 1220 e 1226 potrebbe doversi far risalire un altro testo nel quale risalta con evidenza il nodo che legava la crociata agli Hohenstaufen ed ai Monferrato e che è situabile almeno tra l’ultimo quarto del XII secolo e la quinta spedizione crucesignata. Ci riferiamo a Bernart, di me Falqet, q’om tient a sage (RS 37a), una canzone di crociata frutto dell’estro poetico di Hugues de Berzé, nobile borgognone che fu in relazione con Conon de Béthune ma anche con Falquet de Romans. La canzone è appunto dedicata a quest’ultimo, ed in essa si allude ad un marchese di Monferrato, oltre che all’imperatore Federico. Al problema dell’identità di questo marchese aleramico è legata ovviamente anche la datazione dei versi: a seconda che si pensi a Corrado di Monferrato oppure a Bonifacio I, li si potranno collocare nei primissimi anni del XIII secolo ovvero dopo il 1220. La tradizione manoscritta della lirica lascia aperta la questione. A favore della prima ipotesi si è schierato l’ultimo editore, Barbieri 2001; la seconda proposta invece, più antica, è stata richiamata da Larghi 2006.
Opinione comune è che Hugues avrebbe ideato la canzone nel 1201, inviandola a Bonifacio I di Monferrato per esortarlo a partire verso la crociata, insistendo nel contempo perché anche Falquet prendesse la croce ed attraversasse il mare: il trovatore di Romans a quell’epoca svolgeva ancora il mestiere di giullare come prova il v. 8: «qar a la fin es for de iuglaria».
Sia che la riscrittura vada riconosciuta come opera di Hugues de Berzé, sia che egli abbia composto direttamente i versi in questione dopo il 1220 (improbabilissimo), sia, infine, che dopo il 1220 qualcuno (altri che il nobile borgognone), abbia ripreso il testo, è però sicuro che, alla corte del Monferrato e certo dopo il 1220-1221, dovette circolare il testo di Bernart, di me Falqet, q’om tient a sage. Più prudenti occorre invece essere in merito a un eventuale rimaneggiamento che il testo avrebbe subito in vista di un suo ‘ammodernamento’ e di cui sarebbero testimonianza alcune lezioni, della cui volontarietà non vi è, come detto, però certezza perentoria. Si tenga inoltre conto che lo stesso Hugues stese in Italia l’altra canzone di crociata S’onques nuns hons por dure departie (RS 1126), come dimostrano, se non vado errato, i versi 17 e 25 (una conferma in Barbieri 2001, p. 248, il quale comunque ne sottolinea la incerta paternità).
Per tornare a Aucels no truob, chantan, una prima ipotesi potrebbe essere quella di collocarne la composizione nell’immediato ridosso della partenza di Federico II verso le terre oltremare, e cioè tra 1226 e 1227, ma tale ipotesi perde buona arte della sua consistenza quando si consideri che Falquet de Romans nel 1226 doveva forse già trovarsi in Provenza (come dimostra Quan cug chantar eu planc e plor, BdT 156.11).
Tra 1221 e 1225 il rapporto tra gli ambienti aleramici e la corte papale fu particolarmente intenso soprattutto in vista della spedizione crociata che Guglielmo VI di Monferrato stava organizzando e alla quale, tra numerose difficoltà principalmente di ordine politico ed economico, indirizzò ogni sua attenzione. I documenti ci mostrano Guglielmo intento a tessere pazientemente una rete di rapporti e relazioni che gli consentiranno di raccogliere aiuti e sovvenzioni tali da sostenere la spedizione. In particolare, la nostra attenzione è attirata dall’intensità e frequenza dei contatti che in quegli anni si andarono creando tra gli ambienti aristocratici piemontesi e la Provenza: sono noti, infatti, sia il matrimonio tra Beatrice di Savoia e Raimondo Berengario V di Provenza, sia la nomina di Guglielmo VI a vicario di Arles nel dicembre 1220. In parallelo si nota l’attenzione quasi parossistica che il pontefice mostrò verso il mondo provenzale in chiave di promozione dell’iter ultramarinum: il 30 dicembre 1221, scrisse a Guglielmo di Belfort, a Guido di Briançon e altri per confermare la promessa fatta loro da Guglielmo di Monferrato di 400 marchi d’argento per la crociata: la somma doveva già essere stata assegnata poiché il pontefice ingiunse ai destinatari di partire se non volevano restituire i soldi al marchese (Gallina 1985, p. 71).
