Testo: Beggiato 1988. – Rialto 7.vii.2009.
Mss.:
A 9r (senza rubrica, ma è la prima di Peire d’Alvernhe dopo la sua vida), B 33r
(senza rubrica, ma è la prima di Peire d’Alvernhe dopo la sua vida), C 175v (Marcabru), D 1v
(Peire daluergne), E 45a (Peire daluernhe), I 11v (Peire
daluerne), K 1v (Peire daluerne), N 254v (257v) (Senza rubrica, ma
è la prima di cinque poesie di Peire d’Alvernhe), N2
20r (Peire dal verne), R 29v (.B. marti), z 1 (adespota, ma inserita nei
testi di Peire d’Alvernhe, e acefala, dal v. 32 «[…] preiz niualor»
alla fine). Il primo indice di C, che inserisce l’incipit di BdT 323.5
al sedicesimo posto tra quelli dei testi marcabruniani, aggiunge ad esso una
seconda attribuzione a Bernart Marti in accordo con R, nel secondo indice di C
il testo viene riattribuito a Marcabru.
Edizioni critiche:
Rudolf Zenker, Peire d’Auvergne. Die lieder, Erlangen 1900, p. 659; Ernest Hoepffner, Les poésies de Bernart
Marti, Paris 1929, App. 1, p. 33; Fabrizio Beggiato, «Belha m’es la flors
d’aguilen (BdT 323, 5)», Cultura neolatina, 48, 1988, pp. 86-112, a p.
90.
Altre edizioni:
François-Just-Marie Raynouard, Choix des poésies originales des troubadours,
Paris 1816-1821, 6 voll., vol. IV, p. 295 (ms. C); Carl August Friedrich Mahn,
Die Werke der Troubadours in provezalischer Sprache, 4 voll., Berlin
1846-1853, vol. I, p. 96 (ms. C); Carl August Friedrich Mahn, Gedichte der
Troubadours in provenzalischer Sprache, 4 voll., Berlin 1856-1873, vol. IV,
p. 127, n° 1317 (ms. B, ed. diplomatica); Alfred Pillet, Archiv für das
Studium der neueren Sprache und Literaturen, voll. 1-180, Berlin,
1846-1941, 102, p. 195, (ms. N2); Vincenzo De Bartholomaeis, «Avanzi di un
canzoniere provenzale del sec. XIII», Studj romanzi, 12, 1915,
pp.139-186, a p. 146 (ed. diplomatica dal v. 32 alla fine. De Bartholomaeis
propose di attribuire al frammento la sigla q, in seguito essa è stata
cambiata da François Zufferey, Recherches linguistiques sur les
chansonniers provençaux, Genève 1987, in z).
Metrica:
Il sirventese si compone di otto coblas
unissonans di sei ottosillabi più una tornada di due versi che
riprendono le ultime due rime della strofa finale, lo schema (Frank 403: 3) è
il seguente: a b a b c d; le rime: -en, -or, -enh, -au.
Dal repertorio del Frank si desume che tale schema è stato utilizzato in altri
cinque casi: Peire de Blai, BdT 328.1: En est so fatz chansoneta
novela, Cercamon, BdT 112.4: Quant l’aura doussa s’amarzis,
una cobla esparsa anonima, BdT 461.228: Tals lauza Dieu e
salmeja, Marcabru, BdT 293.36: Per l’aura freida que guida e
Peire Raimon de Toloza, BdT 355.12: Pos lo prims vergans botona.
