Rialto    IdT

461.180

 

   

Anonimo

 

 

 

 

   
   

I.

   
   

Nuls hom non deu d’amic ni de segnor

 

Di un amico o di un signore nessuno deve dire maggior bene di quel che è appropriato al suo valore, perché difficilmente colui che loda in modo bugiardo viene considerato uno che sa biasimare con sincerità; per questo mi pento di un barone che ho lodato per niente,

   

dir mais de ben qe taing a sa valor,

 
   

car greu ten hom per lial blasmador

 
   

cel qe lausa falsamen;

 
5  

per q’eu d’un baron mi pen,

 
   

q’eu ai lausat en neien,

 
   

 

   
   

II.

   
   

ca[r] menzonza voill ab vertat cobrir,

 

perché voglio coprire la menzogna con la verità al punto che biasimerò lodi sciocche e false con parole vere, in quanto so che, nel biasimare costui, non posso mentire, perché nessuno può essere bugiardo nella misura in cui dice i mali di lui, in virtù delle sue azioni leali.

   

qe lau[s] sotz fals blasmarai ab ver dir,

 
   

q’en lui blasmar sai q’eu non puesc mentir,

 
10  

car nuls hom, tan can ditz mals

 
   

de lui, non pot esser fals,

 
   

merze de sos faiz leals.

 
   

 

   
   

III.

   
   

Tan son leals li faitz d’aqest baron,

 

Le azioni di questo barone sono tanto leali che non dico che l’impero lo porti in giudizio, ma la Chiesa gliene ha fatto largo perdono; e se essa deve perdonare il fare inganno e sbagli, facilmente gli può salvare l’anima.

   

qe l’emperis non dic qe lui caison,

 
15  

mas la glesa l’en a fatz maint perdon;

 
   

et s’ella deu perdonar

 
   

eniant ni fallimentz far,

 
   

leu li pot s’arma salvar.

 
   

 

   
   

IV.

   
   

Salvar si pot mais dels bos pelegris!

 

Si può salvare più che i buoni pellegrini! † Di lui si dolsero † il valoroso marchese Pelavicino e il marchese d’Este, dopo che fu catturato messer Ezzelino; per questo pisani e lucchesi dicono giustamente che egli non fece mai doni, in modo che fosse rimproverato a torto.

20  

† Dolc [c’]e[n] † le pros marqes Palavisis

 
   

ni·l marqes d’Est, pois fon pres N’Icelis;

 
   

pero Pisan e Luques

 
   

dison ben q’el anc no fes

 
   

don, don a tort fos repres.

 
   

 

   
   

V.

   
25  

Al pro marqes mon segnor Frederic,

 

Al valoroso marchese mio signore Federico, in cui tutti i valenti trovano buon riparo, va’, sirventese, e non fare affatto ritardo! E digli con certezza: chi distrugge non fa bontà. E che egli faccia attenzione ai suoi tiri!

   

lai on troban tout li pro bon abric,

 
   

vai, serventes, e non fair gair[e] tric!

 
   

E digas li atrasatz:

 
   

que debat non bontat fatz.

 
30  

E q’el se gard del[s] seu[s] traz!

 
   

 

   
   

VI.

   
   

[D]e cel qi fer as agatz,

 

Di colui che colpisce nelle imboscate ho riferito un po’ di verità e su di lui ho fatto cessare la menzogna.

   

ai un pauc de ver retraz

 
   

e del mentir sui affratz.

 

 

 

 

Testo: Giorgio Barachini, Rialto 21.xi.2019. 


3-4. Il senso dei due versi è che colui che fa le lodi di qualcuno in modo bugiardo non potrà essere considerato veridico qualora si metta a biasimare qualcun altro. Il trovatore accentua questo messaggio con una disposizione chiastica delle parole, dove lial si oppone a falsamen e blasmador si oppone a lausa. Le opposizioni continuano nella strofa II con menzonza opposto a vertat.

6. Il ms. fornisce la lezione en nun ten, non intelligibile. Il senso del passo è che l’autore ha in precedenza lodato il barone invano, per niente: in questo senso en nun ten potrebbe nascondere una svista paleografica per «en neien» “per niente” (accolta a testo), anche se le due espressioni attestate in provenzale sono de neien e per neien. La preposizione risulta pertanto ancora errata. Il sintagma en nun ten è interpretabile anche come «en un cen», ma bisogna di nuovo ammettere una parziale corruzione italianizzante del testo, giacché l’espressione provenzale è per un cen ‘per uno cento’, cioè ‘ho lodato il barone cento volte per ogni merito, sproporzionatamente’ (così De Bartholomaeis, Poesie provenzali, II, pp. 199, 201). Caïti-Russo (Les troubadours, pp. 394-395 e nota 1) propone di leggere e nun ten, traducendo in modo libero: forse la lezione è da interpretare come e nu·n ten “non ne tiene”, ma non è soddisfacente. Si potrebbe anche interpretare en nun ten come “in un tempo”, cioè “tempo fa, una volta, prima” (“ho lodato il barone tempo fa”); ciò, tuttavia, richiederebbe in rima un errore ten per temps/tens e sarebbe un vistoso italianismo, del quale non si avrebbero ulteriori conferme nel testo.

