Zenker 1896 e de Bartholomaeis 1931, vol. I, p. 235, fecero risalire Una chanso sirventes (BdT 156.14) di Falquet de Romans agli anni fra il 1212 ed il 1220, i soli in cui Federico fu re di Germania e d’Italia (prima di divenire imperatore): tali termini andranno però accettati con qualche precisazione, dato che lo Hohenstaufen fu re di Sicilia a partire dal 1198 e re dei Romani fin dalla nascita. Il titolo gli fu riconosciuto in diversi documenti e in tale modo è ricordato anche dai suoi avversari. Sulla base delle relazioni con le altre poesie è lecito collocare questo testo non molto tempo dopo l’inizio del viaggio di Federico II in Germania.
Un primo elemento utile alla datazione della canzone sirventese ci è fornito dalla domna cui i versi sono diretti e che a partire dai precedenti editori è stata identificata con Beatrice di Monferrato, la figlia di Guglielmo VI: in tal caso la lirica andrebbe collocata nelle settimane comprese tra il 15 novembre 1220, quando Guglielmo ritornato nelle sue terre dalla missione in Germania, ricevette la promessa di Guigo Andrea, delfino di Vienne, di sposare sua figlia Beatrice (Savio 1885, p. 109), e il 22 novembre 1220, quando il nobile piemontese era certamente a Roma ad assistere alla solenne cerimonia di investitura imperiale (come, sulla scorta di De Bartholomaeis 1931, vol. I, pp. 235-236, hanno fatto Arveiller - Gouiran 1987, p. 41, e Caïti-Russo 2005, p. 223). La contessa aleramica potrebbe essere stata la dedicataria anche di Ieu no mudaria (BdT 156.5), vv. 49-52: «Comtessa am cortezia, / largua e pros, / mas chansos / fauc e sian lai ab vos».
In secondo luogo, la citazione della città di Salonicco in un testo diretto alla famiglia degli Aleramici di Monferrato rievoca l’investitura nel 1204 di Bonifacio II, il padre di Guglielmo VI, alla carica di signore del regno di Tessalonica (Haberstumpf 1989; Larghi 1995, pp. 383-389; Haberstumpf 1995; Haberstumpf 2009, pp. 23-33). Per quanto egli non abbia mai portato il titolo di re, preferendogli sempre quello di marchese del Monferrato, l’aspirazione ad una sovranità regale fu la principale ragione che spinse i nobili piemontesi alla avventura oltremare. Avventura mal finita: sulle sue imprese e sul suo ruolo nella spedizione, si vedano Longnon 1948, pp. 45-59; e Longnon 1978 pp. 227-234; mentre per un quadro innovativo, preciso e informato dei rapporti che si stabilirono in Oriente tra i crociati piemontesi, i trovatori, e gli altri protagonisti di quella avventura, Lachin 2004.
Un ulteriore indizio, più preciso, che ci consente di situare l’ideazione della poesia e di decrittare le allusioni che essa contiene ci viene dalla frase attribuita a Federico e riportata da Falquet nei versi 35-36: «que obs hi auria / qui l’aver trair’en volria». Non esistono altre fonti che ci confermino una tale esplicita rimostranza da parte dello Hohenstaufen, il quale potrebbe però far riferimento a una sua specifica vicenda personale. Non si può certo neppure escludere l’ipotesi che il poeta romanense attribuisca qui alla massima autorità del tempo – nonché al referente politico dello stesso Guglielmo VI – una espressione che costui non pronunciò mai, ma che rispecchiava invece le dicerie e i pettegolezzi delle corti italiane; la precisione del dettato e alcuni particolari ci inducono a ritenere che essa possa davvero essere stata enunciata e che la vittima dell’avarizia (o piuttosto della crisi economica e finanziaria) di Guglielmo VI fosse lo stesso futuro imperatore.