In nessuno di questi casi viene usata alcuna delle rime di 323.5; l’unico caso
in cui la forma metrica corrisponde è quello di Cercamon, una canzone di nove
coblas unissonans di sei ottosillabi più due tornadas di due
versi che, teoricamente, potrebbe aver fornito il modello per un
contrafactum: essa, infatti, presenta le condizioni di base per tale
procedimento che, secondo gli studi effettuati dal Marshall, avviene per la
poesia lirica provenzale, di regola, appunto da canzone a sirventese e non
viceversa. Fra 323.5 e la summenzionata canzone di Cercamon non sussistono,
peraltro, elementi di riscontro sul piano tematico o su quello espressivo. Il
testo di Marcabru è un sirventese di sette strofe (ma con una probabile lacuna
fra la seconda e la terza) di sei eptasillabi (7’77’77’7’) più una tornada
di due versi. Le rime sono: -ida, -or, -ina, -ana
(con inversione di e d: -ana, -ina, a strofe alterne), la forma
metrica non corrisponde e non si può, quindi, ipotizzare la possibilità di
contrafactum ma (a parte, la concomitanza in sede b della rima in -or,
non rara) non è del tutto da escludere un’influenza di questo testo nella
scelta dello schema metrico di 323.5 dato che sussistono riscontri tematici e
lessicali fra le due poesie. Gli altri tre casi non presentano motivi di
comparazione oltre alla sequenza delle rime. Le parole in rima presentano
sicuramente aequivocatio in quattro casi: gen (agg.) 7: gen
(sost.) 39; senhor 16: Senhor 40; prenh (v.) 23: prenh
(agg.) 29; destrenh (v.) 11: destrenh (sost.) 35.
Note:
Per il commento al testo nel suo complesso si rinvia all’edizione a cura di
Beggiato,
«Belha m’es»
ed agli aggiornamenti bibliografici, qui di seguito si esporranno le questioni
relative alla settima strofa del sirventese Belha m’es la flors d’aguilen
in quanto il testo in questione assume, in forma parziale, lo statuto di
canzone di crociata solo sulla base di tale strofa, presente in tutta la
tradizione manoscritta, ad eccezione del canzoniere R. La settima strofa (vv.
37-42) contiene elementi sulla base dei quali è possibile avanzare ipotesi
circa la datazione e l’attribuzione del testo. – Ernest Hoepffner,
nell’edizione di 323.5 allegata in appendice alla sua edizione delle poesie di
Bernart Marti (Les poesie de Bernart Marti, Paris 1929, p. 62) nella
nota al v. 37 questo verso afferma: «Comme si souvent dans cette chanson C
seul donne la bonne leçon contre α E [= ε]». Pur concordando, nel complesso,
con tale osservazione, in questo caso la lezione di C en Orien sembra
attratta dal verbo guiza del verso successivo e dovuta ad
incomprensione della specificazione toponimica d’Orien accolta, invece,
negli altri manoscritti. In effetti l’espressione Sancta Maria d’Orien
può far nascere qualche perplessità: apparentemente sembra far parte della
sterminata serie degli appellativi con i quali la devozione mariana si è
rivolta alla Vergine, nel corso dei secoli, in orazioni, litanie, inni ecc. In
realtà, se si cercano in testi mediolatini riferimenti che possano individuare
una consuetudine espressiva che sia lecito supporre fonte dell’appellativo in
questione, non si trova nessun caso in cui al nome di Maria sia accostata la
specificazione “d’Oriente”. Non sono particolarmente numerosi, del resto, i
casi in cui vengono usati il participio presente oriens o l’aggettivo
orientalis per esprimere la qualità di Maria “origine del Salvatore”,
“fonte di redenzione” o “luce nascente” come in Gregorio Taumaturgo: «Oriens
solis intelligibilis» (Oratio secunda De Annuntiatione, in Summa
Aurea de Laudibus Beatissimae Virginis Mariae, a cura di J.J. Bourassé,
Paris 1866, XIII, p. 347) S. Pier Damiani: «Aurora de qua nascitur sol
iustitiae, oriens orientis, parens parentis, origo sui principii» (Sermo
primo et tertio De Nativitate Virginis in Summa Aurea, XIII, p.
