Il sirventese di Aimeric de Peguilhan Li fol e·il put e·il filol (BdT 10.32) è uno dei componimenti polemici più noti della poesia trobadorica ed è indirizzato contro i giullaretti della nuova generazione. È stato oggetto di ampie discussioni nei primi decenni del secolo scorso (De Bartholomaeis 1911, Bertoni 1915, Jeanroy 1912, De Bartholomaeis 1931, Crescini 1932), benché si debba lamentare una generale scarsa attenzione al dato manoscritto, per cui molte controversie sono state portate avanti su letture francamente errate dei codici. Anche edizioni critiche più recenti (Shepard-Chambers 1950, Caïti-Russo 2005) appaiono migliorabili a questo riguardo, in quanto presentano ancora omissioni negli apparati, sviste di lettura e soluzioni testuali non spiegate; da ciò la necessità di una nuova edizione critica (Barachini 2019).
Come mostrato da Barachini 2019, pp. 53-56 la datazione si basa su due elementi. Il primo, già messo a frutto da De Bartholomaeis 1911, p. 319, ripreso in De Bartholomaeis 1931, vol. I, p. 241, che aveva condotto una circostanziata analisi storica del testo (fallace invece il lavoro ecdotico, come rilevava già Jeanroy 1912), è il terminus a quo del 1° marzo del 1216, quando il borgo di Revello (v. 18) potrebbe essere entrato nei possedimenti del marchese di Saluzzo. L’importanza di questo primo elemento va ridimensionata, in quanto Revello appare, almeno in parte, sotto la giurisdizione dei marchesi già nel 1213, quando era marchese Manfredi II (si vedano Latella 2017, p. 43 nota 38, e con discussione delle fonti Barachini 2019, pp. 54-55). Ma anche senza tale terminus, nel 1215 il marchese Manfredi III di Saluzzo era succeduto al nonno (il poc’anzi citato Manfredi II), essendo il padre morto anzitempo, all’età di circa nove anni ed era stato posto sotto la tutela della nonna e di esponenti della corte fino al raggiungimento della maggiore età; della tutela e dei tutori si fa beffe Aimeric (str. III, vv. 17-24). Il secondo elemento è il fatto che il marchese dileggiato sia ancora un «enfan» (v. 21); l’infanzia terminava a tredici o quattordici anni, quando si acquisiva il diritto di firmare in proprio i documenti. Da un atto del 14 maggio 1219, in cui la nonna tutrice Adelaide vendeva alla figlia Agnese il luogo di Rifreddo e stabiliva che Manfredi III avrebbe confermato la vendita «cum fuerit maior quatuordecim annorum», De Bartholomaeis 1911, pp. 324, nota 2 (ripetuto in De Bartholomaeis 1931, I, p. 242) deduceva che il giovane marchese aveva raggiunto la maggiore età a quattordici anni verso il 1220. Pertanto, dato che nel testo si parla ancora dei tutori del marchese e si raccomanda ironicamente (secondo De Bartholomaeis) di non sbarazzarsene (str. III), dovremmo essere vicini al momento in cui Manfredi uscì di tutela e quindi poteva licenziare i tutori. Lo studioso faceva così combaciare la data di composizione del sirventese con quella di morte di Guglielmo Malaspina, avvenuta a fine aprile del 1220 (ma era malato gravemente almeno da marzo), contingenza che avrebbe esposto la corte malaspiniana all’invasione da parte dei giullaretti provenienti da Saluzzo (sulla data di morte di Guglielmo si vedano le Circostanze storiche di Era par ben que Valors se desfai, BdT 10.10). Ci troveremmo, quindi, secondo De Bartholomaeis, poco dopo il maggio del 1220. In verità la datazione va anticipata a un momento indistinto tra la seconda metà del 1219 e il 19 marzo 1220, quando Manfredi II firma il suo primo documento fuori di tutela. Il maggio del 1220 sarebbe dunque troppo tardi. La seconda metà del 1219 coincide invece molto bene con le informazioni che abbiamo su Persaval e sul «tirador … de Luserna» (v. 21, 23-24) e si adatta al probabile contesto performativo e scenico per il quale il sirventese venne composto e che va immaginato in praesentia, di fronte ad ascoltatori divertiti per le burle del trovatore. Sui dettagli della questione rimando a Barachini 2019, pp. 53-56. Alla datazione troppo avanzata di De Bartholomaeis si allineavano, a maglie larghe, Jeanroy 1912, p. 139 – circa 1220 –, Bertoni 1915, p. 60 – circa 1220 o proprio quell’anno –, Crescini 1932, p. 555 – primavera del 1220 –, Shepard-Chambers 1950, p. 18, nota 51 – attorno al 1220, con riserva –, Boni 1954, p. xvii, nota 34 – circa 1220 –, Folena 1990, p. 59 – estate del 1220 –, DBT, p. 365 – mesi estivi del 1220 –. In precedenza, anche Zingarelli 1899, p. 34 n. 1 aveva pensato a una data posteriore alla morte di Guglielmo (ma aggiungeva: «forse»), mentre Bettini Biagini 1981, p. 38 reputava che il sirventese fosse preferibilmente anteriore e non posteriore alla morte del Malaspina, in quanto non credeva che Aimeric si fosse fermato in Lunigiana a lungo dopo il decesso del mecenate. Collocava pertanto il testo genericamente poco prima del maggio 1220 (ma la morte del marchese avvenne a fine aprile). A metà strada tra le due possibilità è la datazione della BEdT: 1220 ma prima di maggio (anche in questo caso è da intendersi fine aprile).
