Rialto    IdT

 

Anonimo, Nuls hom non deu d’amic ni de segnor (BdT 461.180)


 

Circostanze storiche

 

 

 

Il sirventese anonimo è una palinodia che l’autore compie rispetto a precedenti componimenti a noi non pervenuti. In essi l’anonimo trovatore tesseva le lodi di un barone, di cui ora vuole fornire un’immagine negativa meglio corrispondente alla realtà. Il motivo di tale cambiamento d’opinione è il voltafaccia del barone che è passato dal campo imperiale a quello papale e ora si accinge a tornare a quello imperiale, dopo la battaglia di Cassano d’Adda (27 settembre 1259) nella quale Ezzelino da Romano fu catturato (v. 21), onde morì pochi giorni dopo. Allo scontro parteciparono il marchese Oberto Pelavicino (mod. Pallavicino; v. 20), il marchese d’Este Azzo VII (di cui questa menzione sarebbe l’ultima, secondo Folena 1990, p. 57; v. 21) e, qui non nominati, Boso di Dovara (capo ghibellino di Cremona), Ludovico di San Bonifacio, conte di Verona, oltre a contingenti dei comuni di Mantova, Ferrara, Padova, i fuoriusciti guelfi di Brescia, in seguito anche il guelfo Martino Torriani con le città di Milano, Como, Lodi e Novara (cfr. Annales Placentini, p. 510; Bertoni 1915, p. 20; De Bartholomaeis 1931, vol. II, pp. 198-200, che restringe il numero dei protagonisti, ma, come si vedrà, tale operazione mira a dimostrare la bontà di un emendamento dubbio; Barachini 2017, pp. 89-92). La data della battaglia vale come terminus post quem, anche se i frequenti rivolgimenti delle alleanze negli anni seguenti rendono malagevole fissare date precise. Al v. 25 si parla di un mon segnor Frederic, in cui va ravvisato Federico Malaspina, morto prima del 20-21 aprile 1266 (terminus ante quem), quando gli eredi si spartiscono i beni (Ferretto 1901-1903, vol. I, pp. 39-40, nota 90). Federico Malaspina, guelfo, fu grande nemico di Oberto Pelavicino, ghibellino: dal 1239 l’imperatore Federico II aveva infatti nominato quest’ultimo vicario imperiale in Lunigiana, Garfagnana e Versilia, andando a intaccare gli interessi malaspiniani sul territorio (cfr. Barachini 2017, pp. 77-86). I due vennero spesso alle armi: nel 1247 il Pelavicino con re Enzo entrò armato in Lunigiana, dove i principali rampolli dei Malaspina si erano ribellati al potere imperiale dal 1246; nel 1260 Federico Malaspina difese i guelfi piacentini contro Oberto, impedendogli l’accesso in città, finché non ne fu scacciato dai fiorentini; nel 1262 Federico si ribellò al controllo vicariale di Oberto su Pontremoli, ma nel 1263 fu catturato e recluso dai sodali del Pelavicino. Federico era già stato in catene nel 1260, imprigionato dopo la battaglia di Montaperti, dove combatté con i guelfi lucchesi (su Oberto e Federico si veda Barachini 2017, pp. 87-89).

Chi sia il barone non è precisabile: come ammette De Bartholomaeis 1931, vol. II, p. 199, «molti furono allora nell’Alta Italia quelli che, per combattere Ezelino, passarono alla parte della Chiesa», tra i quali gli stessi Boso e Oberto Palavicino che rapidamente tornarono all’alleanza con Manfredi, senza ricevere il perdono papale per i loro trascorsi ghibellini (fatto a cui si allude nella strofa IV). Tuttavia, da un lato Oberto è da escludere per ragioni grammaticali e la sua identificazione con il baron richiederebbe pesanti emendamenti, dall’altro Boso non ebbe contatti con i comuni toscani di Pisa e Lucca menzionati al v. 22 (su un’interpretazione del verso si veda l’edizione; cfr. Barachini 2017, pp. 96-100).

