Rialto

156.2

 

 

 

Falquet de Romans

 

 

 

 

 

 

Aucels no truob, chantan,

 

 

ni no vej flor novella,

 

 

mais ieu no·m laiss de chan

 

 

ni de joi, qui·m n’apella.

5

 

En joi hai tot mon cor,

 

 

q’hom no sai q’ora·s mor,

 

 

e ma domna·m te let,

 

 

q’ab joi plagen

 

 

mon fi cor gazaignet,

10

 

per q’ieu li·m ren,

 

 

q’ainch puois no fui ses joi noit ne dia.

 

 

 

 

 

De joi deu far scemblan

 

 

qui fin’amors capdella,

 

 

per q’ieu fach son coman,

15

 

qar tan gen me cembella;

 

 

q’en tal hai mess mon cor

 

 

c’onors m’er si lai muor,

 

 

qe s’amors me naffret

 

 

tan douchamen

20

 

q’insz en mon [cor] m’intret

 

 

jogan riszen;

 

 

totz soi sieus, q’aissi foss ella mia!

 

 

 

 

 

Tan l’am de bon talan

 

 

qe·l cor me ressautella

25

 

qez ainch no amet tan

 

 

Tristanz Ysolt la bella.

 

 

Q’ieu sai de mon fin cor

 

 

qe per sobramar mor,

 

 

q’ainch mais hom no amet

30

 

tan coralmen,

 

 

ni meillz no atendet

 

 

son joi soffren,

 

 

q’aissi conqer amichx bon’amia.

 

 

 

 

 

Qui me·n vol tener dan

35

 

haja en son oill postella,

 

 

q’ieu hai temencha gran

 

 

qan nigus li favella.

 

 

Domna, hajasz chai·l cor,

 

 

que[·l] mieus es lai qe mor,

40

 

q’ainch u[n] jor no·m  loignet

 

 

vostre cors gen,

 

 

ni no desziret

 

 

tan coralmen.

 

 

Lass, ar crei qe·l dezir[ier]s  m’aucia!

 

 

 

45

 

A l’emperador man,

 

 

pos valors renovella,

 

 

qe mov’ab esfortz gran

 

 

contra la gen fradella,

 

 

ez haja en Dieus son cor,

50

 

que Sarrazi e Mor

 

 

han tengut li destret

 

 

trop lonjamen

 

 

la terra on Dieus nasqet

 

 

e·l monumen,

55

 

e taing be que per lui cobrat sia.

 

 

 

 

 

Ricx hom q’es d’avol cor

 

 

fai be lo jor qe mor,

 

 

e sonn alegr’e let

 

 

fil e paren,

60

 

q’aicho q’el amasset

 

 

parton rien.

 

 

Gardasz si fai foldat qi s’i fia!

 

 

 

 

 

N’Oth del Caret,  bo cor

 

 

havesz, on presz no mor,

65

 

q’ainch  nuillz  bars  no reignet

 

 

plus franchamen,

 

 

ni gencheis no onret

 

 

home valen,

 

 

per q’ieu am la vostra seignoria.

 

 

 

Testo: Larghi 2009. – Rialto 12.xii.2009.


Ms.: L 32r.

Edizioni critiche: Rudolph Zenker, Die Gedichte des Folquet von Romans, Halle 1896, p. 50; Vincenzo de Bartholomaeis, Poesie Provenzali Storiche relative all’Italia, Roma 1931, 2 voll, II, p. 40; Raymond Arveiller, Gérard Gouiran, L’oeuvre poetique de Falquet de Romans, Troubadour, Aix-en-Provence1987, p. 59; Gerardo Larghi, Rialto 12.xii.2009.

Metrica: a6 b6’ a6 b6’ c6 c6 d6 e6 d6 e4 f9’ (Frank 399:1). Cinque coblas di undici versi e due tornadas di sette versi ciascuna. Nel testo sono facilmente individuabili alcune rime equivoche-identiche (rien vv. 21 e 61, coralmen vv. 30 e 43, gran vv. 36 e 47), un rims derivatiu (v. 1 chantan e v. 3 chan), e rime refrains (i vv. 5, 6, 16, 17, 28, 38, 39, 49, 50 [?], 56, 57, 63, 64. Al v. 50 Falquet sostituisce una rima refrain con una rima equivoca).