Prima dello studio di De Bartholomaeis si ammettevano anche datazioni più tarde, all’incirca in concomitanza con la fuga di Sordello per la Provenza e i suoi eventuali incerti rapporti con Agnese di Saluzzo (circa 1226-1228; cfr. De Bartholomaeis 1911, pp. 306-312, e inoltre En amor trob tantz de mals seignoratges, BdT 16.13; Uns amics et un’amia, BdT 236.12 = 437.38; En la mar major sui e d’estiu e d’invern, BdT 330.6; Qi na Cuniça guerreja, BdT 344.5), ma gli argomenti per questa datazione non sono realmente tali (si tratta piuttosto di interpretazioni opinabili dei testi). Né è dimostrabile che il rischio di un’invasione giullaresca in Lunigiana sia collegabile solo alla morte di Guglielmo Malaspina, il quale, a detta dello stesso Aimeric, accoglieva benevolmente già in precedenza anche «soudadier», «ric joglar», «manhta gen ses art, ses joglaria» (Era par ben que Valors se desfai, BdT 10.10, str. IV); inoltre, sappiamo che la corte di Oramala fu attiva anche dopo la morte di Gugliemo (cfr. En amor trob tantz de mals seignoratges, BdT 16.13; contra Bettini Biagini 1981, ma questa studiosa divide troppo nettamente i periodi di permanenza di Aimeric presso una o un’altra corte dell’Italia del Nord (fino alla morte di Azzo VI d’Este nel 1212 a Este, fino alla morte di Guglielmo Malaspina nel 1220 a Oramala, dopo di nuovo stabilmente a Este), probabilmente sbagliando: ciò si dovrebbe desumere sia dalla treva del collega (di viaggi?) Guilhem de la Tor con la compresenza di Selvaggia e Beatrice Malaspina con Beatrice d’Este, la quale implica, certo, che Guilhem fosse ad Oramala, ma non implica affatto, come vorrebbe Bettini Biagini, che la corte d’Este fosse in crisi e non più attiva, sia dalle numerose doppie tornadas di Aimeric dedicate l’una a Beatrice d’Este, l’altra a Guglielmo Malaspina, che segnalano un riuso dei testi presso più d’un mecenate, probabilmente quando le canzoni erano una “novità” musicale, non quando erano già invecchiate. Che Aimeric si spostasse è poi ovvio per il fatto che il sirventese stesso Li fol e·il put dà ad intendere, con il minuzioso elenco nominativo di giullari e tutori del marchese di Saluzzo, che egli abbia toccato con mano la realtà della corte piemontese, senza evidentemente ricavarne grandi onori e guadagni, per l’accesa competizione professionale che vi aveva luogo e forse anche – sembrerebbe – per le inclinazioni parsimoniose di coloro che a quell’epoca reggevano un marchesato afflitto dai debiti (così Bertoni 1909, p. 75, nota 4; De Bartholomaeis 1911, pp. 332-333).
