Rialto
Repertorio informatizzato dell’antica letteratura trobadorica e occitana
154.
7
Folquet de Lunel
Tant fin’amors totas horas m’afila
Folquet de Lunel
Tant fin’amors totas horas m’afila
154.
7
Folquet de Lunel
Trad. it.
Note

I. In ogni momento l’amore gentile stimola la mia volontà, per stimolarmi a lodare la mia dama, poiché in nulla tanto più non si affina il mio duro sapere, che io non ne ho di così raffinato da poter dire una minima parte delle mille lodi che si possono dire di lei, poiché da mille anni a questa parte non è nato chi la possa dire [quella parte di lodi], non mento, e nessuno quando la loda può mentire.

II. Si come c’è virtù naturale nello zaffiro, l’orientale, più che in altro zaffiro, è meglio ben amare di nobile amore la mia dama che un’altra donna per un fine amante nobile: e vi assicuro che, da quando ho sentito il fine pregio di lei e nel mio cuore ho sentito l’amore che le porto, mai più sono stato capace di sottigliezze come un tempo, a tal punto mi smussa.

III. La mia dama è veramente di cuore sincero e umile nei confronti di un fine amante umile, quando lo trova leale, in nessun caso villano, e che non si compiaccia mai di comportarsi villanamente: è di così nobile rango e signorile che al di là di ogni donna possiede pregio signorile: e se, colui che la prega, non si ritiene del tutto sventurato, al contrario chi non la prega lei lo considera molto spregevole.

IV. Il ragno non tesse né fila affatto tanto finemente quanto finemente sarebbe necessario filare nel lodarla; se il lavoro è in tutto e per tutto fine, non ci deve essere nessuna ruvidezza, né deve essere fatto di materiale rozzo, perché è necessario che lo si affini tanto saldamente che più solidamente di un’altro si affini, sì che sia per sempre durevole: se lo si vuole fare per amore di lei, lo si deve senza alcuna riserva.

V. E chi è a conoscenza di un’arte buona, bella e magistrale che gli permetta di comporre un’opera vigorosa e magistrale e la voglia fare debole e fragile, ritengo il suo senno folle e fiacco; tale sono stato io, ma qui me ne sono reso conto, poiché ho visto il mio danno e della mia dama ho visto il fine merito; mi illumini Dio affinché io assuma un’opera che emana dalla gioia d’amore.

VI. Conte di Rodes, signore, poiché con nobile merito mantenete prestigio e di cortese amore ben amate la mia dama, la più gentile, io le reco lodi di voi, e lei le porti sia lontano che vicino (dovunque).

VII. Al buon signore di Mercuer che è sul filo di valente pregio, che non si rompe né si sfilaccia, va, canzone, a dire che non trovo chi meglio si appoggi sul fine prestigio, di quanto egli vi si appoggi.

3. Non è chiaro il significato della lezione del ms. «qu’en re tan mais nos sa subtila». Gli editori precedenti correggono in «qu’en re tan mais no s’asubtila»; Oroz Arizcuren traduce ‘pues en un asunto tan grande mi caro saber no se sutiliza tanto’, ma la sua interpretazione esige che «re» significhi ‘asunto’, ‘argomento’, e che «mais» abbia il valore – che non trovo documentato – di ‘grande’. Credo che con car saber  Folquet abbia inteso dire che, nonostante lo stimolo e l’affinamento che gli viene dalla «fin’amor», il suo sapere poetico è troppo duro, troppo rigido per essere in grado di esprimere compiutamente, con la sottigliezza, la finezza richiesta, le lodi che si possono tessere per una dama di così alto pregio. Per dare senso alla frase, mi è sembrato necessario correggere «nos sa subtila» del ms. in «me s’asubtila».

6. Tra «que» e «mil» si leggono quattro lettere delle quali la finale è indubbiamente una «–s» e la penultima probabilmente una «u» o, meglio, una «n». Quanto alle altre due, la prima potrebbe essere una «d» o una «c», la seconda non è certamente una «a», ma con molta probabilità, una «e»: «deus» (per «detz»?) o «cens»? Opto per questa seconda forma, e intendo che il poeta ammette di non essere in grado di dire neppure una parte delle mille lodi che si possono dire della sua dama, la quale tuttavia ne meriterebbe molte di più. L’interpretazione è, lo ammetto, un po’ faticosa, ma in ogni caso, non credo migliore, e anzi meno giustificabile paleograficamente e sintatticamente, la scelta di Eichelkraut e di Oroz Arizcuren, per i quali «da mille anni non è nato un uomo che possa dire quelle lodi».