Note: Canso-sirventes composta certamente tra la fine del 1220 e il 1224/1225, vale a dire tra il momento dell’incoronazione imperiale di Federico II (cf. i versi 45-46 «A l’emperador man, / pos valors renovella»), e quando il poeta di Romans concluse il proprio soggiorno presso Otto del Carretto (cf. i vv. 63-64 «N’Oth del Caret, bo cor / havesz, on presz no mor»), per partire verso la Provenza. Falquet scrisse la sua opera sicuramente mentre era ospite del barone arduinico, come dimostrano i versi 65-69 «q’ainch nuillz bars no reignet / plus franchamen, / ni gencheis no onret / home valen, / per q’ieu am la vostra seignoria». Il rilievo assicurato nella canzone sirventese al tema della crociata indurrebbe a porne l’ideazione nell’immediato ridosso della partenza di Federico verso le terre oltremare (cioè tra 1226 e 1227). Se si considera però che il poeta delfinate nel 1226 era già in Provenza (come dimostra ineludibilmente la canzone di crociata BdT 156.11 Quan cug chantar eu planc e plor) e che tra 1223 e 1224 l’attenzione del mondo occidentale fu concentrata soprattutto sulla spedizione in Grecia di Guglielmo VI di Monferrato, converrà situare la composizione di Aucels no truob proprio pochi mesi prima della partenza di Falquet verso le regioni bagnate dal Rodano. – Dal punto di vista letterario la poesia si apre con un tradizionale inizio autunnale, ciò che ne fa un unicum nel canzoniere di Falquet, poco incline anche a ricorrere ai classici incipit primaverili. La prima strofa si organizza interamente intorno al tema del joy, che nella seconda e terza cobla si ricollega a quello della fin’amor. Lo sviluppo successivo della poesia si organizza intorno al binomio amore-morte: centro motore di tutto il componimento, infatti, sono le rime refrain cor : mor. Proprio la tensione poetica che si crea tra questi due poli consente a Falquet di associare la consueta immagine dell’amante che sta morendo di passione alla figura del crociato. Entrambi, infatti, periscono per amore: il pellegrino combattente spinto dal richiamo della Terra Santa, l’amante a causa del sentimento provato per una donna. Amore sacro e amore profano si allineano perciò lungo l’unico asse del servizio, sia questo prestato alla dama o a Dio. – Al v. 1, aucels: conviene conservare la forma tradita dal manoscritto, pur se questo spesso contiene errori di morfologia e anche se il sostantivo al plurale presenta seri problemi interpretativi, complicazioni che hanno indotto i precedenti editori a respingere la lezione dell’unico testimone. Secondo Arveiller-Gouiran, Falquet, infatti, la lezione flor novella, singolare di un nome collettivo, sarebbe stata mal intesa dai copisti che la avrebbero perciò corretta in un plurale. Un simile intervento avrebbe provocato un contrasto, legato alle necessità della rima, con il singolare novella, mentre chantan, gerundivo, non sarebbe accordato né con truob né con l’oggetto aucels: in una simile ipotesi flor novella sarebbe da considerare lectio difficilior e chantan andrebbe interpretato come un participio presente. È sufficiente però riconoscere in chantan un gerundio per ottenere un senso perfettamente comprensibile senza essere costretti ad intervenire. – Al v. 4, qui·m n’apella: de Bartholomaeis, Poesie: «tuttavia io non mi distolgo dal canto né dalla gioia che mi chiama». Ma apellar, oltre che «chiamare», significa anche «domandare» (PD, s. v.). Questo significato sembra anzi più adeguato, interpretando inoltre qui come si quis (= se qualcuno). – Ai vv. 5-6, Carl Appel, «rec. di Rudolph Zenker, Folquet von Romans», Literaturblatt fur germanische und romanische Philologie 17, 1896, col. 168, traduce così: «niemand weiss wann er stirbt». Sono possibili differenti letture del passo. Una esegesi nasce dalla spiegazione di mor quale prima persona singolare: «io, un uomo, non conosco l’ora della mia morte e la mia donna mi conserva nella felicità». È l’interpretazione prescelta dagli editori più recenti (Arveiller-Gouiran, Falquet), ma in tal caso la rima mor non sarebbe più terza persona singolare come nei restanti versi (con la sola eccezione del v. 50 dove la rima sta per «i mori»). La seconda proposta di lettura si basa sulla definizione di sai come terza persona singolare del presente indicativo e tale idea fu accolta da Zenker, Gedichte; Appel, rec., col. 168 e