I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
I. Cantando non trovo uccelli, né vedo il fiore appena sbocciato, ma io non abbandono joi né il canto, se qualcuno me ne chiede. In joi ho tutto il mio cuore, poiché nessuno sa quando muore, e la mia donna mi rende lieto giacché con joi piacente il mio fine cuore conquistò, per cui mi consegno a lei, che in seguito non fui mai senza joi notte e giorno.
II. Di joi deve fare sembianza chi l’amore perfetto guida, per cui io gli obbedisco, poiché tanto gentilmente mi attira; ché ho messo il mio cuore in una persona tale che mi sarà molto onore se muoio là, che il suo amore mi ferì tanto dolcemente che dentro il mio cuore entrò giocando e ridendo; sono tutto suo, così fosse ella mia!
III. Tanto l’amo di buon amore, che il mio cuore mi abbandona poiché così non amò Tristano Isotta la bella. Io non so che il mio fine cuore per il molto amare muore, ché tanto intensamente mai uno amò, né meglio attese il suo joi soffrendo, ché così l’amante conquista l’amata.
IV. Chi mi vuol fare male abbia una pustula nel suo occhio, poiché io ho gran timore quando qualcuno le parla. Donna abbiate qui il vostro cuore, che il mio è là che muore, ché mai un giorno non mi allontanò dal vostro corpo gentile, né desiderò una cosa tanto onestamente. Ahimé, credo che il desiderio mi uccida.
V. Chiedo all’imperatore, poiché rinnova il valore, che muova con un grande esercito contro il popolo scellerato, e abbia in Dio il suo cuore, poiché i Saraceni e i Mori hanno assoggettato e oppresso troppo a lungo la terra dove Dio nacque ed il Sepolcro, ed è giusto che lui la recuperi.
VI. L’uomo vile che ha un cuore vile fa bene il giorno che muore e sono allegri e lieti i figli e parenti, che ciò che riunì si dividono ridendo. Guardate se fa follia chi si fida!
VII. Signor Otto del Carretto, avete un cuore buono, in cui pregio non muore, che mai nessun barone non regnò tanto generosamente, né persona più gentile onorò un uomo valente, per cui io amo la vostra signoria.
2 flor] flors 16 mon] mos 24 ressautella] ressancella 26 Tristanz] tistanz 51 ni] li 56 avol] avols 58 sonn alegr’e le ] sõ nalegrelet 67 gencheis] genchers; onret] õbret
1. aucels. Conviene conservare la forma tradita dal manoscritto, pur se questo spesso contiene errori di morfologia e anche se il sostantivo al plurale presenta seri problemi interpretativi, complicazioni che hanno indotto i precedenti editori a respingere la lezione dell’unico testimone. Secondo Arveiller et Gouiran, L’oeuvre poétique, infatti, la lezione flor novella, singolare di un nome collettivo, sarebbe stata mal intesa dai copisti che la avrebbero perciò corretta in un plurale. Un simile intervento avrebbe provocato un contrasto, legato alle necessità della rima, con il singolare novella, mentre chantan, gerundivo, non sarebbe accordato né con truob né con l’oggetto aucels: in una simile ipotesi flor novella sarebbe da considerare lectio difficilior e chantan andrebbe interpretato come un participio presente. È sufficiente però riconoscere in chantan un gerundio per ottenere un senso perfettamente comprensibile senza essere costretti ad intervenire.
4. qui·m n’apella. De Bartholomaeis, Poesie provenzali, traduce: «tuttavia io non mi distolgo dal canto né dalla gioia che mi chiama». Ma apellar, oltre che ‘chiamare’, significa anche ‘domandare’ (PD, s. v.). Questo significato sembra anzi più adeguato, interpretando inoltre qui come si quis (= se qualcuno).
5-6. Carl Appel, recensione a Zenker, Die Gedichte, Literaturblatt fur germanische und romanische Philologie, 17, 1896, col. 168, traduce così: «niemand weiss wann er stirbt». Sono possibili differenti letture del passo. Una esegesi nasce dalla spiegazione di mor quale prima persona singolare: ‘io, un uomo, non conosco l’ora della mia morte e la mia donna mi conserva nella felicità’. È l’interpretazione prescelta dagli editori più recenti, Arveiller e Gouiran, ma in tal caso la rima mor non sarebbe più terza persona singolare come nei restanti versi (con la sola eccezione del v. 50 dove la rima sta per ‘i mori’). La seconda proposta di lettura si basa sulla definizione di sai come terza persona singolare del presente indicativo e tale idea fu accolta da Zenker, Die Gedichte; Appel, recensione citata; Adolfo Mussafia, «Zur Kritik und Interpretation romanischer Texte», Sitzungsberichte der Philosophisch-Historisch Classe der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften, 134, 1985, p. 31. È pur vero però che la variante sai per sab non è attestata altrove e che accogliendola siamo stati costretti a recepire a testo una lezione morfologicamente incerta ma tale opzione è parsa la più economica anche sulla base di Reinhild Richter, Die Trobadourzitate im Breviari d’Amor. Kritische Ausgabe des provenzalischen Uberlieferung, Modena 1976, p. 93, che ha individuato una variante fai per fa terza persona singolare del presente indicativo (la forma è trasmessa da un gruppo di manoscritti orientali). Una terza soluzione consisterebbe nel modificare sai in sa o sa[b].