350. Cfr. P.L. 144. 740 ss. e 756 ss.) e «Tu lux oriens Nazareth, tu gloria
Hierusalem, tu laetitia Israhel» (Lectiones ad matutinos quotidianis diebus,
Lectio secunda, P.L. 144, 192 ss. Cfr. H. Barre, Prières anciennes de
l’Occident a la Mère du Sauveur, des origines a Saint Anselme, Paris 1963,
p. 220), o nello Pseudo Bonaventura: «Splendor et lux orientalis» (litania in
strofe di tre versi rimati conservata in due manoscritti parigini del XV
secolo; cfr. G. G. Meersseman, Der Hymnos Akathistos im Abendland, 2
voll., Fribourg 1958-1960, II, p. 241) o già nella versione in prosa di
Gondraco di Reims (890 circa) del Carmen in laude Sanctae Mariae di
Venanzio Fortunato: «Cuius nomen honoris est: Oriens ex alto qui nos visitat»
(Meersseman, Der Hymnos, I, p.140). Ulteriori ricerche negli
Analecta Hymnica (G. M. Dreves e C. Blume, 55 voll., Leipzig 1886-1922) e
nel repertorio dello Chevalier (C. U. Chevalier, Repertorium Hymnologicum,
6 voll., Louvain 1892-1920) non hanno dato frutto. Sembra risultare, quindi,
che tali denominazioni della Vergine debbano inserirsi nella devozione che
trae origine dalla speculazione cristologica (o trinitaria) così come quelle
imperniate sull’immagine della “stella”, anch’esse presenti in contesti
caratterizzati dal gusto per la schematizzazione simmetrica dei concetti, come
in una sequenza del XII secolo: «Latet sol in sidere / oriens in vespere /
artifex in opere» (Cfr. D. Zorzi, Valori religiosi nella letteratura
provenzale, pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (vol.
XLIV), Milano 1954, p. 190 ) o nel Salterio di S. Edmund (+ 1242): «Ave, solis
aurora nuntia/ vera stella fulgoris previa/ exclusisti noctem nequitia/
produxisti solem iustitie/ o, ianua solis» (Meersseman cit., II, p.101). Per
quanto riguarda la lirica provenzale, gli autori di testi dedicati alla
Vergine, o che ad essa alludono, fanno uso degli appellativi consueti nella
tradizione mediolatina come Peire de Corbiac che in Domna dels angels
regina si rivolge a Maria con le espressioni: «Estela del solelh maire /
noirissa del vostre paire» (vv. 13-14) e «Domna estela marina» (v. 41) o come
Pons de Capdoill (BdT 375.8): «Lums et estela e clartatz» (Cfr. D.
Scheludko, Die Marien Lieder in der altprovenzalischen Lyrik, in
Neuphilologische Mitteilungen, XXXVI. 1935 1/2, pp. 29-48). Prima di
queste testimonianze abbastanza tarde (in effetti la teologia e la
spiritualità mariane si diffondono nel XIII secolo, soprattutto per opera dei
domenicani) troviamo soltanto l’allusione di Marcabru XXXV, 34 alla «estela
gauzignaus» (GALLICINIALIS, “stella mattutina”) e quella di Bernart de Venzac
VI, 36 «Belh’ estela d’Orian» che risulta essere, per la sua forma, la più
vicina al caso in questione (un altro ʻrepertorio’ di appellativi mariani in
provenzale è Lo tractat dels noms de [la] Mayre de Dieu, pubblicato da
Paul Meyer in appendice alla canzone di gesta Daurel e Beton, Paris
1880. Ne rimangono 289 versi, anche qui figura, fra altri appellativi
tradizionali, «Clar’ estela» v. 57). Da tutto ciò si ricava l’impressione che
«Sancta Maria d’Orien» non sia l’ennesima variazione di un appellativo