Adolfo Mussafia, «Zur Kritik und Interpretation romanischer Texte», Sitzungsberichte der Philosophisch-Historisch Classe der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften, 134, 1985, p. 31. È pur vero però che la variante sai per sab non è attestata altrove e che accogliendola siamo stati costretti a recepire a testo una lezione morfologicamente incerta ma tale opzione è parsa la più economica anche sulla base di Reinhild Richter, Die Trobadourzitate im Breviari d’Amor. Kritische Ausgabe des provenzalischen Uberlieferung, Modena 1976, p. 93, che ha individuato una variante fai per fa terza persona singolare del presente indicativo (la forma è trasmessa da un gruppo di manoscritti orientali). Una terza soluzione consisterebbe nel modificare sai in sa o sa[b]. – Al v. 8, plagen: la grafia g per /z/ da –C(E, I), T(I) è segnalata anche da Max Pfister, «La localisation d’une scripta littéraire en ancien occitan (BrunelMs 13, Britisch Museum 17920)», Travaux de Linguistique et de Littérature, 10, 1972, pp. 253-291, a p. 266 Altrove in questa poesia (cf. vv. 19, 34) si ha anche l’esito ch. – Al v. 13, Gotthold Naetaebus, «rec. di R. Zenker, Folquet von Romans», Archiv fur das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, 98, 1896, p. 209, propose di sostituire qui con cui. Ma l’intervento non è necessario. – Per il significato di cembella, v. 13, si veda Emil Levy, SW, s. v. cembelar. In rima anche in PVid, BdT 364.36, v. 27 «per que.m train’e·m sembella», BdT 364.41, v. 9 «as ilh o fai si cum selh que sembella» (ed. D’Arco Silvio Avalle, Peire Vidal. Le poesie, Milano-Napoli 1960). Su cembel, e i suoi significati, si veda invece Walther von Wartburg, Französische Etimologische Wörterbuch, Leipzig 1922 (poi Basel 1944), vol. XII, p. 1611. – Sulla costruzione jogan riszen del v. 21, assai diffusa in occitanico, si veda almeno Oskar Schultz-Gora, «Unvermitteltes Zusammentreten von zwei Adjectiven oder Partizipien im Provenzalischen», Zeitschrift fur Romanische Philologie, 16, 1892, pp. 513-517, a p. 514. – Al v. 24, la correzione ressautella per ressancella fu proposta già da François Just-Marie Raynouard, Lexique roman ou dictionnaire de la langue des troubadours, 6 voll., Paris 1836-1844, vol. 5, p. 143, e ad essa fecero buona accoglienza Appel, rec., col. 168; Raymond Arveiller, «Quelques remarques sur Falquet de Romans», in Mèlanges de philologie romane dèdiès à la mèmoire de Jean Boutière, Liège 1971, pp. 5 sgg., a p. 16 (sulla base di ottime ragioni paleografiche); Arveiller-Gouiran, Falquet. Zenker, Gedichte, preferì invece la lezione ressaucella, analoga a resarcellar (cf. oil resarcir, «riprendere forza»); Mussafia, Kritik, a sua volta accostò la forma all’antico francese resancier, «rendre la santé». In realtà resautellar obbliga solo ad un minimo intervento correttivo e si rivela dunque preferibile. Ad appoggio di questa tesi si possono citare passi quali la glossa che compare in un codice dell’Alexandreis edita da Raffaele de Cesare, «Glosse latine e antico francesi all’Alexandreis di Gautier de Châtillon», Milano 1951, p. 57: «et quem conceperat ante ampliat affectum, cordisque reverberat aures» chiosato «reverberat: idest iterum et iterum verberat. Quasi dicat: li cuer li sauteloit». Su ressauter si vedano anche gli appunti in Gilles Roques, «Notes de lexicographie critique», Travaux de Linguistique et de Littèrature, 24, 1986, pp. 217-237, a p. 234 s. v. ressauter. – Ai vv. 38-40, Zenker, Gedichte, stampò que·l mieus. Appel, rec., col. 168 tradusse «Herrin, habet hier (weshalb cha.l statt chail der Hs?) das (nämlich euer) Herz, denn das meine ist dort, welches stirbt, denn nimmer enfernt (mir oder nom zu non) von euch», proponendo di considerare dunque il secondo qe del v. 39 alla stregua di una congiunzione causale. De Bartholomaeis, Poesie, II, p. 42, invece interpretò così il passo: «Donna, abbiate qui il mio cuore, che è mio fino alla morte: nemmeno un giorno [esso] allontanò da me la nostra gentile persona», con una interpretazione che non pare corretta. Arveiller-Gouiran, Falquet, pp. 67-68, al termine di un esame delle differenti proposte, ripiegarono sull’indicazione di Mussafia, Kritik, e Appel, rec., correggendo qe in qe·l al v. 39, traducendo così: «Madame, ayez votre coeur ici (près de moi), car le mien est là bas (près de vous) en