I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
I. Di un amico o di un signore nessuno deve dire maggior bene di quel che è appropriato al suo valore, perché difficilmente colui che loda in modo bugiardo viene considerato uno che sa biasimare con sincerità; per questo mi pento di un barone che ho lodato per niente,
II. perché voglio coprire la menzogna con la verità al punto che biasimerò lodi sciocche e false con parole vere, in quanto so che, nel biasimare costui, non posso mentire, perché nessuno può essere bugiardo nella misura in cui dice i mali di lui, in virtù delle sue azioni leali.
III. Le azioni di questo barone sono tanto leali che non dico che l’impero lo porti in giudizio, ma la chiesa gliene ha fatto largo perdono; e se essa deve perdonare il fare inganno e sbagli, facilmente gli può salvare l’anima.
IV. Si può salvare più che i buoni pellegrini! † Di lui si dolsero † il valoroso marchese Pelavicino e il marchese d’Este, dopo che fu catturato messer Ezzelino; per questo pisani e lucchesi dicono giustamente che egli non fece mai doni, in modo che fosse rimproverato a torto.
V. Al valoroso marchese mio signore Federico, in cui tutti i valenti trovano buon riparo, va’, sirventese, e non fare affatto ritardo! E digli con certezza: chi distrugge non fa bontà. E che egli faccia attenzione ai suoi tiri!
VI. Di colui che colpisce nelle imboscate ho riferito un po’ di verità e su di lui ho fatto cessare la menzogna.
3-4. Il senso dei due versi è che colui che fa le lodi di qualcuno in modo bugiardo non potrà essere considerato veridico qualora si metta a biasimare qualcun altro. Il trovatore accentua questo messaggio con una disposizione chiastica delle parole, dove lial si oppone a falsamen e blasmador si oppone a lausa. Le opposizioni continuano nella strofa II con menzonza opposto a vertat.
6. Il ms. fornisce la lezione en nun ten non intelligibile, su cui si veda la nota della mia edizione (Barachini, «La lotta delle partes», p. 106). Il senso del passo è che l’autore ha in precedenza lodato il barone invano, per niente.
8. In luogo di «qe lau[s] sotz fals», il ms. ha qel ausutz fals, lezione dal senso impenetrabile. La lezione a testo (commentata in Barachini, «La lotta delle partes», pp. 106-107, a cui rimando anche per le ulteriori proposte) postula alcuni errori paleografici. Il senso è sempre quello di una palinodia: se l’autore aveva in precedenza riservato al baron “lodi sciocche, false”, ora vuole ritrattare “con parole vere”.
12. È evidente l’ironia presente nel verso, al limite del sarcasmo: i fatti del baron non sono per nulla leali, come viene chiarito nella strofa seguente, che è capfinida rispetto a questa.
14-15. L’impero non accusa (verbo caizonar) il baron, non ha niente da rimproverargli, ma anche la chiesa lo perdona: il concetto è che da un lato il baron è passato nel campo guelfo per convenienza (l’impero non gli è ostile), dall’altro che egli tiene ancora il piede in due staffe (la chiesa gli concede al contempo largo perdono), benché sia sottinteso dall’intero contesto che l’accordo con la chiesa è ormai a rischio. Ciò è implicito nei versi seguenti, dove si parla della facoltà della chiesa di assolvere il baron dai suoi peccati: Alessandro IV aveva concesso ai ghibellini che avevano combattuto contro Ezzelino, fossero essi individui o intere città, il perdono e la revoca della scomunica o dell’interdetto, a patto che non tornassero nel partito imperiale; nella lettera papale sono indicati nominaliter Boso da Dovara e Oberto Pelavicino e i Cremonesi. Sui problemi d’identificazione del baron si vedano le Circostanze storiche.
17. Il ruolo del verbo far è ambiguo: nella traduzione, come già in quella di De Bartholomaeis, esso è sostantivato («la chiesa deve perdonare il fare inganno e sbagli»). Tuttavia, potrebbe avere funzione esclusivamente verbale: “la chiesa deve perdonare l’inganno e commettere sbagli” (così nella traduzione di Caïti-Russo); in altre parole, se la chiesa perdonerà il baron, commetterà uno sbaglio. L’inganno in questione è probabilmente la militanza ghibellina e il finto passaggio alla parte guelfa. Il verbo dever in provenzale può creare una perifrasi con valore di futuro.