mariano: l’espressione potrebbe, invece, aver indicato un toponimo, un luogo
in cui, ad esempio, fosse venerata un’immagine della Vergine preposta alla
guida di chi, pellegrino o crociato, dovesse recarsi in Terra santa. Nella
Histoire illustrée des Pélerinages Français de la très Sainte Vierge, a
cura di J.E.B. Drochon, Paris 1890, figurano due chiese intitolate a Notre
Dame d’Orient. La meno interessante è una cappella vicino a Vézelay
(Champagne, diocesi di Sens) consacrata l’8 settembre del 1857 (pag. 1249),
l’altra è una chiesa con un Santurio a S. Sernin-sur-Rance (Rouergue, diocesi
di Rodez) della quale risulta (pag. 522) «d’un bref de Benoit XII, en 1336,
que les chevaliers de Saint-Jean de Jérusalem prétendaient, a titre de patrons
de ce sanctuaire, jouir de tous les revenus. Un autre document du mois de mai
1281 nous montre, auprès de N.D. d’Orient, un ermite, dont la vie s’écoulait
au service des pelerins». L’Histoire del Drochon non fornisce altre
precisazioni ma in una pubblicazione a cura di J. Bousquet (già direttore
degli Archivi dell’Aveyron e professore di Storia dell’Arte medievale presso
l’Università Paul Valéry di Montpellier) relativa ad una mostra d’arte mariana
tenuta a Rodez nel 1951, si afferma che il pellegrinaggio a Notre Dame d’Orient
è segnalato in carte del XII secolo come già antico e che il primitivo
oratorio affidato ad un eremita passò poi ai preti di S. Sernin-sur-Rance
(Cfr. J. Bousquet, Notre Dame en Rouergue, Rodez, 1951). Vi è tuttora venerata
una statua della Vergine, alta tre metri, che sostituisce quella antica
scomparsa durante la Riforma. In effetti l’Ordine degli Ospitalieri si era
insediato nel meridione francese sin dai primi anni del XII secolo: il primo
priorato costituito in occidente fu quello di St. Gilles, porto d’imbarco dei
pellegrini e dei crociati che andavano in Terra santa. Nel 1113 Pasquale II
ratificava i possedimenti dell’Ordine e l’anno successivo Raimon Berenguer III
conte di Barcellona lo esentava dai pedaggi sulla Durance: prima della fine
del XII secolo il Priorato di St. Gilles si estendeva su Provenza, Languedoc,
parte della Catalogna e dell’Aragona. In questo periodo vengono effettuate nel
Rouergue numerose donazioni all’Ordine degli Ospitalieri come risulta dalla
documentazione dell’Ordine stesso nonché da altre raccolte di carte relative a
questa regione (molti esempi, datati fra il 1160 e il 1190, in C. Brunel,
Les plus anciennes chartes en langue provençale, 2. voll., Paris 1926 e
1952). Ma anche nel secolo XI, quando i pellegrinaggi in Palestina erano
frequenti (prima dell’invasione dei Turchi Selgiuchidi), avvengono fondazioni
di chiese collegate alla devozione per i luoghi santi e per esse viene
adottato lo schema architettonico a pianta centrale ispirato al Tempio di
Gerusalemme come, ad esempio, per quella di Villeneuve nell’Aveyron la cui
fondazione è legata ad una donazione fatta da Ozil de Morlhon, durante il suo
pellegrinaggio, al Patriarca di Gerusalemme, Sofronio, e confermata poi, con
feudo ed allodo, all’abazia di Moissac con atto databile prima del 1053. La
continuità e la diffusione delle donazioni motivate da questo genere di