13. Gotthold Naetaebus, recensione a Zenker, Die Gedichte, Archiv fur das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, 98, 1896, p. 209, propone di sostituire qui con cui, ma l’intervento non è necessario.
24. La correzione ressautella per ressancella fu proposta già da LR, V:143 5, p. 143, e ad essa fecero buona accoglienza Appel, recensione citata; Raymond Arveiller, «Quelques remarques sur Falquet de Romans», in Mèlanges de philologie romane dèdiès à la mèmoire de Jean Boutière, Liège 1971, pp. 5 sgg., a p. 16 (sulla base di ottime ragioni paleografiche); Arveiller et Gouiran, L’oeuvre poétique. Zenker, Die Gedichte, preferisce invece la lezione ressaucella, analoga a resarcellar; Mussafia, «Zur Kritik», a sua volta accosta la forma all’antico francese resancier. In realtà resautellar obbliga solo ad un minimo intervento correttivo e si rivela dunque preferibile. Ad appoggio di questa tesi si possono citare passi quali la glossa che compare in un codice dell’Alexandreis edita da Raffaele de Cesare, «Glosse latine e antico francesi all’Alexandreis di Gautier de Châtillon», Milano 1951, p. 57: «et quem conceperat ante ampliat affectum, cordisque reverberat aures» chiosato «reverberat: idest iterum et iterum verberat. Quasi dicat: li cuer li sauteloit». Su ressauter si vedano anche gli appunti in Gilles Roques, «Notes de lexicographie critique», Travaux de Linguistique et de Littèrature, 24, 1986, pp. 217-237, a p. 234 s.v. ressauter.
38-40. Zenker, Die Gedichte, stampa que·l mieus. Appel, recensione citata, traduce «Herrin, habet hier (weshalb cha.l statt chail der Hs?) das (nämlich euer) Herz, denn das meine ist dort, welches stirbt, denn nimmer enfernt (mir oder nom zu non) von euch», proponendo di considerare dunque il secondo qe del v. 39 alla stregua di una congiunzione causale. De Bartholomaeis, Poesie provenzali, invece interpreta così il passo: «Donna, abbiate qui il mio cuore, che è mio fino alla morte: nemmeno un giorno [esso] allontanò da me la nostra gentile persona». Arveiller et Gouiran, L’oeuvre poétique, al termine di un esame delle differenti proposte, correggono qe in qe·l al v. 39, e traducono: «Madame, ayez votre coeur ici (près de moi), car le mien est là bas (près de vous) en train de mourir», e glossando «il s’agit d’un échange de coeurs et la prière était déjà annoncée au v. 22». È la soluzione adottata anche qui. Un’ulteriore ipotesi consisterebbe nell’interpretare mor quale prima persona singolare del presente indicativo di morir, evitando così di intervenire sul qe. Inoltre, si potrebbe anche intendere vostre cors gen come soggetto di no·m loignet (e rendendo «e il vostro cuore gentile non mi allontanò [da sé]».
38. fradella. Si ritrova in rima pure in altri passi trobadorici, quali Peire d’Alvernha, Deiosta·ls breus iorns e·ls loncs sers (BdT 323.15), v. 13 «q’una puta gens fradelha»; Peire Vidal, Plus que·l paubres, quan jai el ric ostal (BdT 364.36), v. 58 «contr’aquesta gen fradella» (riferito come nel nostro caso alle popolazioni mussulmane che avevano riconquistato Gerusalemme ed i luoghi santi: in questa poesia del tolosano hanno larga parte le invocazioni alla crociata).
50. mor: rima equivoca. In occitano la forma regolare sarebbe maur, ma è attestata anche l’oitanizzante mor.
51. La lezione ni del ms. è errata giacché li articolo non ha funzione di cas régime (cf. Edouard Philipon, «Morphologie du dialecte lyonnais aux XIIIe et XIVe siècles», Romania, 30, 1901, pp. 213-294, a p. 218; Brigitte Horiot, «Recherches sur la morphologie de l’ancien franco – provençal», Revue de Linguistique Romane, 36, 1971, pp. 1-74, p. 12; Frede Jensen, The Syntax of Medieval Occitan, Tübingen 1986, §§ 199-200). Ciò esclude che si possa interpretare il passo in questo modo: ‘poiché i Saraceni e i Mori hanno assoggettato troppo a lungo la regione e la terra dove Dio nacque’, vale a dire con destret complemento oggetto di tengut. I critici hanno proposto differenti esegesi. Appel, recensione citata, ipotizza di correggere li in lai e che si debba interpretare destret alla stregua di un participio da destrenher. A sua volta Oskar Schultz-Gora, recensione a Zenker, Die Gedichte, Literaturblatt fur germanische und romanische Philologie, 17, 1896, coll. 626-627, propone di emendare en destret. La soluzione adottata da Arveiller et Gouiran, L’oeuvre poétique, prevede che destret sia un sostantivo soggetto (cioè li destret «la terre»), ma essa obbliga ad accogliere a testo un errore in rima giacché in tal caso la e chiusa si sarebbe mutata in e aperta. Le Leys d’amors ammettono queste imperfezioni nei testi trobadorici, ma non risulta che Falquet incorra mai in queste rime anomale. La strada più esatta potrebbe essere stata indicata da Appel, ma rispetto alla sua proposta forse sarebbe meno complesso modificare li con ni. È pur vero, infatti, che la variante lai/li si può paleograficamente giustificare meglio, ma sembra più economico optare per una leggerissima correzione (li >ni) perfettamente comprensibile e che ha il pregio di restituire una iterazione.