8. Il ms. ha qel ausutz fals, lezione dal senso impenetrabile e imputabile forse a difficoltà di lettura riscontrabili anche al verso precedente e altrove nel testo manoscritto. Bertoni (I trovatori d’Italia, p. 20), risegmentando le parole e operando due interventi (eliminazione di z e passaggio lausut > lausat), emendava «e·l lausat-fals» e traduceva: «biasimerò colui che fu lodato falsamente (a torto)». Riprende tale interpretazione anche De Bartholomaeis (Poesie provenzali, II, pp. 199, 201, seguito da Caïti-Russo, Les troubadours, p. 394), che stampa «qe lausat fals», e traduce: «biasimerò uno falsamente lodato». Mi sembrano eccessivi il forte valore sostantivato del participio passato (in De Bartholomaeis anche privo d’articolo) e il valore avverbiale di fals, che meglio poteva essere interpretato come aggettivo o, in quanto posposto, come sostantivo (di cui lausat sarebbe attributo: “il falso (che è stato) lodato”): le stesse perplessità erano espresse da Schultz-Gora nella recensione a Bertoni, I trovatori d’Italia (Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, 134, 1916, pp. 194-206). Inoltre, benché le grafie del ms. siano da ricevere con cautela, qel ausutz fals sembra nascondere un plurale e, del resto, lausat non ha causato alcun problema al copista al v. 6. Propongo, dunque, di separare diversamente le parole e leggere «qe lau[s] sotz fals» con due interventi: l’aggiunta di -s a lau (> laus pl.), caduta a contatto con la s seguente e il ritocco di sutz in sotz (plurale di sot ‘sciocco’) e traduco: “biasimerò lodi sciocche, false con parole vere”, in riferimento alle lodi che il trovatore stesso aveva in precedenza riservato al baron e che ora ritratta.

12. È evidente l’ironia presente nel verso, al limite del sarcasmo: i fatti del baron non sono per nulla leali, come viene chiarito nella strofa seguente, che è capfinida rispetto a questa.

13. Grammaticalmente leals e faitz non dovrebbero avere la -s del caso soggetto, ma la svista è talmente comune che la rettificazione non è necessaria (per essa opta comunque Caïti-Russo, Les troubadours, p. 394).

14-15. Per la forma faitz si veda la nota al verso precedente (Caïti-Russo emenda in fait). L’impero non accusa (verbo caizonar) il baron, non ha niente da rimproverargli, ma anche la Chiesa lo perdona: il concetto è che da un lato il baron è passato nel campo guelfo per convenienza (l’impero non gli è ostile), dall’altro che egli tiene ancora il piede in due staffe (la Chiesa gli concede al contempo largo perdono), benché sia sottinteso dall’intero contesto che l’accordo con la chiesa è ormai a rischio. Ciò è implicito nei versi seguenti, dove si parla della facoltà della Chiesa di assolvere il baron dai suoi peccati: Alessandro IV aveva concesso ai ghibellini che avevano combattuto contro Ezzelino, fossero essi individui o intere città, il perdono e la revoca della scomunica o dell’interdetto, a patto che non tornassero nel partito imperiale; nella lettera papale sono indicati nominaliter Boso da Dovara e Oberto Pelavicino e i Cremonesi. Sui problemi d’identificazione del baron si vedano le Circostanze storiche.

17. Il ruolo del verbo far è ambiguo: nella traduzione, come già in quella di De Bartholomaeis, esso è sostantivato («la Chiesa deve perdonare il fare inganno e sbagli»). Tuttavia, potrebbe avere funzione esclusivamente verbale: “la Chiesa deve perdonare l’inganno e commettere sbagli” (così nella traduzione di Caïti-Russo); in altre parole, se la Chiesa perdonerà il baron, commetterà uno sbaglio. L’inganno in questione è probabilmente la militanza ghibellina e il finto passaggio alla parte guelfa. Il verbo dever in provenzale può creare una perifrasi con valore di futuro.