devozione sono documentate fino al secolo XIII sia in questa zona sia in
altre, anche della Francia centrale. Particolarmente interessante è una carta,
pubblicata nel cartolario generale dell’Ordine degli Ospitalieri, del 1270 (o
1271) in cui Ugo di Brienne conferma di aver «establie e fundée une chapelenie
en l’amor de la benoite virge Marie en la maison de l’Ospital de Sain Jehan qu’an
dit Oriant ou conte de Brienne». Sembra, pertanto, legittimo ritenere che
anche nella diocesi di Rodez, a S. Sernin (oggi sur-Rance), esistesse fin dal
XII secolo una chiesa intitolata a Sancta Maria d’Orient alla quale poteva
riferirsi la settima strofa inserita nel sirventese in esame per invocare sui
crociati, prossimi a partire, la protezione della Vergine. – Al v. 38, secondo
la lezione dei mss. ABIKNN2z «·ls reis» dovrebbero essere Filippo II Augusto
ed Enrico II Plantageneto, prima della morte avvenuta il 6 luglio 1189, o suo
figlio Riccardo Cuor di Leone che proseguì il progetto di crociata paterno
facendolo rinviare al 1190; «l’emperador» sarebbe Federico Barbarossa che
morirà il 10 giugno 1190: si tratterebbe della III crociata, indetta da
Gregorio VIII dopo la presa di Gerusalemme da parte di Saladino nel 1187. La
composizione del testo si porrebbe, quindi, fra quest’ultima data e il
1189-90. Secondo la lezione di CDE, invece, ci si riferirebbe alla II crociata
e «·l rei e l’emperador» sarebbero Luigi VII e Corrado III crociatisi,
rispettivamente, a Vézelay il 31 marzo 1146 ed a Spira il 25 dicembre dello
stesso anno. In tal caso la composizione del testo sarebbe da assegnare al
periodo fra il 1145-46, quando, dopo la caduta di Edessa (1144) Eugenio III
indice la crociata, ed il 1147 quando, nei mesi di maggio e giugno, partono i
due sovrani. Da quanto finora esposto si possono trarre alcune osservazioni:
innanzitutto il sirventese 323.5 può essere definito un centone marcabruniano
ed il modo in cui vengono cuciti insieme gli elementi tratti da testi diversi
di Marcabru, per ricostruire un nuovo testo, configura, appunto, un
procedimento compositivo che non sembra potersi attribuire al trovatore
guascone bensì ad un suo cosciente imitatore. L’attribuzione di C a Marcabru
può essere spiegata osservando quanto avviene in R che con C ha una fonte
comune. In essa forse si trovava l’attribuzione a Bernart Marti (forse solo ad
un Bernart) che viene recepita da R, ma in contiguità si trova un testo
sicuramente marcabruniano, Bel m’es quan la rana chanta, BdT
293.11, che, sempre in
R, viene attribuito ad Alegret. Quest’ultima falsa attribuzione è stata
recepita da C, insieme a quella di 323.5 a Bernart Marti, nel primo indice ma
poi, nel secondo indice,
293.11 viene restituita a Marcabru al quale, di conseguenza, viene
“restituita” anche 323.5. Tale attribuzione potrebbe, forse, motivare in C la
lezione del verso 38 «guiza ·l rei e l’emperador» che, alludendo
implicitamente alla seconda crociata, farebbe rientrare la composizione del
testo nel periodo di attività di Marcabru. La presenza della variante ·l
rei anche in DE può essere spiegata da possibili contatti fra la fonte di