A cavallo tra 1221 e 1222 Guglielmo VI, a nome della camera apostolica, promise 1000 marchi a Guglielmo Delfino di Montferrand, il figlio del più famoso trovatore Delfino d’Alvernia; il 13 maggio 1223 Onorio III, da parte sua, inviò una lettera nella quale accordava l’indulgenza plenaria a coloro che avrebbero accompagnato Guglielmo VI: una versione speciale della Bolla venne poi inviata al signore di Tanlay, Guglielmo di Courtenay, che voleva partecipare alla spedizione con un folto gruppo di signori francesi. Guglielmo era fratello di Pietro II di Courtenay, l’imperatore scomparso nel 1219 ma sul quale continuavano a circolare voci che lo volevano ancora in vita. Tale era anche l’opinione sia di Guglielmo sia della corte e del Papa (Horoy 1879-1882, t. 4, nn. 129, 130).
Lo stesso 13 maggio 1223 Onorio III, con un’altra lettera, concesse l’indulgenza al nobile provenzale, nonché funzionario della corte comitale di Raimondo Berengario V, Guglielmo di Cotinhac, e a quelli che con lui si sarebbero recati in Grecia per portare aiuto a Guglielmo di Monferrato nel difendere il regno di Tessalonica che, si legge nel testo, appartiene a lui haereditario jure. Quest’ultimo particolare è piuttosto curioso, giacché lo stesso Onorio III aveva ripetutamente accordato la propria protezione a Demetrio di Monferrato, fratello per parte di padre del marchese, ed erede diretto del regno di Tessalonica: sia il 12 agosto 1216 sia il 13 e 14 aprile del 1217, infatti, il pontefice si era espresso in favore del giovanissimo figlio di Margherita d’Ungheria. Come mai un tale mutamento di cui le lettere papali sono testimoni indiscutibili?
Occorre contestualizzare l’epistola. Il Papa in quel momento, siamo nel 1223, stava chiedendo all’arcivescovo di Arles di predicare la crociata promettendo la «amplissimam peccatorum veniam». In quel contesto assegnare uno «haereditario jure» a Guglielmo, significava caricare su costui le stimmate cristiche, farne cioè un alter Christus. Non a caso la riconquista di questi territori, aggiunge il pontefice, «grandem potest utilitatem afferre, considerantes etiam, quo corroboratio status imperii multum est utilis negotio Terrae Sanctae», e più avanti, significativamente, «amplissimam peccatorum veniam a se illis Arelatensem episcopum per provinciam suam et aliosque, uti credere dignum est, per alia loca promulgare jubet, de qua etiam peccatorum venia haec ad virum nobilem V [....] Cotinacensem scripsit: Dilectus filius nobilis vir Willelmus marchio Montisferrati ad defensionem regni Thessalonicensis, quos ad ipsum haereditario jure noscitur pertinere magnanimiter se accingens, proposuit coram nobis, te ad eundem cum ipso promptam gerere voluntatem. Nos igitur attendentes, quod ejus accessus ad parte illas toti Constantinopolitano Imperio grandem potest utilitatem afferre, considerantes etiam, quo corroboratio status imperii multum est utilis negotio Terrae Sanctae, tibi et iis, qui tecum transibunt in Graeciam in ejusdem auxilium marchionis, peccatorum, de quibus vere contriti fueritis et confessi, plenam veniam indulgemus» (Baronio - Rinaldi 1738-1746, t. 1, pp. 299-300). Il Guilhelm de Cotinhac di cui il pontefice parla era un personaggio di rilievo della corte di Raimondo Berengario V, e compare in alcuni documenti al fianco di Raimbaut de Beljoc. Quanto a Corrado di Monferrato, il suo nome ritorna in una lettera spedita da Chivasso il 4 agosto 1239 da Federico II, nella quale lo Hohenstaufen cede a Bonifacio II i diritti che egli vantava su Tessalonica. Insieme al padre, anche Corrado di Hohenstaufen, «rinuncia ai diritti che – in quanto nipote di Corrado di Monferrato – gli spettavano Outremer» (cfr. Haberstumpf 1989, p. 76, n. 159). In sostanza l’ereditarietà, e quindi il diritto al possesso, delle terre guglielmine, diventa prodromica alla riconquista di quella Terra Santa che è di Cristo come, non a caso, con insistenza si legge nelle canzoni di crociata (e in fondo anche nel nostro testo a ciò alludono i vv. 50-54). Guglielmo VI diviene, in tale prospettiva, l’incaricato stesso di Cristo, il suo devoto servitore, colui al quale è stato affidato il compito più prezioso, riconsegnargli ciò che è stato perso per i peccati di altri.
