I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
I. Sono sull’oceano sia d’estate sia d’inverno, e conosco a sufficienza il mare da navigare abilmente; e non penso di avere alcun nemico che possa farmi perdere il nord sul mare che mi è dolce, e dalla rotta non mi allontano. Così i maldicenti mando ai diavoli dell’inferno, perché non li temo né li stimo più della corteccia di un ontano; e ne conosco uno che si ferì così gravemente quando mi insultò che non lo guarivano tutti i medici di Salerno.
II. Ma ora vedo che Sordello si è montato la testa coi suoi sirventesi, con cui fa una grande confusione: sembra proprio che li versi con la brocca e che li mischi nella coppa, per cui tutte le sue parole sembrano mozze in testa. E poiché è tanto pericoloso, Dio voglia che non mi acchiappi, perché egli fece una tale bravata che fra i Lombardi non c’è più spazio per lui; e conosce tutti i baroni da Treviso fino a Gap, e quegli altri di Spagna conosce fin troppo bene.
III. Poiché mi è amico, voglio pregare Sordello di indicarmi dove andare qualora Barral mi scacci e io ne abbia un forte dolore, poiché conosce tutti i rifugi. Ma non mi mandi da quello che divenne suo nemico perché gli rifiutò una mula, sicché lui gli fu ostile: la domandò sfacciatamente, ma l’implorare a nulla gli valse. Ma dagli altri ebbe doni, quando ritornò ricco alla Spagna, e poi (ne ebbe) nel Poitou, laddove era solito donare il signor Savarico.
IV. Mai Sordello, che considerano una volpe, fu cavaliere, in fede mia: questo mi disse a quattr’occhi Joanet d’Albusson – che se ne guardi, se disse la verità –. Ma se lui fosse partito dalla Lombardia più tardi, non sarebbe mai venuto a signoreggiare su Cananillas; e sebbene si finga un amante, folle è chi gli crede, perché se gli altri Lombardi sono tutti freddi come lui, non valgono in amore: grazie a Mio Raniero me ne separo!
V. Una volta iniziato al gioco dell’amore, mai mi mossi, così credo, che piovesse o che nevicasse; anzi, so giocare cortesemente col cavaliere e con la torre, e nessuno mai seppe difendere meglio la propria donna. Ma Sordello giocò come uno stupido, poiché condusse alla rovina se stesso e la regina: subì allora uno scacco matto, per cui indossò un vile saio e al gioco d’amore non seppe più fare centro.
VI. Il signor Sordello disse tutto il male che poté del signore di León, tanto gli dà fastidio che non gli si risponda di sì quando chiede.
Edizione e traduzione: Paolo Di Luca 2008; note: Paolo Di Luca. – Rialto 10.xii.2009.
A 210r, C 345v (trasmette solo i primi tre versi in calce a BdT 293.24, attribuita ad Elias Fontsalada), D 141r, M 234r, R 28v.
Edizione diplomatica: Arthur Pakscher - Cesare De Lollis, «Il canzoniere provenzale A (Codice Vaticano 5232)», Studj di filologia romanza, III, 1891, pp. j-xxxij e 1-670, p. 649.
Edizioni critiche: Henri Pascal de Rochegude, Le Parnasse occitanien, ou Choix des poésies originales des troubadours, tirées des manuscrits nationaux, Toulouse 1819, p. 210; Giulio Bertoni - Alfred Jeanroy, «Un duel poétique au XIIIe siècle: les sirventés échangés entre Sordel et P. Brémon», Annales du Midi, 28, 1916, pp. 269-305, p. 293; Paolo Di Luca, Il trovatore Peire Bremon Ricas Novas, Modena 2008, p. 291.
Altre edizioni: Carl August Friedrich Mahn, Die Werke der Troubadours in provenzalischer Sprache, 4 voll., Berlin 1846-86, III, p. 254 (testo Rochegude); Jean Boutière, Les poésies du troubadour Peire Bremon Ricas Novas, Toulouse-Paris 1930, p. 68 (XVIII; testo e traduzione Bertoni - Jeanroy).
Metrica: a12 a12 a12 a12 a12 a12 a12 a12 (Frank 5:2). Sirventese composto da cinque coblas singulars di otto alessandrini, più una tornada di due alessandrini. Per la derivazione dello schema si veda la voce metrica di BdT 330.14.
Terzo sirventese di Ricas Novas contro Sordello, composto in risposta a Sol que m’afi (BdT 437.34). – Il sirventese è denso di riferimenti alla vita di Sordello. Viene descritto l’errare di quest’ultimo per varie corti subito dopo la dipartita dall’Italia e prima di stabilirsi definitivamente in Provenza. L’itinerario del mantovano è ridisegnato in maniera scrupolosa: si allude alle tappe intermedie di Treviso e Gap; al suo soggiorno in Spagna presso la corte di Ferdinando III di Castiglia, che apparentemente si mostrò poco prodigo nei suoi confronti, tanto da negargli il modesto donativo di una mula; alla protezione che trovò presso Savaric de Mauelon, siniscalco del Poitou; al castello che gli fu conferito da Raimondo Berengario a Chérenilles, coronamento della sua ascesa sociale alla corte provenzale. Questo vagare senza posa del trovatore viene ovviamente rievocato ai fini dell’invettiva: Sordello, accusa Ricas Novas, non è un vero trovatore, in cerca di gloria ed onore, ma piuttosto un giullare a caccia di ricchezze che spaccia la sua rozza arte per vera poesia pur di ricavarne un guadagno personale. A questo scopo viene anche chiamato in causa Joanet d’Albusson, giullare con cui Sordello scambiò una tenzone alla corte estense fra il 1226 e il 1230, Digatz mi s’es vers (BdT 265.1a = 437,10a), nella quale egli tacciava il mantovano di non essere un vero cavaliere e di essersi votato alla joglaria essenzialmente per un bisogno materiale.