20. La lettura «vila» (su cui concordano gli editori precedenti) comporta una di quelle rime equivoche contraffatte, che — secondo le Leys d’Amors — «no fan bon’acordansa» in quanto una scansione «vilá» risulterebbe incompatibile con lo schema metrico-strofico, a meno di non ammettere in questo caso una rima per l’occhio (e verso tale soluzione sembra propendere SW). È bensì vero che Folquet indulge spesso all’uso, anche in misura esorbitante, della rima franta, per non viziare la struttura a rime derivative da lui programmaticamente adottata (qui, ad esempio, «safil a» v. 9, «humil a» v. 17, «senhoril ha» v. 22, «gentil a[mor]» vv. 11-12, «senti l’a[mor]» vv.14-15 e perfino «senti·l [fin pretz]» vv. 13-14, con «funzione ingiambante» analoga a quella dei vv. 11-12 e 14-15); ma è non men vero che in tutti questi casi la rima femminile non travalica mai la frontiera della decima sillaba tonica, anche se si può (e forse si deve) ammettere un accento secondario — comunque molto tenue — sulla vocale finale risultante dalla frattura; anche l’unico esempio di rima franta ossitona («senti·l») si attiene rigorosamente alla misura decasillabica. Con «vilá», al contrario, l’accento finale interesserebbe l’undecima posizione, provocando un’ipermetria non suffragata da altri esempi nello stesso testo (un’ipermetria che invece non si rileva, nella lirica provenzale, in altri casi di avanzamento dell’accento sulla vocale atona finale): purtroppo, il problema di questo «vila» e della rima per l’occhio extramensurale in ambito provenzale non è stato affrontato neppure da A. Menichetti («Rime per l’occhio e ipometrie nella poesia romanza delle origini», Cultura neolatina, 26, 1966, pp. 5-95) che pure vi accenna di sfuggita (pp. 52-53, nota). Altre ipotesi di lettura, ad esempio un femminile *vila (da vil) non risultano documentabili (SW: «Das dem npr. vilo entsprechende Femininum scheint apr. noch nicht zu begegnen», s.v. vil), e frangere «vila» in «vil a», con «a» forma di aver, richiederebbe l’esistenza di una espressione «aver vil», analoga a «tener vil», della quale però neppure trovo attestazioni. Una soluzione alternativa, comunque abbastanza improbabile, potrebbe ottenersi assegnando ad «a» la funzione di preposizione, legandola al «que» iniziale del v. seguente, in analogia con la frattura sintattica e più spesso lessicale cui Folquet fa ricorso nei versi precedenti, e traducendo: ‘acché (o di modo che) non si compiaccia di agire vilmente’. Ma l’ipotesi più accettabile resta quella della rima per l’occhio.

24. Nel ms. le ultime parole sono sicuramente «per uil ha», e dunque sembra logica la proposta di Oroz Arizcuren di leggere il segmento finale del verso precedente («prega desuil») — in obbedienza alla tecnica dele rime derivative — «preg’ades, vil». La proposta di Eichelkraut  (v. 20: «de suil», v. 25 «per suil ha», con «suil» per solh ‘fango; sozzura’?), che eviterebbe la ripetizione in rimante di segmenti identici, se può essere eventualmente ammessa per il v. 24, non risulta ammissibile al v. 25, dove «per uil ha» non consente alternative. Perché non ammettere, a questo punto, che Folquet abbia coniato un antonimo di «vil», anteponendo alla base lessicale il prefisso negativo «des-», sull’esempio di descug, desgrat, deslau, ecc.? L’ipotesi desvil,  anche se non documentata, risolverebbe senza eccessive difficoltà i problemi posti da questi due versi. 

29, perfilar: ‘mit einer Borte, einem Besatz versehen’ (SW), dunque ‘raffinare, perfezionare’ (che è il significato ancora oggi usuale in catalano).