La questione è ancor più intricata dai vv. 20-21, particolarmente corrotti (cfr. Bertoni 1915, pp. 19-20). Qui si hanno i nomi del pros marqes Palavisis e del marqes d’Est, ma quello di Boso non vi figura, se non grazie a un non lieve emendamento di De Bartholomaeis, ripreso da Caïti-Russo 2005. Gli editori passano dall’inspiegabile lezione Dolce del codice (all’inizio del v. 21) a Boç’e e intendono i vv. 19-21: «Salvar si possono meglio che i buoni pellegrini Boso, il prode marchese Pelavicini e il marchese d’Este, dopo che fu preso da essi messer Ezelino». Ma tale intervento lascia perplessi: da un lato il grado di attivismo di De Bartholomaeis è eccessivo, in quanto il passaggio da Dolce a Boç’e è appena giustificabile sul piano paleografico, perché bisognerebbe ammettere una pluralità di fasi manoscritte (Bouçe > Bolce > Dolce) e, in aggiunta, assumere come veritiere due premesse: in primo luogo, che la forma grafica del nome fosse Bouç o Bous, con un dittongo grafico improbabile (il latino dà le forme Bosus, Bossus, Bosius, Bossius, Boxus, ma non *Bousus e tanto meno *Bolsus o *Bolcius); in secondo luogo, che, come avviene nel ms. P, anche nel suo modello ogni verso iniziasse con una lettera maiuscola tale da produrre una lettura errata di D per B, ciò che è quanto meno dubbio. Il caso soggetto di Boso è inoltre Bos in provenzale. Dall’altro lato, il gioco di parole creato grazie ai bos pelegris del v. 19 è da connettere probabilmente al marchese Pelavicino del verso seguente, la cui famiglia a Pellegrino nel Parmense aveva uno dei propri capisaldi feudali, senza contare che esponenti del ramo dei Pelavicino di Pellegrino collaborarono con Oberto. In questo contesto, l’interposizione di Boso tra i pellegrini e il Pelavicino (che fan tutt’uno) è ancor più improvvida. Infine, il verbo e il soggetto al singolare al v. 25 (el anc no fes) sono riferiti al baron e chiariscono in modo netto che al v. 19 il soggetto di salvar si pot è uno solo; pertanto sono da respingere con forza tutti gli emendamenti che vogliano fare del pros marqes Palavisis e del marqes d’Est (e per congettura anche di Boso) i soggetti del verbo del v. 19. In altre parole, in questa specifica sintassi e con il supporto del v. 25, non è in alcun modo possibile che il verbo al singolare del v. 19 possa avere due o tre soggetti, come richiesto da De Bartholomaeis e Caïti-Russo, per poi tornare nuovamente e nettamente al singolare al v. 25 (cfr. Peron 1992, p. 529 e Barachini 2017, pp. 94-95).

La lezione Dolce è a tutti gli effetti una crux, che potrebbe nascondere o lo snodo sintattico che collegava il v. 19 al v. 20 o il verbo da riferire ai due marchesi. Il riferimento è comunque all’assoluzione concessa dal papa qualora i ghibellini fossero restati fedeli al pontefice dopo la sconfitta di Ezzelino, fedeltà che non ebbe luogo nel caso di Oberto, che già nel 1259 era di nuovo nel partito imperiale (non può quindi essere lui il baron), mentre Azzo VII d’Este era dal 1239 nel campo guelfo e le minacce papali di scomunica o gli strali del nostro anonimo poeta per un eventuale voltafaccia non si rivolgevano certamente a lui.

A indirizzare l’identificazione del baron verso la pianura padana potrebbe essere l’espressione della tornada «[D]e cel qi fer as agatz» (v. 31) ‘Di colui che ferisce negli agguati’, che richiama il senhal Saill d’Agaiz del componimento di Peire de la Caravana, D’un serventes faire (BdT 334.1), rivolto alle città lombarde affinché respingano le pretese dell’imperatore e fermino i suoi soldati tedeschi. La distanza cronologica è notevole: Grimaldi 2013, pp. 29-32, 53-68 data il testo di Peire de la Caravana al 1226 e in Saill d’Agaiz, «balza-dagli-agguati» o «scansa, evita agguati», propone dubitativamente di identificare Ezzelino da Romano, assalito dal Rizzardo di San Bonifacio in un agguato. La concordanza lessicale potrebbe essere spia di un medesimo ambito geografico di elaborazione del testo o del suo pubblico potenziale, ma non si può andare oltre il livello dell’ipotesi e, ad ogni modo, nel baron non si può riconoscere il conte di San Bonifacio per la detta incompatibilità cronologica e per la costanza politica guelfa dei San Bonifacio (cfr. Barachini 2017, pp. 100-101).