Come se non bastasse l’intensa attività diplomatica pontificale nei confronti della Provenza si concretizzò il 14 maggio 1223 con una missiva spedita al vescovo di Arles incaricandolo di rendere nota l’indulgenza concessa a quei crociati che con Guglielmo fossero andati in spedizione (Gallina 1985, p. 73). Quanto la Provenza fosse centrale nella visione del Pontefice, lo dimostrano anche le epistole spedite il 7 e l’8 febbraio 1224 da Onorio III agli arcivescovi ed ai fedeli delle diocesi di Arles e del Nord Italia (sulle quali cf. Claverie 2013), nelle quali li si esortava ad accompagnare Guglielmo di Monferrato ed a soccorrere il regno di Salonicco, oltre a domandare all’imperatore di Costantinopoli, e a Uberto di Biandrate (Gallina 1985, p. 74), Roberto di Courtenay, e al principe di Morea, Geoffroy de Villehardouin, di prestare soccorso a Guglielmo di Monferrato (Haberstumpf 1989, nn. 133-141). Si trattava del lancio di una vera e propria campagna di predicazione, e le fonti coeve ci dicono che fu raggiunto l’intento che ci si riprometteva, giacché a Marsiglia sarebbero state raccolte oltre 30000 adesioni.
A tutto ciò si aggiunga che nel 1223 fu convocato un incontro internazionale a Ferentino ove la corte papale era stata trasferita per giudicare della condotta di Pelagio d’Albano, colui al quale era stata affidata la guida della quinta, e fallimentare, crociata. Lì si recarono anche Guglielmo VI e suo fratello Demetrio, con l’arcivescovo di Salonicco, Garin, i quali erano in cerca di soccorsi in Occidente per le terre di Tessalonica. La loro presenza fu tutt’altro che di secondo piano, giacché il Papa riconobbe lo statuto di crociata alla spedizione che Guglielmo si proponeva di organizzare per proteggere le posizioni avanzate dell’impero latino di Costantinopoli. Non fu quella la sola vittoria politica ottenuta da Guglielmo, giacché egli rimase al fianco di Federico II per un lungo periodo di tempo (Huillard-Bréholles 1852-1859, vol. 2,1 pp. 328-329, nonché gli atti successivi).
Questa costante presenza, non servì solo ad accompagnare il sovrano e a rafforzare la tradizionale alleanza fra i marchesi monferrini e lo Hohenstaufen, bensì dovette essere l’occasione per tessere alleanze per l’Aleramico: con il consenso del pontefice Onorio III, e su proposta di Hermann von Salza, gran maestro dell’ordine Teutonico e fedele consigliere degli Staufen, fu deciso il matrimonio tra Federico II di Svevia e Isabella di Brienne, figlia del re di Gerusalemme Giovanni di Brienne e di Maria di Monferrato, e che dunque era imparentata con Guglielmo VI. Evento tanto più significativo se, come suggerisce Formisano 1998 nel tracciare un rapido scenario dei rapporti tra Oltralpe e Italia (del Sud ma anche del Nord), potrebbe aver favorito la circolazione di materiale lirico d’oil in «une cour qui a été normande avant de devenir souabe», sottolineando il ruolo «de la reine Isabelle, deuxième femme de Frédéric, fille de Jean de Brienne, roi de Jérusalem». E se «Isabelle n’a régné que trois ans (de 1225 à 1228); si Jean lui-même n’a fait que de brefs séjours en Italie – le plus long entre les années 1225 et 1230» rimane fermo tuttavia che questi nomi, prosegue Formisano, ci introducono «dans un milieu géographique et politique particulièrement fécond pour l’échange d’expériences poétiques entre le Nord et le Sud de la France» (cf. Habertstumpf 1991, pp. 120-121).
Grazie ad Isabella, nipote di Corrado di Monferrato, regina e imperatrice, la famiglia piemontese riacquistava nuovo ruolo nel complesso scacchiere politico (Haberstumpf 1995, pp. 86-87). Da quel momento, perciò, ed almeno fino al 7 settembre 1226 data del decesso di Guglielmo e del fallimento della spedizione (nel 1228 invece scomparve la giovane moglie di Federico II), il nodo Aleramici – Corrado re di Gerusalemme – Federico – Francia del Nord – crociata tornò di strettissima attualità politica. Cosa possiamo trarre invece dall’esame dei documenti e delle fonti storiche che ci relazionano dei rapporti tra Ottone del Carretto e l’imperatore?