37. Leggo «vi·l», ‘l’ho visto, l’ho compreso’, piuttosto che, con Oroz Arizcuren, «vil» quale forma (molto ipotetica) da un verbo che dovrebbe significare ‘vigilare’ («pero ahora vigilo (?)»), ma che non saprei individuare (da velhar  si ha velh, non *vil), e meno ancora come agg. nel senso di ‘rápido, voluble, irreflexivo’, che non mi sembra pertinente.

43. Nel ms. tra «gensor» e «portil» si individuano a malapena alcune lettere, trascritte da Eichelkraut «on» e da Oroz Arizcuren «don» (in quanto «hay espacio para dos letras delante de n»). Ma non è sicuro neppure che l’ultima lettera sia davvero «n», ché anzi il tratto identificabile sembra piuttosto quello di una «u». La struttura della frase, per quanto gli usi di Folquet siano spesso anomali, non autorizza inoltre l’ipotesi di un avverbio «don» «con valor causal»: ritengo inaccettabile la costruzione che ne risulterebbe (due subordinate causali senza principale). Restando dunque nel campo delle ipotesi, proporrei qui un «ieu» soggetto di «port». Quanto al sintagma finale, la lettura che ne dà Oroz Arizcuren («porti·l») non soddisfa, in quanto l’accento di decima deve necessariamente interessare la «i», mentre «porti» quale prima persona del presente indicativo è accentata sulla «o». Preferisco quindi separare «port il» ‘reco a lei’. 

45. Mercuer è probabilmente Melguer, Melguelh, oggi Mauguio sull’omonimo stagno, ad est di Montpellier, sede di una contea legata ai sovrani di Barcellona fino alla confisca, dopo la battaglia di Muret, da parte dei re di Francia che la cedettero ai vescovi di Magalona. La tornada è dunque indirizzata allo stesso «bos avesques», citato nel Roman (vv; 521-522), che ha «aplanat» le «foldatz» di Folquet, inducendolo a non cantare più «de vanetatz» e a dedicare la sua attività poetica alle lodi della Vergine e di suo Figlio. — el fil  (Oroz Arizcuren interpreta el come articolo): cf. la traduzione che ne dà LR (III, 324 II): «(qui est) sur la ligne (de mérite vaillant)»; fil vale ‘via’, ‘cammino’, qui, come anche nel verso «Mas ieu no·m part del dreg fil» di Raimbaut d’Aurenga (BdT 389.26, v. 14) che LR  cita sotto il significato di ‘tranchant d’un instrument’, ma che Pattison correttamente traduce ‘but I do not depart from the straight path’.

Testo

Edizione e traduzione: Giuseppe Tavani 2004, con modifiche; note: Giuseppe Tavani. – Rialto 26.xii.2007.

Mss.

C 324v.

Edizioni critiche / Altre edizioni

Edizioni critiche: Franz Eichelkraut, Der Troubadour Folquet de Lunel, Berlin 1872 (rist. anast. Gèneve 1975), p. 22 (VI); F. J. Oroz Arizcuren, La lírica religiosa en la literatura provenzal antigua, Pampelune 1972, p. 144 (XIII); Federica Bianchi, BdT 154.7, Rialto 2003; Giuseppe Tavani, Folquet de Lunel, Le poesie e il Romanzo della vita mondana, Alessandria 2004, p. 64.

Metrica e musica

Metrica: a 10’ b10 a10’ b10 b10 a10’ b10 a10’ (Frank 302:1). Cinque strofe unissonanti di otto versi, due tornadas di quattro versi. Rime – a: ila; b: il. Rime deriv. 1/2 (afila/afil; safil a/ safil; humil a/ humil; fil a/fil; maestril ha/ maestril), 3/4 (s’asubtila/ subtil; gentil a/ gentil; vila/ vil; estrila/estril; fragil a/ fragil), 5/6 (mil/mil a; sentil/senti l’a; senhoril/senhoril ha; aperfil/aperfila; vil/vi la), 7/8 (guil/guila; sotil/desasotila; vil/vil ha; si l-/si l’ha; apil/apila) – tornadas: 1/2 (gentil/gentil a-; fil/desfila), 3/4 (porti·l/porti la; apil/apila).

Informazioni generali

Canzone religiosa.

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