Del resto, in altra direzione conduce la provenienza del canzoniere P, di area toscana, con probabili contatti con le corti malaspiniane (su questa tradizione cfr. Asperti 1995, pp. 163-195; Grimaldi 2011; Resconi 2014a, pp. 316-322 e Resconi 2014b; Viel 2016, in part. pp. 255-259). Il recupero di un sirventese militante, in questo codice, avviene per interesse politico forse regionale e la menzione di Federico Malaspina rende il sirventese collocabile o fruibile in Toscana a vantaggio del partito guelfo e contro il partito ghibellino. In definitiva, quel che viene descritto nel sirventese è il quadro politico dell’Italia settentrionale dopo la battaglia di Cassano da un punto di vista guelfo e toscano: Federico, che l’autore indica come mon segnor (epiteto che, se non vogliamo prenderlo alla lettera, qualifica comunque l’autore come suo sostenitore e simpatizzante), è il cardine attorno a cui ruotano gli altri personaggi; se Federico fu coerentemente guelfo, altri personaggi vengono stigmatizzati come incostanti e opportunisti. Se la sua morte vale come terminus ante quem, anche quella di Azzo VII d’Este (febbraio 1264) potrebbe essere utile a circoscrivere meglio l’ambito cronologico del sirventese. In considerazione di tutti gli elementi a disposizione, è possibile che il testo vada riportato al 1260 o per i fatti di Piacenza o, in prospettiva toscana, data menzione dei pisani e dei lucchesi, per la battaglia di Montaperti o per entrambi gli eventi nei quali Federico fu coinvolto. La direttrice che viene descritta è quella che va da Cremona (Boso), attraverso Piacenza e Parma (Oberto), fino alla Lunigiana e alla Versilia (una delle principali strade che scendevano, fin dall’epoca romana, dalla pianura padana nell’Italia centrale); lungo questa direttrice si scontravano gli interessi guelfi a sud (Federico Malaspina e vari comuni toscani tra cui le prossime Pisa e Lucca) con gli interessi ghibellini a nord (Oberto – e Boso; su tutto cfr. Barachini 2017, pp. 101-103).

 

 

Bibliografia

 

Annales Placentini

Annales Placentini Gibellini, edidit Georgius Henricus Pertz, in MGH. SS, vol. XVIII, 1863, pp. 457-581.

 

Asperti 1995

Stefano Asperti, Carlo I d’Angiò e i trovatori. Componenti «provenzali» e angioine nella tradizione manoscritta della lirica trobadorica, Ravenna 1995.

 

Barachini 2017

Giorgio Barachini, «La lotta delle partes in un sirventese anonimo del Duecento (BdT 461.180)», in L’Italia dei trovatori, a cura di Paolo Di Luca e Marco Grimaldi, Roma 2017, pp. 75-110.

 

BEdT

Bibliografia Elettronica dei Trovatori (versione 2.5), dir. Stefano Asperti (www.bedt.it).

 

Bertoni 1915

Giulio Bertoni, I trovatori d’Italia. Biografie, testi, traduzioni, note, Modena 1915.

 

Caïti-Russo 2005

Gilda Caïti-Russo, Les troubadours et la cour des Malaspina, Montpellier 2005, pp. 393-398.

 

De Bartholomaeis 1931

Vincenzo De Bartholomaeis, Poesie provenzali storiche relative all’Italia, 2 voll., Roma 1931.

 

Ferretto 1901-1903

Arturo Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni tra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante (1265-1321), 2 voll., Genova 1901-1903 (Atti della Società ligure di storia patria, 31/1-2).

 

Folena 1990

Gianfranco Folena, Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova 1990.

 

Grimaldi 2011

Marco Grimaldi, «Svevi e Angioini nel canzoniere di Bernart Amoros», Medioevo romanzo, 35/2, 2011, pp. 315-343.

 

Grimaldi 2013

Marco Grimaldi, «Il sirventese di Peire de la Caravana», Cultura neolatina, 73, 2013, pp. 25-72.

 

Peron 1992

Gianfelice Peron, «Una congiura del silenzio: testi letterari e fine dei da Romano», in Nuovi studi ezzeliniani, a cura di Giorgio Cracco, Roma 1992, pp. 523-536.

 

Resconi 2014a

Stefano Resconi, Il canzoniere trobadorico U. Fonti, canone, stratigrafia linguistica, Firenze 2014.

 

Resconi 2014b

Stefano Resconi, «La lirica trobadorica nella Toscana del duecento: canali e forme della diffusione», Carte Romanze, 2/2, 2014, pp. 269-300.

 

Viel 2016

Riccardo Viel, «Stratigrafia e circolazione dei canzonieri trobadorici in Toscana: il punto su alcuni recenti contributi», Critica del testo, 19/1, 2016, pp. 255-263.

 

Giorgio Barachini

21.xi.2019


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