63. bo: Zenker, Die Gedichte; Giulio Bertoni, I trovatori d’Italia. Biografie, testi, traduzioni, note, Modena 1915, p. 21 n. 1; De Bartholomaeis, Poesie provenzali, stampano lo; la correzione, secondo la lezione esatta del manoscritto, è stata di Arveiller, «Remarques», p. 18, il quale ha anche confermato che nel testimone unico si rinviene la lezione ondret già congetturata da Bertoni, I Trovatori.
67. Appel, recensione citata, emenda genchers in gencheis. Arveiller et Gouiran, L’oeuvre poétique, preferiscono conservare genchers del manoscritto (cioè «ni plus aimable n’a honoré un homme de valeur») pur giudicando «tentante» l’ipotesi di correzione qui accolta a testo.
Edizione, traduzione e note: Gerardo Larghi. – Rialto 28.i.2022.
L 32r (folquet de Romans).
Edizioni critiche: Rudolph Zenker, Die Gedichte des Folquet von Romans, Halle 1896, p. 50; Vincenzo De Bartholomaeis, Poesie Provenzali Storiche relative all’Italia, 2 voll., Roma 1931, vol. II, p. 40; Raymond Arveiller - Gérard Gouiran, L’oeuvre poétique de Falquet de Romans, Troubadour, Aix-en-Provence 1987, p. 59; Gerardo Larghi, Rialto 12.xii.2009.
Altra edizione: Linda Paterson, Rialto 16.ix.2013 (testo Arveiller - Gouiran).
Canzone trasmessa dal solo ms. L, dove si trova trascritta al termine del terzo quaderno e avrebbe dovuto essere seguita, secondo quanto segnala Beatrice Solla, Il canzoniere occitano L (Biblioteca Apostolica Vaticana Vat. Lat. 3206), Modena 2015, dall’altra canzone sirventese di Falquet de Romans Cantar voill amorosamen (BdT 156.3): presumibilmente la fonte doveva trovarsi in quella che Stefano Asperti, Carlo d’Angiò e i trovatori: componenti «provenzali» e angioine nella tradizione manoscritta della lirica trobadorica, Ravenna 1995, ha designato come «la composante liguro-piémontaise» di L ovverosia il prolungamento italiano della tradizione provenzale propriamente detta. Entrambe le liriche sono inviate a Federico II e a Ottone del Carretto, protettore di Falquet. Secondo la stessa Solla, queste poesie sono da valutare insieme al sirventese anonimo attestato unicamente in L Ades vei pejurar la gen (BdT 461.6) inviato a Corrado I Malaspina.
Metrica: a6 b6’ a6 b6’ c6 c6 d6 e6 d6 e4 f9’ (Frank 399:1). Cinque coblas unissonans di undici versi e due tornadas di sette versi ciascuna. Rime: -an, -elha, -òr, -èt, -en, -ia. Nel testo sono individuabili rime equivoche-identiche (rien vv. 21 e 61, coralmen vv. 30 e 43, gran vv. 36 e 47), un rims derivatiu (v. 1 chantan e v. 3 chan), e rime refrain (i vv. 5, 6, 16, 17, 28, 38, 39, 49, 50 [?], 56, 57, 63, 64; al v. 50 Falquet sostituisce una rima refrain con una rima equivoca).
Canso-sirventes composta certamente tra la fine del 1220 e il 1224-1225. Si vedano le Circostanze storiche. — Dal punto di vista letterario la poesia si apre con una negazione del tradizionale inizio primaverile, ciò che ne fa un unicum del canzoniere di Falquet. La prima strofa si organizza interamente intorno al tema del joy, che nella seconda e terza cobla si ricollega tipicamente a quello della fin’amor. Cuore della lirica è però il binomio amore-morte, sottolineato dalle rime refrain cor : mor. La tensione poetica che si crea tra questi due poli consente a Falquet di collegare l’immagine dell’amante che muore a quella figura del crociato. Entrambi infatti sacrificano la propria vita per amore: l’uno spinto dal richiamo della Terra Santa, l’altro dal sentimento provato per una donna. Amore sacro e amore profano si allineano quindi lungo l’unico asse del servizio.