CR e un antecedente di questi due manoscritti, considerata la presenza anche
in E della tornada così come in CR. D’altra parte si deve riconoscere
che la lettura ·l rei per ·ls reis può essersi manifestata
indipendentemente nei tre codici in quanto non sembra errore tale da escludere
con certezza la possibilità di poligenesi. Ma v’è un altro elemento da
prendere in considerazione. Marcabru, a parte il caso di Cortesamen vuoil
comensar, BdT 293.15,
che, del resto, non è una canzone di crociata), non allude a crociate in
oriente data la sua ben nota propensione a promuovere, piuttosto, interventi
verso i territori occidentali dominati dai saraceni come in Emperaire per
mi mezeis, BdT 293.22, ove si allude ad Alfonso VII di Castiglia ed
a Luigi VII re di Francia (ma per esortarlo a passare i valichi dei Pirenei) o
in Pax in nomine Domini!, BdT
293.35. A parte questi
due testi, inoltre, non sembrano esserci canzoni di crociata provenzali
relative al periodo in questione (Puois nostre temps comen’a brunezir
di Cercamon e Quan lo rossinhols el folhos di Jaufre Rudel non sono
propriamente canzoni di crociata), ne possediamo una francese, anonima:
Chevalier, mult estes guariz che fa riferimento a Luigi VII (cfr. il
refrain: «Ki ore irai od Loovis / ja mar d’enfern avrai pouur…» in
Canzoni di crociata a cura di Saverio Guida, Parma, 1992, p. 44) ma non
all’imperatore. In effetti (e questa potrebbe essere un’ulteriore obiezione
alla datazione alta del testo e di conseguenza all’attribuzione a Marcabru)
Corrado III morì nel 1152 senza essere mai stato incoronato imperatore. Se la
quasi eccessiva presenza di suggestioni marcabruniane (fra l’altro su 50
parole in fine di verso ben 38 sono presenti nel lessico di Marcabru e 19 di
esse anche in rima) ha potuto contribuire all’attribuzione indicata da C ha,
non di meno, influito sull’atteggiamento dello Hoepffner il quale, basandosi
sulla convinzione che Bernart Marti sia un imitatore pedissequo di Marcabru
gli attribuisce 323.5 in accordo con R, motivando l’indicazione di C con la
somiglianza di grafia tra marti e marc [e bru] e
dichiarandosi d’accordo con lo Zenker sul rifiuto di attribuire il testo a
Peire d’Alvernhe secondo la testimonianza degli altri codici. In realtà non
sussistono riferimenti formali o sostanziali di qualche peso fra 323.5 e le
liriche di Bernart Marti (il quale fa riferimento a Marcabru citandolo
direttamente come in IX, 26-27: «ja us non er al Lavador / cels c’auzis a
Marcabru dir / q’en enfer sufriran gran fais», ma non riutilizzandolo con il
procedimento dell’autore di 323.5) e, come si è visto, l’attribuzione di R è
notevolmente compromessa dalla contigua assegnazione di 293.11 ad Alegret. La
proposta di Hoepffner risulta, quindi, motivata solo da una petizione di un
principio. Appare, dunque, preferibile riferirsi, per la datazione del testo
in esame, ad un periodo prossimo alla terza crociata, fra il 1187 (presa di
Gerusalemme da parte del Saladino) ed il 1189 (partenza per la crociata di
Federico Barbarossa e preparativi di Filippo Augusto ed Enrico II) o il 1190
(partenza di Filippo Augusto e di Riccardo Cuor di Leone succeduto al padre).