Lo Hohenstaufen, che era re di Sicilia dal 1198, e divenne re d’Italia e Germania nel 1215 (precisamente dal 25 luglio di quell’anno), nonché imperatore dal 1220, fu frequentemente citato dai trovatori, e secondo Palermo 1969, p. 72, alla sua corte potrebbe essersi fermato lo stesso Falquet, circostanza tutta da dimostrare, come per l’ipotesi che Falquet abbia assistito alla cerimonia di incoronazione del figlio di Costanza d’Altavilla, così come parrebbe emergere da Far eu ai un nou sirventes (BdT 156.6). La frase in questione, però, pur inquadrandosi perfettamente nel profilo di Federico II che ci hanno lasciato le fonti storiche, esula dalle consuete considerazioni che i trovatori fecero su di lui, e invece si inserisce nel quadro storico determinato dal viaggio che Federico II nel 1212 intraprese per spostarsi dall’Italia verso i suoi domini di Germania. I rapporti tra Federico stesso e Guglielmo VI, infatti, sono ampiamente attestati ma subirono una evidente evoluzione dato che in una prima fase fu Federico II ad aver bisogno di denaro (il che potrebbe giustificare la frase che il futuro imperatore avrebbe pronunciato e di cui Falquet ci darebbe testimonianza), mentre la situazione si ribaltò completamente poco più di una decina di anni dopo, tanto che Guglielmo VI dovette impegnare con Federico II per ottenere da costui il prestito necessario a partire per la Grecia (cfr. il documento pubblicato da Cancian 1983, alle pp. 729-731, nonché Settia 1991, pp. 417-443).
Più precisamente un prolungato contatto fra il futuro imperatore e suo cugino il marchese di Monferrato è documentato nei mesi di maggio-luglio del 1212, quando il nobile alemanno raggiunse Genova e iniziò un veloce percorso di spostamento verso le terre filo imperiali venete. Un cronista, citato da Fasoli 1964, p. 50, descrive così la sua uscita dalla città il 14 luglio 1212, con altri partigiani dello Svevo: «Die autem veneris XIIII mensis iuliis dictus puer de Scicilia cum legato summi ponteficis et marchione de Monferrato et comite de Santo Bonifacio et Papiensium et Cremonensium ac quibusam aliis Ianuam exivit». Quel medesimo corteo guidò Federico attraverso le terre aleramiche fino ad Asti e da lì mosse verso Pavia, consentendo allo Hohenstaufen di proseguire verso la Germania. Noi non sappiamo se Falquet de Romans abbia davvero accompagnato il futuro imperatore nel suo itinerarium attraverso l’Italia del Nord, ma con buona probabilità egli doveva aver trovato ospitalità, in quegli anni così delicati, presso le corti del signore d’Este o del conte veronese di San Bonifacio, se non abbiamo sbagliato nell’individuarlo in quel Falqetus che a Verona nel 1208 rogò un atto a fianco del collega e trovatore Peire de la Mula (cfr. su ciò Larghi 2015, pp. 25-42). Questo indizio, sommato a quanto emerge da Far eu ai un nou sirventes (BdT 156.6), ci conforta nel supporre che Falquet accompagnasse il corteo di signori veronesi e estensi che garantì il buon andamento del viaggio del giovanissimo figlio di Enrico VI attraverso le terre, infide e per nulla compatte in suo favore, del nord Italia.
Durante tale viaggio, ed è questo il punto che ci interessa, il giovane Hohenstaufen fu rifornito di denaro solo due volte: una prima a Roma dal Pontefice, ed una seconda dalla città di Cremona, i cui rappresentanti, abbiamo visto, furono al fianco di Guglielmo VI e del marchese di San Bonifazio fin dall’arrivo in Liguria del giovane erede al trono imperiale. In questo clima si collocherebbe perfettamente il motto pronunciato dal sovrano e si spiegherebbe anche quanto afferma Falquet stesso e cioè che in quel momento egli si trova presso il signore di Monferrato Guglielmo VI (cfr. i vv. 28-30: «De mon senhor lo marques / de Monferrat vos diray / que mal m’er quan m’en partray»), di cui sia biasima le ristrettezze economiche sia rimpiange la partenza del padre Bonifacio II.