train de mourir», e glossando «il s’agit d’un échange de coeurs et la prière était déjà annoncée au v. 22». È la soluzione adottata anche qui. Un’ulteriore ipotesi consisterebbe nell’interpretare mor quale prima persona singolare del presente indicativo di morir, evitando così di intervenire sul qe. Inoltre si potrebbe anche intendere vostre cors gen come soggetto di no·m loignet (e rendendo «e il vostro cuore gentile non mi allontanò [da sé]». Qe ha il valore temporale largamente attestato nei repertori lessicografici, come in Levy, SW, vol. 4, s. v. – Al v. 38, fradella: in rima pure in altri passi trobadorici, quali Peire d’Alvernha (Peire d’Alvernhe, Poesie, a cura di Aniello Fratta, Manziana 1996), BdT 323.15, v. 13 «q’una puta gens fradelha», Peire Vidal (ed. Avalle, Poesie), BdT 364.36, v. 58 «contr’aquesta gen fradella» (riferito come nel nostro caso alle popolazioni mussulmane che avevano riconquistato Gerusalemme ed i luoghi santi: in questa poesia del tolosano hanno larga parte le invocazioni alla crociata). – Al v. 50, mor: rima equivoca. In occitanico la forma regolare sarebbe maur, ma è attestata anche l’oitanizzante mor. – Al v. 51, la lezione ni del ms. è errata giacché li articolo non ha funzione di cas régime (cf. in particolare Edouard Philipon, «Morphologie du dialecte lyonnais aux XIIIe et XIVe siècles», Romania, 30, 1901, pp. 213-294, a p. 218 e Brigitte Horiot, «Recherches sur la morphologie de l’ancien franco – provençal», Revue de Linguistique Romane, 36, 1971, pp. 1-74, p. 12, ed infine Frede Jensen, The Syntax of Medieval Occitan, Tübingen 1986, §§ 199-200). Ciò esclude che si possa interpretare il passo in questo modo: «poiché i Saraceni e i Mori hanno assoggettato troppo a lungo la regione e la terra dove Dio nacque», vale a dire con destret (da destrenher, con valore di “district” [Raynouard, Lexique, vol. 3, p. 229]), complemento oggetto di tengut. I critici hanno proposto differenti esegesi. Appel, rec., col. 168 ipotizzò di correggere li in lai e che si dovesse interpretare destret alla stregua di un participio da destrenher. A sua volta Oskar Schultz-Gora, «rec. di R. Zenker, Folquet von Romans», Literaturblatt fur germanische und romanische Philologie, 17, 1896, coll. 626-627 propose di emendare en destret. La soluzione adottata da Arveiller-Gouiran, Falquet, prevede che destret sia un sostantivo soggetto (cioè li destret «la terre»), ma essa obbliga ad accogliere a testo un errore in rima giacché in tal caso la e chiusa si sarebbe mutata in e aperta. Le Leys ammettono queste imperfezioni nei testi trobadorici, ma non risulta che Falquet incorra mai in queste rime anomale. La strada più esatta potrebbe essere stata indicata da Appel, rec., ma rispetto alla proposta del filologo tedesco forse sarebbe meno complesso modificare li con ni. È pur vero, infatti, che la variante lai/li si può paleograficamente giustificare meglio, ma sembra più economico optare per una leggerissima correzione (li >ni) perfettamente comprensibile e che ha il pregio di restituire una iterazione. – Al v. 50, sonn: lecita anche la divisione son·n; let: generalmente associato a joyos non ne mancano neppure gli esempi con alegre, come dimostra Arnulf Stefanelli, Die Synonymenreichtum des altfranzösichen Dichtersprache, Wein 1967, p. 226. – Al v. 61, rien: sulla spirantizzazione e la scomparsa della dentale intervocalica si veda l’articolo di Max Pfister, «Die Anfänge der altprovenzalischen Schriftsprache», Zeitschrift fur Romanische Philologie, 86, 1970, pp. 305-323, alle pp. 311 n. 17 e 312 n. 22. – Ai vv. 63-69, bo: Zenker, Gedichte, Giulio Bertoni, I Trovatori d’Italia: biografie, testi, traduzioni, note, Modena 1915, p. 21 n. 1, e de Bartholomaeis, Poesie, II, p. 42 stampano lo; la correzione, secondo la lezione esatta del manoscritto, è stata di Arveiller, Remarques, p. 18, il quale ha anche confermato che nel testimone unico si rinviene la lezione ondret già congetturata da Bertoni, Trovatori. Infine Appel, rec., col. 168 aveva emendato genchers in gencheis (si veda Naetaebus, rec., col. 209). Arveiller-Gouiran, Falquet, hanno invece preferito conservare genchers del manoscritto (cioè «ni plus aimable n’a honoré un homme de valeur») pur giudicando «tentante» l’ipotesi di correzione qui accolta a testo.

[GL]


BdT    Falquet de Romans    Ed. Arveiller-Gouiran