Questa cronologia porterebbe ad una ventina d’anni dopo la composizione di
Ab fina joia comensa di Peire d’Alvernhe considerato come l’ultimo testo
databile di questo autore. Si potrebbe pensare ad una composizione tardiva da
parte di Peire ormai molto anziano, tanto più che il testo, specie
nella chiusa, non presenta di certo le caratteristiche del «trobador petulante
y orgulloso de su saber» come l’alverniate viene definito, non senza ragione,
da Martín de Riquer. Ma i
riferimenti testuali fra 323.5 e la produzione di Peire sono estremamente
esili anche per le poesie di carattere moralistico o religioso. Solo l’esame
del lessico (su 50 parole in fine di verso 31 sono presenti nel lessico di
Peire, 12 anche in rima) parrebbe aumentare le probabilità in suo favore ma in
realtà se questo tipo di indagine evidenziava nel raffronto con Marcabru un
notevole impiego di termini di questo autore, non solo percentualmente ma
anche dal punto di vista testuale (come d’altronde era prevedibile dato il
procedimento di centonatura), le concordanze lessicali fra 323.5 ed i testi di
Peire d’Alvernhe appaiono abbastanza numerose ma scarsamente significative. Su
questo argomento, però, è lecito tener conto delle riserve espresse dallo
Zenker circa il valore da attribuire alle indicazioni dei testimoni favorevoli
per l’attribuzione di 323.5 a Peire d’Alvernhe alcuni dei quali (ADEIKNz), fra
l’altro, assegnano Bel m’es dous chans per la faia, BdT 323.6,
ancora a Peire mentre secondo lo Zenker, al quale si affiancheranno Maria
Picchio Simonelli, Lirica moralistica nell'Occitania del XII secolo:
Bernart de Venzac, Modena 1974, p. 17) e Aniello Fratta,
Peire d’Alvernhe, Poesie, a cura di A. F., Manziana 1996
(Filologia, 1), p. XXXIII, tale
testo è sicuramente da assegnare a Bernart de Venzac (poeta indicato dalla
rubrica di C). Lo Zenker, di conseguenza, avanzava la proposta attributiva di
323.5 a Bernart de Venzac sulla base di osservazioni linguistiche nonché di
vari punti di contatto fra il testo di 323.5 e le liriche del trovatore del
Rouergue, concludendo «Wodurch die Attribution Peire d’Alvernhe veranlasst
wurde, mag dahingestellt bleiben». A questo punto, constatata l’incertezza
delle attribuzioni fornite dai manoscritti, non resterebbe altro da fare se
non collocare 323.5 fra le poesie anonime ma, in effetti, gli argomenti
portati dallo Zenker a favore di Bernart de Venzac vanno presi in
considerazione e possono essere integrati ulteriormente. – Si è visto che
323,5 è un centone marcabruniano dalla prima alla sesta strofa, la settima,
invece, ha qualità diversa in quanto sposta la tematica del testo, fino a quel
punto un sirventese morale, sulla crociata facendone un ibrido; l’ottava
strofa, poi, che ha funzione conclusiva ed è collegata alla tornada, presenta
un tono amaro e melanconico decisamente lontano da quello, sarcastico, della
prima parte ʻmarcabruniana’. Partendo da questi dati è chiaro che gli elementi
di valutazione per un tentativo di attribuzione devono essere rilevati
preferibilmente su queste due ultime strofe che hanno maggiore possibilità di
contenere caratteristiche riferibili più propriamente all’autore del testo. In
effetti, oltre ai riferimenti marcabruniani si devono rilevare,
contestualmente, riferimenti paralleli a Bernart de Venzac: al v. 6 (Marcabru,
BdT 293.2, v. 5: «quan li prat son vermelh e groc» e Bernart de Venzac,
BdT 71.4,v. 6 «e son li prat groc e vermelh»), al v. 25, ma passim alle strofe II, III e IV (Marcabru,
BdT 293.11, v. 49: «Maritz qui l’autrui con grata» e
v. 63: «e fai son seinhor sufren» e
Bernart de Venzac 71.2, vv. 41 e ss.: «Maritz-drutz qu’autrui con bezuc / del sieu
fai lo trieu d’Espanha / et es li·n avols masclanha / si per un colp ne pren
trezens, / que luy suefre et er sufrens, / si no·s n’irays; / ben sembla que
pels autruys bays / fassa dels sieus eys sufrensa».) e ai vv. 28-32 (Marcabru,
BdT 293.29, vv. 23-24 e 29-30: «E tenon guirbautz als tisos / cui las comandon a gardar
... et aplanon los guirbaudos / e cujon lor fills piadar», nonché BdT
293.31, vv. 46-52:
«Dompna non sap d’amor fina / c’ama girbaut de maiso, / sa voluntatz la
mastina / cum fai lebrier’ab gosso /Ai! / D’aqui naisso·ill ric savai / que no
fant conduit ni pai» ed ancora BdT
293.33, vv.