Tutto sommato, in conclusione, preferiamo collocare questi versi intorno al 1212, piuttosto che verso la fine di quella medesima decade. Infatti, la frase dovrebbe potersi leggere, o almeno così pare a noi, come un motteggio dipendente da una richiesta di Federico a Guglielmo, e nessuno tra gli altri momenti storici in cui risultano esservi stati contatti tra lo Svevo e l’Aleramico presenta caratteristiche tali da convincerci che possa essere stato all’origine del motto pronunciato dal futuro imperatore. Dall’11 al 30 novembre 1215, infatti, alcuni documenti ci informano che Guglielmo intervenne al concilio Lateranense prendendo le parti di Federico contro Ottone IV, cui invece i municipia di Milano, Vercelli e di altre città lombarde erano rimaste fedeli, ma la questione fu tutta politica e non risultano richieste economiche di Federico al signore piemontese. Identica situazione si registrò quando un anno più tardi, nel dicembre 1216, l’Aleramico raggiunse lo Hohenstaufen dapprima a Norimberga, per poi spostarsi con lui a Wimpfen e a Ulma: da qui, nell’aprile 1217, fu inviato a Roma presso il papa in una ambasceria di cui facevano parte anche l’abate di S. Gallo, il decano di Spira e il castellano di San Miniato: nulla lascia intendere, infatti, che i rapporti tra Federico e Guglielmo possano, in quelle circostanze, aver dato adito alla arguzia sveva.
Lo stesso può dirsi anche per il successivo incontro tra i due, risalente ai primi giorni di gennaio 1218 a Wimpfen, o per quanto concerne l’incarico che Federico II nel maggio dello stesso anno gli affidò di accompagnare in Italia il vicario imperiale appena nominato, cioè il vescovo di Torino Giacomo di Carisio. Sempre più, comunque, la figura di Federico acquisisce forza e spessore e sempre meno Guglielmo è in condizioni di dargli aiuto: anzi quando il 10 febbraio 1219 il nobile monferrino fu di nuovo a Spira presso l’aula regale, ottenne da Federico il 21 del mese una conferma dei suoi diritti su Paciliano, Torcello e Coniolo col relativo ponte sul Po, in opposizione ai Vercellesi. Guglielmo era ormai un esponente di rilievo del partito svevo, tanto da aver partecipato alle Diete di Spira e di Hagenau, e da essere certamente stato parte del corteo che dalla Germania mosse verso Roma per l’incoronazione imperiale, ma ancora una volta non si comprende perché Federico dovrebbe aver scherzato sulla tirchieria del suo parente.
Poco possiamo, invece, trarre, dalla tornada e dalla citazione che ci si fa del signore di Malaspina: Falquet frequentò certamente le aule della famiglia tosco-emiliana, ma allo stato attuale è impossibile stabilire di quale Malaspina si parli al v. 46, se cioè Guglielmo (1194-1220) o suo cugino Corrado I (1197-1253). Se però consideriamo che quest’ultimo risulta citato solo in tre occasioni dai trovatori, mentre suo cugino è molto più presente nelle 27 liriche trobadoriche ideate tra 1212 e 1220, massimo momento di fulgore della corte (Caiti-Russo 2004, pp. 37-58, e 2005), è possibile presumere che Falquet de Romans faccia qui memoria di Guglielmo Malaspina: tanto più che i suoi versi dovevano suonare ironicamente alle orecchie del pubblico di ascoltatori, solo che si consideri che mentre pochissimi anni prima i Malaspina facevano, nelle liriche d’oc, la figura dei parenti poveri e malmessi dei potentissimi Aleramici, da qualche anno invece la situazione si era ribaltata.