IV. Nella strofa III l’autore sottolineava come il baron non fosse inviso alla pars Imperii, nonostante avesse ottenuto vantaggi dalla pars Ecclesiae. La strofa IV mette in evidenza il fatto che tanto un partito (Oberto Pelavicino e i pisani per i ghibellini) quanto l’altro (Azzo d’Este e i lucchesi per i guelfi) criticano e contestano il baron, non hanno mai ottenuto vantaggi dalla sua alleanza ed egli – pare – si mantiene equidistante da entrambi, per opportunismo o per ignavia.
19-21. Al di là del significato letterale, la presenza dei bos pelegris al v. 19 è da porre in relazione con Oberto Pelavicino, il pros marqes del v. 20, la cui famiglia possedeva il castello di Pellegrino nel Parmense; il ramo dei Pelavicino di Pellegrino fu fedele alleato di Oberto, che ne fece nominare alcuni membri nelle podesterie dei comuni soggiogati. Tuttavia, il rapporto sintattico tra i vv. 19 e 20 è reso inintelligibile da una corruttela testuale al v. 20: Dolce nel ms. è privo di senso. Dato che il verbo del v. 19 ha un soggetto singolare (il baron) garantito dal v. 25 e dato che al v. 20 il sintagma le pros marqes Palavisis è senza dubbio caso soggetto garantito dalla rima e coordinato con il marqes d’Est, coordinazione garantita dall’analogo parallelismo del v. 22 (Pisan e Luques), bisogna concludere che il v. 19 costituisca un periodo distinto da quello dei vv. 20-21, pertanto sotto la lezione Dolce si deve nascondere un verbo da riferire al Pelavicino e all’Estense e fors’anche una congiunzione. Il luogo rappresenta una crux desperationis: pur non sanandola, emendo Dolce in «Dolc [c]’e[n]» cioè “Dolc s’en” “se ne dolse”, sfruttando parte del materiale grafico conservato e concordando il verbo con uno solo dei due soggetti.
22-24. La città di Pisa era ghibellina, mentre la città di Lucca era guelfa. Esse sono speculari, dal punto di vista politico, a Oberto Pallavicino e Azzo d’Este: Oberto (v. 20) sta a Pisa (v. 22) come l’Estense (v. 21) sta a Lucca (v. 22), secondo un chiaro parallelismo di schieramenti. L’autore intende dire che il baron, oscillando tra un alleato e l’altro militanti in partiti opposti, non si è mai impegnato con nessuna delle due partes. Pertanto, l’opposizione non è tra i ghibellini e i pellegrini (vale a dire i filopapali, i guelfi), ma tra il baron e tutti gli altri, ghibellini o guelfi che siano: egli non ha fatto favori a nessuno e ha tenuto uguali distanze sia da Oberto e Pisa sia da Azzo e Lucca. L’espressione “egli non fece mai doni, a causa dei quali fosse rimproverato a torto” (vv. 23-24) è piuttosto criptica: non è chiaro per quale motivo il baron avrebbe dovuto essere rimproverato “a torto” per il fatto di non essersi schierato con nessuno dei contendenti (sembrerebbe quasi un errore polare). Tuttavia, il congiuntivo (fos repres) indica che si tratta di azione eventuale, pertanto si può intendere che egli non fece favori a nessuno in modo da non essere rimproverato, senza ragione, o dagli uni o dagli altri. Il dono del baron è la mancanza di un’esplicita presa di posizione per uno dei due partiti.
25. Si tratta di Federico Malaspina, figlio di Corrado l’Antico: si vedano le Circostanze storiche.
27-28. L’autore dà del tu al proprio testo, com’è evidente in questo verso dal vai (2a sing. dell’imperativo) e al v. 28 dal dìgas (non digàs), che è la forma della 2a sing. del congiuntivo esortativo in sostituzione dell’imperativo, adottata spesso per il verbo dire.