IV. Nella strofa III l’autore sottolineava come il baron non fosse inviso alla pars Imperii, nonostante avesse ottenuto vantaggi dalla pars Ecclesiae. La strofa IV mette in evidenza il fatto che tanto un partito (Oberto Pelavicino e i pisani per i ghibellini) quanto l’altro (Azzo d’Este e i lucchesi per i guelfi) criticano e contestano il baron, non hanno mai ottenuto vantaggi dalla sua alleanza ed egli – pare – si mantiene equidistante da entrambi, per opportunismo o per ignavia.

19-21. Al di là del significato letterale, la presenza dei bos pelegris al v. 19 è da porre in relazione con Oberto Pelavicino, il pros marqes del v. 20, la cui famiglia possedeva il castello di Pellegrino nel Parmense; il ramo dei Pelavicino di Pellegrino fu fedele alleato di Oberto, che ne fece nominare alcuni membri nelle podesterie dei comuni soggiogati. Tuttavia, il rapporto sintattico tra i vv. 19 e 20 è reso inintelligibile da una corruttela testuale al v. 20: Dolce nel ms. è privo di senso. Dato che il verbo del v. 19 ha un soggetto singolare (il baron) garantito dal v. 25 e dato che al v. 20 il sintagma le pros marqes Palavisis è senza dubbio caso soggetto garantito dalla rima e coordinato con il marqes d’Est, coordinazione garantita dall’analogo parallelismo del v. 22 (Pisan e Luques), bisogna concludere che il v. 19 costituisca un periodo distinto da quello dei vv. 20-21, pertanto sotto la lezione Dolce si deve nascondere un verbo da riferire al Pelavicino e all’Estense e fors’anche una congiunzione. Il luogo rappresenta una crux desperationis: pur non sanandola, emendo Dolce in «Dolc [c]’e[n]» cioè “Dolc s’en” “se ne dolse”, sfruttando parte del materiale grafico conservato e concordando il verbo con uno solo dei due soggetti.

22-24. La città di Pisa era ghibellina, mentre la città di Lucca era guelfa. Esse sono speculari, dal punto di vista politico, a Oberto Pallavicino e Azzo d’Este: Oberto (v. 20) sta a Pisa (v. 22) come l’Estense (v. 21) sta a Lucca (v. 22), secondo un chiaro parallelismo di schieramenti. L’autore intende dire che il baron, oscillando tra un alleato e l’altro militanti in partiti opposti, non si è mai impegnato con nessuna delle due partes. Pertanto, l’opposizione non è tra i ghibellini e i pellegrini (vale a dire i filopapali, i guelfi), ma tra il baron e tutti gli altri, ghibellini o guelfi che siano: egli non ha fatto favori a nessuno e ha tenuto uguali distanze sia da Oberto e Pisa sia da Azzo e Lucca. L’espressione “egli non fece mai doni, a causa dei quali fosse rimproverato a torto” (vv. 23-24) è piuttosto criptica: non è chiaro per quale motivo il baron avrebbe dovuto essere rimproverato “a torto” per il fatto di non essersi schierato con nessuno dei contendenti (sembrerebbe quasi un errore polare). Tuttavia, il congiuntivo (fos repres) indica che si tratta di azione eventuale, pertanto si può intendere che egli non fece favori a nessuno in modo da non essere rimproverato, senza ragione, o dagli uni o dagli altri. Il dono del baron è la mancanza di un’esplicita presa di posizione per uno dei due partiti.

25. Si tratta di Federico Malaspina, figlio di Corrado l’Antico: si vedano le Circostanze storiche.

27. Il verso è ipometro nel ms. e nel testo fornito da De Bartholomaeis. Supplisco la sillaba mancante, aggiungendola a gair, la cui forma più comune è appunto gaire: il copista può essere stato tratto in inganno dalla ripetizione di sequenze grafiche identiche (fair gair). Stesso emendamento in Caïti-Russo che non segnala l’ipometria in apparato. Non è necessaria la correzione fair > fatz, presente in De Bartholomaeis: l’imperativo negativo alla seconda singolare si esprime in provenzale con non + infinito, come in questo caso, o talvolta con non + congiuntivo presente. Del resto, l’autore dà del tu al proprio testo, com’è evidente in questo verso dal vai (2a sing. dell’imperativo) e al v. 28 dal dìgas (non digàs), che è la forma della 2a sing. del congiuntivo esortativo in sostituzione dell’imperativo, adottata spesso per il verbo dire.