Sappiamo che l’esponente della famiglia ligure-piemontese doveva trovarsi nella corte imperiale nei giorni immediatamente successivi alla incoronazione ed è quindi presumibile che egli abbia fatto parte del corteo che accompagnò il sovrano fino a Roma, raggiungendolo durante il suo itinerario. Forse doveva trovarsi in compagnia di Guglielmo VI allorché costui, il 25 ottobre 1220 a Santarcangelo di Romagna comparve presso la corte imperiale (Huillard-Bréholles 1852-1859, 1/2, pp. 879-880). Di sicuro era ospite dello Staufen il 25 novembre quando costui prope Romam rilasciò un diploma in merito agli jura communi Podii Bonitii (Huillard-Bréholles 1852-1859, 2/1, p. 37). La presenza di Ottone potrebbe non essere casuale considerando la sua esperienza come podestà e il fatto che il documento riguardi la facoltà concessa dall’imperatore «communi Podii Bonitii consules eligendi […], plura jura sua sub certis conditionibus eis remittit»: prima di Ottone nella lista compaiono Guillelmus marchio Montisferrati e, penultimo, Conradus marchio Malaspina).
L’atto successivo attestante le relazioni tra i due, invece, è del 7 maggio 1226, allorquando Ottone del Carretto, con l’incarico di delegato imperiale insieme a Manfredi Lancia di Busca, procedette, per ordine di Federico II a far restituire dal comune di Vercelli i danni arrecati alla Chiesa di Casale, e non avendo i vercellesi obbedito, li sottopose al bando dall’impero e alla pena di 1000 libbre d’oro (Gabotto - Fisso 1907, v. 1, c. 128; Böhmer 1983, V,4,6 n. 284). Tra questi due estremi si collocano i documenti che parlano di una concessione di Ottone nel 1223 in favore del monastero di Casanova, fondazione cui tradizionalmente era legata la devozione famigliare dei marchesi (Tallone 1903, c. 197); e di un «foedus ab Ottone Marchione de Carreto Curtismiliae cum Astensibus» (Moriondo 1789, t. 2 col. 654, n. 92) stipulato nel 1225; o ancora, ma meno significativo per quanto sia pur sempre un elemento da tener presente al fine di una datazione della nostra canzone-sirventese, la nomina di Percivalle Doria a podestà di Savona, il capoluogo attorno a cui ruotavano una parte consistente degli interessi economici dei Carretto e, sempre del genovese, nel 1228 a podestà di Asti. Nella guerra tra Genova e Alessandria Percivalle fu dunque al fianco del capoluogo ligure con Tommaso di Savoia (padre della Beatrice moglie di Raimondo Berengario V, cantata da Falquet de Romans e da Blacatz, oltre che lei stessa probabile autrice di una cobla), e Ottone ed Enrico del Carretto.
Nella datazione della poesia ci aiutano anche altri fattori, quali il concentramento nel quinquennio tra 1220 e 1225 delle allusioni di Falquet alle spedizioni contro gli infedeli. Lo comprovano, ad abundantiam, i versi di Quan cug chantar eu plang e plor (BdT 156.11) in cui, curiosamente, il romanense inserì anche un ricordo, diretto e vivo, della podestaria come esperienza istituzionale dei municipia italiani, nonché una critica ai rics malvaç ed al tema della ereditarietà che ricorda da vicino i vv. 56-62 di Aucels no truob, chantan; si citeranno anche Cantar vuoill amorosamen (BdT 156.3), spedita attraverso il giullare Ogonet a Federico, ma anche dedicata a Ottone del Carretto, e Far eu ay un sirventes (BdT 156.6).
Insomma, una pluralità di elementi spinge a individuare nel triennio che va dal 1222 alla primavera del 1225, tra la caduta di Salonicco cioè e quando Guglielmo raggiunse Brindisi pronto alla partenza per oltremare, il periodo in cui più alta fu l’attenzione verso la spedizione crociata piemontese in Grecia: a nostro avviso però converrà situare la composizione di Aucels no truob tra 1224 e 1225, cioè pochi mesi prima della partenza di Falquet verso dal Rodano e all’indomani della caduta di Salonicco (Longnon 1950); in ogni caso riteniamo che questa lirica possa risentire del clima di esaltazione che si venne a creare dopo il 1223, all’indomani del conventum di Ferentino, quando fu visibile a tutti il rinnovato ruolo politico internazionale del lignaggio marchionale aleramico.
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