29. Il verso presenta alcuni problemi, per i quali rimando ancora alla nota della mia edizione (Barachini, «La lotta delle partes», pp. 108-109). Il contesto (vv. 28-30) indica che l’autore suggerisce a Federico di fare attenzione ai tiri (o alle armi: tratz) del baron, che Caïti-Russo (Les troubadours, p. 397) interpreta come un’allusione al rischio della morte sulla scorta di Falquet de Romans, BdT 156.10, v. 45. Potrebbe trattarsi della previsione di uno scontro tra Federico Malaspina e il baron, consona ai fatti di Piacenza del 1260 o a quelli di Montaperti dello stesso anno: in tal caso l’autore inviterebbe il marchese a non avere pietà. Tuttavia, è possibile che «chi distrugge» sia il baron e non Federico.
30. tratz da trach, trait vale «trait, arme lancée; portée d’un trait» (PD, p. 368).
31. La locuzione as agatz presenta nel ms. as con una chiara s finale di parola, pertanto essa è da interpretare come as < ad (grafia piuttosto comune per la fricativa interdentale sonora derivata da lenizione della d) o come a·ls> as; agatz vale agachz, cioè ‘agguati’ (per la rima si veda la nota al v. 28). La lezione del ms. è pertanto molto chiara: cel qi fer as agatz “colui che colpisce negli agguati”: il barone è una persona che compie imboscate, colpisce a tradimento (ferir, «frapper»: PD, p. 187). Sui possibili riferimenti a Peire de la Caravana, D’un serventes faire (BdT 334.1) e al suo «Saill d’Agaiz» del v. 71, rimando alle Circostanze storiche. La D mancante a inizio verso è reintrodotta come complemento d’argomento.
33. Il verbo afranher significa «humilier» oppure «diminuer, faire cesser» ed è da collegare a mentir.
Edizione, traduzione e note: Giorgio Barachini. – Rialto 21.xi.2019.
P 62v (privo di rubrica).
Edizioni critiche: Giulio Bertoni, I trovatori d’Italia. Biografie, testi, traduzioni, note, Modena 1915, p. 20 (edizione parziale dei vv. 1-9, 21, 25-26); Vincenzo De Bartholomaeis, Poesie provenzali storiche relative all’Italia, 2 voll., Roma 1931, vol. II, pp. 198-201; Gilda Caïti-Russo, Les troubadours et la cour des Malaspina, Montpellier 2005, pp. 393-398; Giorgio Barachini, «La lotta delle partes in un sirventese anonimo del Duecento (BdT 461.180)», in L’Italia dei trovatori, a cura di Paolo Di Luca e Marco Grimaldi, Roma 2017, pp. 75-110.
Altre edizioni: Giuliana Bettini Biagini, La poesia provenzale alla corte estense. Posizioni vecchie e nuove della critica e testi, Pisa 1981, p. 113 (testo De Bartholomaeis).
Metrica: Sirventese (cfr. v. 27) di cinque coblas singulars di sei versi e una tornada di tre versi, con schema 10a 10a 10a 7b 7b 7b. Rime a: ór, ir, on, is, ic; rime b: en, als, ar, és, atz (= ach). Lo schema è un unicum e «non vi sono schemi metrici compatibili» (BEdT, scheda testo) non solo in ambito provenzale, ma anche in altri ambiti romanzi. Le strofe II-III e III-IV sono anche capfinidas.
Il sirventese è stato composto dopo la battaglia di Cassano d’Adda (27 settembre 1259) che portò alla morte Ezzelino da Romano (v. 21); tra i protagonisti dello scontro vi furono, nello schieramento opposto, Oberto Pelavicino (mod. Pallavicino; v. 20) e Azzo VIII d’Este (v. 21). Il Frederic del v. 25 è Federico Malaspina, morto prima del 20-21 aprile del 1266. Una rivalità armata tra Federico e Oberto si palesò in numerose occasioni tra il 1260 e il 1263, ognuna delle quali potrebbe aver fornito lo stimolo compositivo, anche se una data prossima alla battaglia di Cassano d’Adda è preferibile (circa 1260): si vedano le Circostanze storiche.