28. Su digas si veda la nota precedente. La grafia -atz di queste rime può corrispondere a una rima -achz, dato che atrasag, che è la forma più comune della parola, rima sempre e solo con termini che possono avere il suono ach in uno degli allomorfi (per es. fatz-fachz); in tali casi vi sarebbe stato solo un mutamento grafico achz > atz. Nel nostro testo tutte le rime in -atz potevano essere in origine rime in -achz (faitz/fachztratz/trachzagatz/agachzretrag/retrachzafratz/afrachz); tuttavia, è giocoforza intendere il fatz del v. 29 come verbo finito alla 3a singolare che garantisce una rima -atz (cfr. la nota seguente).

29. Il verso presenta alcuni problemi: la forma bonta non pare infatti ammissibile; inoltre, se considerassimo il verso come una dichiarativa retta dal digas del v. 28, dovremmo trovare un verbo al congiuntivo in dipendenza dall’imperativo o congiuntivo esortativo del verbo dire, come avviene al verso seguente con la forma se gard (da se gardar), ma l’indicativo fatz in rima non può essere emendato nel congiuntivo facha. Irricevibile è l’emendamento di De Bartholomaeis (Poesie provenzali, II, pp. 201-202: «qe debat non bontat i fatz») perché ipermetro e privo di congiuntivo. Allo stesso modo è ipermetro anche il verso di Caïti-Russo (Les troubadours, pp. 396-397: «qui·s debat non bontat i fatz», «qui se débat ne fait pas acte de bonté»). Tuttavia, si può recuperare l’idea dell’editrice francese con minimi aggiustamenti: il v. 29 costituisce un nuovo periodo e non è retto dal digas del v. 28 (a sua volta il v. 30 sarà da ritenere un’esortazione con congiuntivo indipendente). Il que del v. 29 è forma rara del pronome indefinito qui che introduce due indicativi: il verbo debatre con il senso di “disfare, distruggere” e il verbo faire. L’ipometria viene risolta emendando la scriptio bontai in bontat (il pronome non è infatti necessario in questa frase). Resta, tuttavia, un ineliminabile problema di ordine delle parole (non bontat fatz anziché bontat non fatz). A prescindere dalla correzione, il contesto (vv. 28-30) indica che l’autore suggerisce a Federico di fare attenzione ai tiri (o alle armi: tratz) del baron, che Caïti-Russo (Les troubadours, p. 397) interpreta come un’allusione al rischio della morte sulla scorta di Falquet de Romans, BdT 156.10, v. 45. Potrebbe trattarsi della previsione di uno scontro tra Federico Malaspina e il baron, consona ai fatti di Piacenza del 1260 o a quelli di Montaperti dello stesso anno: in tal caso l’autore inviterebbe il marchese a non avere pietà. Tuttavia, è possibile che «chi distrugge» sia il baron e non Federico.

30. tratz da trach, trait vale «trait, arme lancée; portée d’un trait» (PD, p. 368).

31. Il verso è stato frainteso da De Bartholomaeis (Poesie provenzali, II, pp. 201-202) che stampava «A cel qi fera s’agatz» e traduceva «per chi farà comitiva con lui» (con significato inesistente per agatz) e da Caïti-Russo (Les troubadours, pp. 396-397), che propone «E cel qui fera s’agatz», «celui qui pourrait tendre le guet-apens», dove non è chiaro cosa sia s’, potenziale pronome possessivo singolare, al quale peraltro manca la concordanza con il sostantivo agatz necessariamente plurale; inoltre, nel testo di Caïti-Russo cel è oggetto di ai retratz (v. 32), ma tale verbo presenta già un oggetto in un pauc del ver e non può averne un secondo. La locuzione as agatz presenta nel ms. as con una chiara s finale di parola, pertanto essa è da interpretare come as < AD (grafia piuttosto comune per la fricativa interdentale sonora derivata da lenizione della D) o come a·ls > as; agatz vale agachz, cioè ‘agguati’ (per la rima si veda la nota al v. 28). La lezione del ms. è pertanto molto chiara: cel qi fer as agatz “colui che colpisce negli agguati”: il barone è una persona che compie imboscate, colpisce a tradimento (ferir, «frapper»: PD, p. 187). Sui possibili riferimenti a Peire de la Caravana, D’un serventes faire (BdT 334.1) e al suo «Saill d’Agaiz» del v. 71, rimando alle Circostanze storiche. La D mancante a inizio verso è reintrodotta come complemento d’argomento.

33. Il verbo afranher significa «humilier» oppure «diminuer, faire cesser» ed è da collegare a mentir.

[GB]


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Testo    Circostanze storiche