24-27: «[Domnas trichans]... fan los autrus enfasi / als maritz tener e noyrir;
d’aqui naisso·l malvat avar / qu’us non ama Joi ni Deport», ma anche Bernart
de Venzac, BdT 71.3, vv. 36-37: «Aquest
parelh [la donna infedele accoppiata al recrezen] fai pairia don nays
semensa non monda», cfr. la semensa frairina di Marcabru, BdT
293.36, v. 23). Ma, oltre a questo
sorprendente intreccio di elementi intertestuali, è proprio dalle due ultime
strofe che si possono trarre quelle che appaiono le ʻspie’ più indicative di
contatto col trovatore del Rouergue: l’inizio della settima strofa (v. 37),
con l’invocazione a Sancta Maria d’Orien, che rinvia a Belh’estela
d’Orian (VI, 36) e l’inizio dell’ottava strofa (v. 43), Aissi vay lo
vers definen che rinvia ad analogo avvio di strofa conclusiva in ben tre
poesie di Bernart de Venzac: BdT 71.1, v. 50
«Del vers es prop la fenizos», BdT 71.3, vv. 43-44 «Vers la fenida s’embria /lo vers...»,
BdT 71.5, v. 50 «Lo vers vas la fin s’atraia»,
nei tre casi le strofe conclusive sono seguite da una tornada strutturalmente
simile a quella di 323.5. Come si può constatare nemmeno una delle sei poesie
che ci sono rimaste di Bernart de Venzac è priva di elementi comuni al testo
di 323.5 ma, oltre a tali riferimenti significativi, appare particolarmente
rilevante quello contenuto nel v. 37 «Sancta Maria d’Orien»: invocazione alla
Vergine che, oltre ad essere poco comune nei testi di crociata (che
generalmente privilegiano Cristo o santi come Giovanni, Nicola o Giorgio) è
decisamente rara, se non unica, nella forma specificata dal toponimo poco noto
e perciò utilizzabile solo da un autore di quella regione, appunto il Rouergue
dove, nel dipartimento dell’Aveyron sono compresi sia Venzac sia S.
Sernin-sur-Rance. Per quanto riguarda, infine, la cronologia, la datazione
proposta, 1187-1190 rientra nel pieno periodo di attività di Bernart de Venzac
quale risulta dallo studio condotto da Maria Picchio Simonelli e riconosciuto
valido da Martin de Riquer. Pertanto l’attribuzione di 323.5 a Bernart de
Venzac appare, se non assolutamente sicura, almeno la più sostenibile. – Al v.
39, per quanto riguarda il passaggio dalla seconda persona singolare alla
seconda persona plurale (guiza - fagz) tale mutazione non è
rara, in analogo contesto cfr. Peire de Corbiac che in Domna del angels regina,
BdT 338.1, dopo essersi rivolto alla Vergine usando il plurale per tutta la lirica
termina: «manda ·l filh e prega ·l paire» (v. 59) e «nos dormem mas tu ·ns
revelha» (v. 62). – Al v. 42, rispetto a «que Dieu mori(t) per nos carnau» di
EC «On Dieu mori(c) per nos carnau» di AB può considerarsi un ʻaggiustamento’:
«Che i Turchi conoscano il Segno [la croce] dove Dio morì per noi
carnalmente». L’espressione pres... mort è forse dovuta al fatto che
carnau non è stato inteso da C nella sua possibile funzione avverbiale ed
è stato, quindi, collegato al sostantivo mort. Non si è ritenuto,
comunque, di dover preferire la versione degli altri manoscritti, rimane in
dubbio se mori carnau debba considerarsi lectio difficilior. Con
intervento meno prudente si potrebbe proporre «on Dieus per nos pres mort
carnau».
[FB]
BdT
Peire d’Alvernhe
Bernart de Venzac
Translations and notes
Canzoni sulle crociate