Probabilmente, come sostiene Barachini 2019, pp. 56-63, il tentativo di coinvolgere il pubblico a proprio favore (v. 7, nos inclusivo) e il largo uso di parole fono-allusive e polisemiche di livello comico-realistico e parodico rispetto al modello epico-guerresco di Bertran de Born rimandano a una satira d’occasione, più che a un’invettiva violenta, di cui peraltro non si troverebbero indizi incontrovertibili nel componimento. Il sirventese si colloca in un ampio filone tabernario o comico-realistico, spesso di natura puramente letteraria (Mancini 1991, Rossi 2005, Negri 2010, Negri 2012, Di Luca 2017), e vuole additare il corretto modo di poetare e intendere l’amor cortese, cioè il modo in cui Aimeric de Peguilhan ha voluto ribadire la propria concezione poetica e cortese, ortodossa e tradizionale, a fronte delle tendenze innovative e/o realistiche, nonché colpire chi, nelle corti, dava credito a queste ultime. Le categorie satireggiate sono in effetti due, i giullari novelli e i cortigiani che li finanziano. Per questo il pubblico a cui il trovatore si rivolge e che egli vuole orientare verso la propria concezione deve essere necessariamente chiamato in causa fin dall’inizio. Nonostante il susseguirsi di bozzetti comici, tra loro non sempre connessi, la coerenza testuale è garantita dall’occasione in cui il sirventese fu “messo in scena” e dalle conoscenze pregresse del pubblico, probabilmente quello delle corti dell’Italia nordoccidentale, che, informato di quanto necessario (le scorribande letterarie di Sordello, la minorità di Manfredi III, i debiti e le inclinazioni letterarie del governo saluzzese, il mecenatismo malaspiniano), poteva comprendere e unificare senza sforzi il discorso di Aimeric.
Anche da altri testi, tra cui il planh stesso per Guglielmo, emerge che Aimeric de Peguilhan non amasse essere equiparato ai giullari, tanto meno a quelli della generazione più giovane, sviluppando così una tematica tradizionale. Tra questi c’era Sordello (v. 11), nato verso la fine del XII secolo (altra ragione che colloca il testo a partire dagli anni intorno al 1220), dunque giovane giullare anch’egli in giro per le corti. In realtà De Bartholomaeis 1911, pp. 506-512, seguito da Boni 1954, pp. XVII-XVIII, cerca di dimostrare che Aimeric non dice che Sordello si trovi a Saluzzo, perché il mantovano compare nel testo prima che si cominci a parlare della corte piemontese; inoltre, molti commentatori lamentano una mancanza di coesione nel passaggio dalla seconda alla terza strofa. Non c’è accordo neanche sul fatto che Aimeric usi dei riguardi per Sordello: c’è chi come De Bartholomaeis 1911, p. 318, non lo ammette affatto, e chi come Torraca 1897, p. 7-8, Crescini 1932, pp. 548-549, Boni 1954, p. xviii, nota 36, Riquer 1975, p. 980 pensa a una bonaria canzonatura. L’uso dell’ironia nel linguaggio non si distingue, in ogni caso, per alcun segnale formale e resta sub iudice. Quello che invece è chiaramente visibile è che il trovatore fa uso della preterizione, qui come altrove nel testo, fingendo di escludere Sordello dalla satira ai vv. 11-14 per poi ribaltare questa impostazione alla fine della strofa, denigrandolo apertamente ai vv. 15-16. Sordello è senza dubbio incluso nei bersagli satirici (non avrebbe, del resto, avuto nessun senso inserirlo in un testo del genere, se non fosse stato così), anzi è il primo di questi bersagli, il caposcuola delle nuove tendenze della poesia trobadorica sul suolo italiano, opposto alla vecchia guardia ortodossa e formalmente ineccepibile di cui lo stesso Aimeric de Peguilhan si offre, e senza dubbio era, l’esponente più in vista. Per le ulteriori questioni testuali e interpretative connesse alla strofa su Sordello, si vedano le note all’edizione e ancora Barachini 2019.