Il contesto generale nel quale avvennero i fatti compresi tra 1215 e 1220, quindi, ci sembra meno adeguato ad “ospitare” la frase in questione rispetto a quello che si sviluppò nei mesi estivi del 1212. Tanto più che la data più alta spiega anche l’allusione, almeno implicita, alla morte di Bonifacio di Monferrato, personaggio cui si accenna ai vv. 39-40, e scomparso nel 1207: ricordarlo quasi un quindicennio dopo non sarebbe certo stato privo di senso, ma diciamo, avrebbe avuto una efficacia minore. L’assenza di riferimenti al titolo imperiale obbliga pertanto a situare entro il 1220 l’ideazione di Una chanso sirventes, ma una pluralità di indizi ci induce a situarne la creazione attorno al 1212.
Arveiller - Gouiran 1986
Raymond Arveiller - Gérard Gouiran, L’oeuvre poétique de Falquet de Romans, Aix-en-Provence 1987.
Caïti-Russo 2004
Gilda Caïti-Russo, «I Malaspina e la poesia trobadorica: una questione da riaprire», Studi mediolatini e volgari, 50, 2004, pp. 37–58.
Caïti-Russo 2005
Gilda Caïti-Russo, Les troubadours et la cour des Malaspina, Montpellier 2005.
Cancian 1983
Paola Cancian, «La carta di mutuo di Guglielmo VI di Monferrato a favore di Federico II. Un contributo paleografico alla toponomastica piemontese», Bollettino Storico Bibliografico Subalpino, 81, 1983, pp. 729-749.
De Bartholomaeis 1931
Vincenzo De Bartholomaeis, Poesie provenzali storiche relative all’Italia, 2 voll., Roma 1931.
Fasoli 1964
Gina Fasoli, Aspetti della politica italiana di Federico II, Bologna 1964.
Haberstumpf 1989
Walter Haberstumpf, Regesto dei Marchesi di Monferrato di stirpe aleramica e paleologa per l’Outremer e l’Oriente, secoli XII - XV, Torino 1989.
Haberstumpf 1995
Walter Haberstumpf, Dinastie europee nel Mediterraneo orientale. I Monferrato e i Savoia nei secoli XII-XV, Torino 1995.
Haberstumpf 2009
Walter Haberstumpf, «Bonifacio di Monferrato e il mondo greco», in Bonifacio, marchese di Monferrato, re di Tessalonica. Atti del Convegno (Acqui Terme, 8 settembre 2007), a cura di Roberto Maestri, Genova 2009, pp. 23-33.
Lachin 2004
Giosué Lachin, Il trovatore Elias Cairel, Modena 2004.
Larghi 1995
Gerardo Larghi, «Citations épiques et politique en Monferrato», in Aspects de l’épopée romane: Mentalités - idéologies - intertextualités, éd. par Hans van Dijk et Willem Noomen, Gröningen, 1995, p. 383-389.
Larghi 2015
Gerardo Larghi, «Un riflesso delle ricerche archivistiche sulla poesia trobadorica: il caso di Falquet de Romans BdT 156.6», in Otto Studi Di Filologia per Aldo Menichetti, a cura di Paolo Gresti, Roma, 2015, p. 25–42.
Longnon 1948
Jean Longnon, «Les troubadours de la cour de Boniface de Montferrat en Italie et en Orient», Revue de Synthèse, 64, 1948, pp. 45-59.
Longnon 1978
Jean Longnon, Les compagnons de Villehardouin. Recherches sur les croisés de la quatrième croisade, Genève 1978.
Palermo 1969
Joseph Palermo, «La poésie provençale à la cour de Sicile», Revue des langues romanes, 78, 1969, pp. 71-82.
Savio 1885
Francesco Savio, Studi storici sul marchese Guglielmo III di Monferrato ed i suoi figli, Roma-Torino-Firenze 1885.
Settia 1991
Aldo A. Settia, «Geografia di un potere in crisi il Marchesato di Monferrato nel 1224», Bollettino Storico Bibliografico Subalpino, 89, 1991, pp. 417-443.
Zenker 1896
Rudolph Zenker, Die Gedichte des Folquet von Romans, Halle 1896.