Quanto agli altri personaggi menzionati nel testo, quelli della strofa III facevano parte dell’entourage di Adelaide che cooperava alla tutela del giovane marchese. L’averlo messo in luce è un grande merito di De Bartholomaeis, dato che in precedenza si credeva che si trattasse di giullari come gli altri menzionati nel testo. Persaval è un personaggio che figura nei documenti come Dominus Bonifacius de Plosascho, qui dicitur Percivallus dall’11 luglio 1218 al 1246. Ingiustificato è stato lo scetticismo di Jeanroy 1912, p. 140, nota 3, di Bertoni 1915, p. 15 nota 3 e di Crescini 1932, p. 556, che, con non celato malanimo accademico verso il collega, appoggiandosi all’opinione dello stesso De Bartholomaeis (in realtà errata) che tutore di Manfredi nei documenti non fu Percevalle, ma il fratello Guido (doc. dal 1215 al 1235), hanno sostenuto che l’identificazione non potesse dirsi sicura. Ma, in primo luogo, sulla base di un criterio di economia logica (a chi altri meglio di lui potevano pensare i contemporanei?), Persaval va ravvisato in questo esponente del notabilato locale che in prima persona partecipava agli uffici pubblici del marchese e la cui famiglia aveva parte importante nella reggenza. In secondo luogo, a differenza di quanto credeva De Bartholomaeis, né Bonifacio né il fratello Guido furono tutori di Manfredi III, o quanto meno non conserviamo documenti a supporto di questa tesi. I signori di Piossasco erano invece certamente procuratori dei marchesi e importanti consiglieri di corte, soprattutto di Adelaide. Del resto, dal sirventese di un trovatore non si deve pretendere la precisione di un atto notarile, senza trascurare che va messa in conto anche una possibile deliberata manipolazione della realtà a fini denigratori (su tutta la questione ancora Barachini 2019, pp. 65-66). Quanto al «tirador, /q’eu no voill dir, de Luserna», nuova preterizione che tuttavia non nascondeva affatto l’identità del soggetto anche grazie al gioco fono-allusivo tirador-*Billador, presumibile forma volgare del cognomen, De Bartholomaeis 1911, pp. 327-328 lo riconosceva dubitativamente in Willelmus Billiator de Luxerna. Anche questa identificazione è senza dubbio corretta: si veda Barachini 2019, pp. 66-67. Entrambi i nobili saluzzesi sono accusati di essere eccessivamente parsimoniosi, nonché di non essere in grado di istruire correttamente il giovane marchese in materia poetico-letteraria.
Entrambe le identificazioni erano comunque già in Bertoni 1909, pp. 74-75, che trovava tutti insieme questi personaggi tra i testimoni di un documento di remissione dei debiti a Adelaide e Manfredi del 1219: «dominus Milo cantor taurinensis, Biliator de Lucerna et Vido de Ploçascho et Percival» (Biliator di Luserna, Guido e Percivalle di Piossasco, insieme al Milo cantor). Anche in questo caso è un criterio di economia logica che porta a ritenere accettabile l’identificazione del Billiator, curiosamente sconfessata dopo l’articolo del De Bartholomaeis dallo stesso Bertoni 1915, p. 15, nota 3, forse immemore della sua identica proposta.
Infine, su Cantarel o Encantarel, Nicolet e (il) Trufarel, probabilmente tre giullari, la critica conviene in parte solo sul secondo, che, dato l’ambito geografico, potrebbe essere Nicolet de Turin (BdT 310), e ipotizza che Cantarel sia il medesimo giullare nominato da Amoros dau Luc (En Chantarel, sirventez ab mos planz, BdT 22.1): cfr. Bertoni 1915, p. 60; De Bartholomaeis 1911, pp. 329-331; De Bartholomaeis 1931, I, p. 245; Crescini 1932, pp. 559-561; DBT, p. 365. È possibile che i nomi giullareschi scelti da Aimeric siano anche allusivi di un ambito geografico (a sud di Torino): «Cantarellus» è il nome di due notai operanti per i marchesi di Saluzzo, tra i signori di Bra è assai diffuso il nome «Nicoletus», Trofarello era un borgo situato a sud-est di Moncalieri, dominato dai Vagnone.
Infine, la più cortese delle corti di questo settore geografico, quella malaspiniana, non è esclusa dal rischio di accogliere le nuove (mediocri) tendenze poetiche e il connesso modo di far mecenatismo, anche se – parrebbe – il danno qui non è ancora in atto. Anche per questo la relazione con la morte di Guglielmo Malaspina è indebita. Si veda ancora Barachini 2019, p. 68.
Barachini 2019
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Giulio Bertoni, «Nota su Peire Milon», Zeitschrift für romanische Philologie, 33, 1909, pp. 74-76.
Bertoni 1915
Giulio Bertoni, I trovatori d’Italia. Biografie, testi, traduzioni, note, Modena 1915.
Bettini Biagini 1981
Giuliana Bettini Biagini, La poesia provenzale alla corte estense. Posizioni vecchie e nuove della critica e testi, Pisa 1981.
Boni 1954
Marco Boni, Sordello. Le poesie, Bologna 1954.
Caïti-Russo 2005
Gilda Caïti-Russo, Les troubadours et la cour des Malaspina, Montpellier 2005.
Crescini 1932
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Gianfranco Folena, «Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete», in Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova 1990, pp. 1-137.
Jeanroy 1912
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